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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Considerazioni sulla necessità di una teoria politica della guerra civile

 

 

1. Introduzione

Sin dall’alba dei tempi, la riflessione politologica aveva focalizzato nell’armonia interna la condizione indispensabile della sopravvivenza della città.

Nel Protagora di Platone si racconta che proprio l’incapacità degli uomini di vivere insieme aveva determinato l’impossibilità di intraprendere quel cammino di progresso urbano che avrebbe caratterizzato lo sviluppo della civiltà greca. Giova ricordare che Prometeo aveva regalato agli uomini tanto il fuoco quanto la capacità di usarlo per agire con efficace perizia tecnica sul mondo selvaggio. Strumenti e tecniche che aveva rubato ad Efesto e ad Athena, per permettere agli esseri umani di sopperire alle proprie carenze naturali e quindi di sopravvivere, iniziando così il loro cammino di civiltà. Gli uomini tuttavia non riuscivano a vivere insieme, perché privi di quei sentimenti di empatia e di quelle virtù politiche indispensabili per realizzare e normare una convivenza civile. Abbandonavano le città appena costruite e tornavano a vivere isolati nella wilderness, dove finivano facile preda delle fiere, perché l’assenza di quelle doti politiche non impediva solo la convivenza urbana, ma rendeva gli uomini anche inetti e privi di quella attitudine militare che avrebbe consentito loro di difendersi.

Solo l’intervento di Zeus, che aveva ordinato a Ermes di recare come doni per tutti gli uomini aidos e dike, il senso della misura e quello della giustizia sociale, permise a quelli di trasformarsi in cittadini, zooi politikoi, e quindi di instaurare quella convivenza pacifica e armoniosa che sarebbe diventata l’alveo fecondo del futuro paradigma politico, successivamente esemplare per la democrazia occidentale.

Ma Zeus, evidentemente consapevole dell’importanza dei suoi doni, non si limitò invero a tale gesto, il padre di tutti gli dei, infatti, impose a Ermes di istituire una legge divina che punisse con la morte chiunque si fosse rifiutato di partecipare di un simile dono, accusato di essere os vosos poleos, come peste della città1.

  

2. Dalla discordia all’oblio 

Nel Sofista è posta esplicitamente la domanda se nosos, malattia, e stasis siano la stessa cosa; e la risposta è positiva, perché la stasis non è altro che “la dissoluzione (diaphthorá) di ciò che è congenere per natura, prodotta da una qualche divergenza (diaphorá)” (228 a 4-8). L’equivalenza di nosos e stasis non era una scoperta platonica: Erodoto, ad esempio, parlava di Mileto che si era “ammalata” piombando in una stasis estrema (V, 28). Allo stesso modo in Tucidide (IV, 61, 1) è chiara la concezione della stasis come una delle cause principali della dissoluzione (phtheirein) della città. […] La salute tuttavia era assunta da Platone quale situazione ottimale, nella quale non sussistono né conflitto né opposizione. Essa è la norma, dalla quale si allontana il processo patologico, che disgrega l’unità cooperante del corpo e dell’anima, come quella tra le parti della città.2

Si comprende allora come fosse plausibile per gli antichi greci che chiunque si fosse rifiutato di confrontarsi con i propri concittadini, a partire da una base comune di condivisione, solidarietà e rispetto dei valori ispirati a una superiore giustizia sociale, doveva essere considerato quale fonte della più pericolosa delle malattie, la discordia e, quindi, essere punito senza esitazioni per volere divino.

La stasis era del resto un conflitto del tutto innaturale, perché combattuto tra genti greche: una guerra civile che stravolge l’ordine naturale della sociètà greca e coinvolge ogni essere vivente in uno scontro fratricida. Se infatti solo i soldati erano soliti partecipare alle guerre contro il nemico naturale, cioè i barbari, nella stasis chiunque finiva con il prendervi parte con una animosità capace di sopperire alla carenza di addestramento militare, donne e schiavi compresi3. Era un conflitto del tutto innaturale e quindi una malattia che corrodeva dall’interno la tenuta del tessuto sociale e per la quale a stento si invocava un rimedio. Essa, infatti, accompagna la storia delle poleis greche sin dagli albori, poiché la polarizzazione politica e sociale che le caratterizzava non cessò mai di alimentare discordie e conflitti.

La stasis trae costante origine dalle dinamiche conflittuali poste in essere dalle parti, il cui protagonismo politico, prima ancora che governabile, appare irriducibile ad una idea condivisa di bene comune. Gli aristoi, divisi nelle diverse eterie, associazioni di compagni uniti da un giuramentoche lottano per difendere le istanze condivise, rivaleggiavano tra loro per la detenzione del potere ed insieme contrastavano le rivendicazioni del ceto artigianale e mercantile che si identificava, invece, come soggetto politico autonomo e avverso nel demos. Una situazione conflittuale era perciò continuamente sottesa ai fragili equilibri cittadini e rischiava di esplodere in tragiche manifestazioni di inaudita violenza.

«Una discordia intestina è tanto peggiore di una guerra condotta con unità di intenti di quanto la guerra sia peggiore della pace»4. Sono queste le parole con le quali Erodoto stigmatizza la stasis, il conflitto intestino tra le fazioni di una polis, come il pericolo maggiore per la civiltà urbana greca, perché essa non divide semplicemente i contendenti sul piano dell’antagonismo riconoscibile tra amico e nemico, ma si insinua nei legami familiari ed affettivi, guastandoli irrimediabilmente ai fini di ogni futura riconciliazione.

La stasis, così descritta, diventa, pertanto, un concetto da rimuovere dalla storia, «da Solone ad Eschilo una piaga profonda al fianco della città»5 da consegnare all’oblio della memoria.

Da allora, salvo alcuni anatemi politici e poche descrizioni, tese più che altro a distinguerla dal polemos6, della stasis come oggetto di riflessione politologica si è persa sostanzialmente traccia. Del resto «che una dottrina della guerra civile manchi oggi del tutto è generalmente ammesso, senza che questa lacuna sembri preoccupare troppo giuristi e politologi»7.

  

3. La possibile ragione di una rimozione

Risolta in maniera forse troppo sintetica la definizione della stasis, rimane allora da cercare di indagare e comprendere le motivazioni per le quali la teoria politica è finora sembrata disinteressarsi ad una sua approfondita e aggiornata analisi.

A prima vista, questa lacuna sembra essere debitrice dellʼimpostazione riduzionistica che affliggeva la lettura del fenomeno svolta dagli stessi autori greci, in particolare dagli storiografi quali Erodoto, Senofonte e Tucidide8.

In quest’ottica vengono, se non accantonate, comunque del tutto sottovalutate tanto le questioni socio-economiche, quanto quelle politico-ideologiche, per ridurre le varie staseis, ed in particolare quelle che si svolgono durante la guerra del Peloponneso, «sempre e comunque in termini di pura lotta per il potere fra democratici e oligarchici o tra filoateniesi e filospartani, come se la forma di governo o la scelta di campo in politica estera costituissero degli obiettivi da perseguire di per sé e non, almeno nella maggior parte dei casi, degli strumenti da usare per conseguire altri fini»9.

Questa impostazione epistemologica rischia di semplificare l’analisi politologica, che finisce inevitabilmente con l’appiattirsi sulle esigenze della ricostruzione storiografica. Quest’ultima, infatti, legge l’epoca solo come un conflitto tra superpotenze, tanto per usare un linguaggio contemporaneo, e quindi lega il protagonismo delle varie fazioni solo alla necessità di stringere, con uno dei due grandi contendenti, una alleanza che fosse risolutiva del conflitto interno alla stessa polis.

«Quando vi erano delle discordie, ogni volta era possibile ai capi dei democratici chiamare gli Ateniesi e agli oligarchi i Lacedemoni». Ricorda infatti Tucidide: 

In tempo di pace non avrebbero avuto il pretesto e non avrebbero osato chiamarli, ma quando le due parti erano in guerra e ciascuna aveva a sua disposizione una alleanza per danneggiare gli avversari e per aumentare allo stesso tempo la sua forza, facilmente si otteneva che fossero inviate truppe in aiuto di coloro che volevano effettuare qualche mutamento politico.10

Una simile impostazione, del resto, viene adottata per leggere il fenomeno delle lotte civili tra guelfi e ghibellini che hanno angosciato la penisola italica nel Basso Medioevo, laddove evidentemente il Papato e l’Impero prendono il posto di Atene e Sparta. In tal senso, la chiosa esplicativa con la quale Machiavelli liquida il fenomeno appare evidentemente significativa dell’arretramento del protagonismo storico e della diminuzione della rilevanza politologica che il circolo vizioso della discordia cittadina e della lotta intestina comporta: 

Le inimicizie di Firenze furono sempre con sette, e perciò furono sempre dannose; né stette mai una setta vincitrice unita, se non tanto quanto la setta inimica era viva; ma come la vinta era spenta, non avendo quella che regnava più paura che la ritenesse né ordine infra sé che la frenasse, la si ridivideva.11 

Al di là della denuncia delle efferatezze criminali compiute tra le mura cittadine, la stasis sembra allora poter essere rimossa dall’approfondimento teorico e ricordata solo come mera querelle intestina sollevata per sfruttare l’occasione storica, l’opportunità politica derivante dall’antagonismo di protagonisti che calcano evidentemente scene ben più ampie.

Espressa in questi termini, non sembra, allora, essere più così singolare la carenza e quasi l’assenza di una attenzione particolare nei confronti della stasis da parte di una analisi politologica, che pare aver accettato e metabolizzato tutti i limiti di una impostazione storiografica dei termini della questione. Esiste, tuttavia, un motivo di natura squisitamente politologica che potrebbe rendere l’analisi della stasis un mero esercizio intellettuale, artificioso e astratto, il racconto di un’epoca passata del tutto incapace di ergersi a paradigma epistemologico del presente, la nascita del partito in senso moderno.

 

4. La rivalutazione dei partiti

Per quanto paradossale possa sembrare il tema, in un’epoca nella quale la cifra del mainstream culturale viene declinata nel racconto della crisi della democrazia rappresentativa dovuta alla degenerazione del sistema dei partiti, la rivalutazione del partito come istituzione garante della società democratica operata dalla ricerca politica nel diciannovesimo secolo rischia di consegnare definitivamente all’oblio quella fazione che alimentava il settarismo denunciato da Machiavelli.

Il partito, sembra quasi superfluo ricordarlo in questa sede, non ha mai goduto di una reputazione troppo favorevole. Lo stesso nome del resto non sembra una scelta tra le più felici: la parola rimanda al verbo latino parto, che significa separare o dividere, e che, quindi, rimanda alla parzialità e al disaccordo, alla conflittualità e alla disgregazione sociale.

Tutto il contrario dell’imprinting originario e fondante della civiltà occidentale che esalta l’unità contro la divisione, l’armonia contro la discordia, il consenso contro il dissenso.12

Sin dagli albori della politologia, la parola evoca il ricordo negativo della fazione irriducibile e della passione corrosiva che erodono pericolosamente l’unità organica del corpo sociale, tanto della polis greca quanto del comune medievale. Solo con grande difficoltà l’istituzione aveva potuto superare un simile pregiudizio ed offrirsi, alla metà del diciannovesimo secolo, come veicolo privilegiato delle esigenze e delle opportunità offerte dalla moderna rappresentanza13 e, quindi, come strumento per certi versi unico della congiunzione e della conciliazione tra le esigenze della libertà individuale e le ragioni dello stato moderno.

Lo stesso Benjamin Constant aveva ammonito nei suoi Principes de Politique a non illudersi di poter, allo stesso tempo, eliminare le fazioni politiche e conservare le libertà, ed invitava, semmai, ad adoperarsi per prevenire la loro pericolosità sociale e per mitigare le conseguenze delle loro affermazioni elettorali, ponendo le basi per una teoria politica che garantisse il pluralismo ed evitasse una dittatura della maggioranza, per usare una terminologia cara a Tocqueville14.

Date queste premesse, si può comprendere come, sul finire del diciannovesimo secolo, i partiti potevano essere al massimo considerati un male necessario15. 

Dove e quando la libertà non è più in piazza ma sale e si ordina in parlamento, secondo una formula cara a Cesare Balbo non meno che a Marco Minghetti, alle “parti” subentrano i partiti: gli istituti nei quali si attua la rappresentanza sono da essi verificati e vivificati ogni giorno; quelle che in piazza potevano risultare come lacerazioni distruttive dell’unità collettiva diventano in parlamento occasioni e condizioni per costruire una unità collettiva non immobile e non uguale a se stessa, fondata sulla varietà, sulla diversità, sulla libertà.16

Grazie, quindi, al loro particolare rapporto con l’istituzione cardine delle democrazie moderne, il parlamento, il partito, agli occhi degli studiosi politologi e costituzionalisti, finisce con abbandonare quella pulsione disgregatrice, «per diventare un soggetto capace di educare la società, di plasmarla, di trascinarla verso un futuro di progresso»17.

Al di là delle critiche che oggi possono comunque essere rivolte al sistema dei partiti dopo quasi due secoli di democrazia rappresentativa, e tenendo comunque presente tutte quelle che in questo lasso di tempo gli sono state effettivamente rivolte, si può affermare che la democrazia moderna sarebbe stata irrealizzabile senza l’indispensabile apporto di queste associazioni di persone, catalizzatrici tanto di ideali quanto, più prosaicamente, di interessi da aggregare in una proposta complessiva che sarebbe stata successivamente sottoposta al voto popolare.

In questo senso, sebbene la parabola positiva della istituzione partitica sembra avviata a concludersi, si può comprendere non solo come sia riuscita nel tempo a descrivere, nelle parole di Giovanni Sartori, «il tipo di organismo politico che più somiglia o dovrebbe accostarsi, al prototipo ideale in ogni democrazia delle associazioni volontarie»18, mentre in un linguaggio più vicino al tenore del presente intervento, potremmo considerarla come un vero e proprio pharmakon, capace di debellare l’insorgenza di una antica malattia.

Ma soprattutto si può comprendere perché Maurice Duverger, proprio in conclusione della sua opera monumentale Les partis Politiques auspicasse lo sviluppo di una specifica scienza dei partiti politici da chiamarsi addirittura stasiologia19, ponendo in essere una operazione semantica che, aggiornando lo studio del conflitto politico agli strumenti concessi dalla moderna democrazia, finiva con il porre la parola fine a qualsiasi velleità di restituire interesse politologico a quella antica patologia ormai finalmente debellata.

Se oggi la violenza del conflitto sembra comunque anestetizzata dalla burocratizzazione della società, secondo la terminologia cara a Max Weber20, questo è anche dovuto dalla presenza positiva dei partiti che riescono ad incanalarlo e mantenerlo vivo nellʼalveo istituzionale, dove la democrazia liberale si alimenta della espressione legittima delle tensioni peculiari di un sano e fecondo pluralismo sociale.

  

5. Conclusione

Quanto sin qui affermato potrebbe legittimare una certa carenza di interesse politologico per un simile argomento, almeno per quanti siano alla ricerca di riletture moderne di paradigmi antichi. Così facendo, tuttavia, rimarrebbe escluso dallʼanalisi scientifica uno dei passaggi giuridici e politici più controversi ed enigmatici di tale fenomeno, quella legge attribuita a Solone, che puniva con lʼatimia,ovvero con la perdita dei diritti civili, il cittadino che in una guerra civile non avesse combattuto per una delle due parti. In caso di stasis, l’equivalente della ignavia dantesca comportava una condanna, che andava ben oltre le conseguenze penali pure rilevanti, visto che a seconda della gravità del caso si poteva subire la perdita della capacità giuridica, la confisca dei beni e il confino dai territori della polis pena la morte, ma soprattutto la condanna provocava un disprezzo generalizzato da parte dei sopravvissuti, vincitori o vinti che fossero.

Si tratta di una legge dal contenuto politico surreale già per gli stessi commentatori antichi, la quale, tuttavia, proprio per il suo contenuto paradossale, non merita di essere condannata all’oblio dell’analisi politologica o alla superficiale iscrizione in quelle bizzarrie della storia, la cui difficoltà interpretativa suggerisce l’accantonamento. Non fosse altro che per l’autorevolezza del personaggio cui viene attribuita21.

Comprendere il senso della legge è impresa invero ardua per le contraddizioni politiche e giuridiche che il testo è capace di suscitare22. In questa sede tuttavia sembra interessante proporre la soluzione di rapportare il comportamento da tenere in caso di stasis non tanto alla polis intesa in senso olistico, quanto al singolo cittadino, «al polites, inteso come membro di una comunità caratterizzato da diritti, interessi e ambizioni e impegnato di norma ad affermarsi in competizione con i suoi simili. Se partiamo da questo tipo di rapporto, i fenomeni che stiamo analizzando si liberano della loro carica patologica»23 e permettono di gettare una interessante luce interpretativa sul celebre passo di Platone nel quale si ricorda come, all’interno di una singola polis, in realtà è possibile scorgere molte poleis tutte in conflitto tra di loro.

Non è compito di questo breve saggio offrire conclusioni affrettate, ma una simile lettura permette allora un recupero della stasis come paradigma politico e della legge sulla neutralità di Solone persino come stimolo alla partecipazione, descrivendo entrambe un orizzonte epistemologico sul protagonismo di cittadini e gruppi sempre più eterogeneo ed estemporaneo nella attuale condizione politica postmoderna e sulla persistenza di un conflitto endogeno alla polis sopito e anestetizzato dalla istituzionalizzazione dei partiti, ma mai del tutto sedato e risolto.

Invero già Giorgio Agamben, in una sua recente riflessione su alcune suggestioni di Nicole Loraux, ha indagato la stasis come soglia di depoliticizzazione e politicizzazione del cittadino all’interno della città, «una soglia di indifferenza fra oikos e polis, fra parentela di sangue e cittadinanza […], tra lo spazio impolitico della famiglia e quello politico della città»24. La stasis,secondo la lettura che ne dà il filosofo romano, diventa l’elemento rivelatore di una persistenza irriducibile dell’interesse familiare dell’oikos all’interno della esperienza collettiva della polis che si voleva invece totalizzante, tra interessi privati e bene comune.

In questo senso allora la stasis come paradigma politico torna ad essere funzionale per mantenere desta l’attenzione sulla profonda differenza che divide il partito moderno dalla antica fazione: 

se il primo è un gruppo di uomini unito per promuovere, attraverso tentativi congiunti, l’interesse nazionale sulla base di alcuni particolari principi, sui quali sono tutti d’accordo, la fazione è un gruppo, senza alcun principio pubblico, che dispensa favori e piaceri; il primo serve a collegare la rappresentanza alla nazione, la seconda a dividerle. Attraverso i partiti si articola l’influenza dei grandi interessi [dello stato …], mentre le fazioni hanno solo una funzione disgregatrice del tessuto sociale.25

Questa tensione polarizzante non andrebbe, tuttavia, dimenticata. L’istituzionalizzazione del partito non esclude il conflitto, semmai lo anestetizza nelle forme legali che la Costituzione prevede. Ma, complice la crisi di autorevolezza, che descrive il declino del suo protagonismo, sempre meno il partito riesce ad evitare l’affermazione di nuove soggettività, che si insinuano con diverse ambizioni e sensibilità nel lungo e travagliato processo di trasformazione della domanda pubblica in risposta politica. L’affermazione di queste ultime sembrano forse evocare il bisogno di quella stasiologia intesa come scienza dei conflitti dei partiti politici cara a Duverger. Una stasiologia che possa superare le cristallizzazioni del costituzionalismo metodologico, per indagare con maggiore elasticità e realismo i rapporti sia di natura conflittuale che cooperativa che descrivono il protagonismo delle diverse soggettività politiche partecipanti alle diverse fasi del policy cycle.

Non sembra infatti peregrino ricordare come gli studiosi del policy making, a partire dalla intuizione seminale di Theodore Lowi, concepisca le sedi del confronto politico come arene26. «Mutuando il termine dall’uso originale, laddove con arena si definiva quella parte degli anfiteatri romani dove si svolgevano gli spettacoli circensi, e in particolare, i confronti tra gladiatori, […] in questa tradizione teorica, con il concetto di arena di policy si individua, più che un luogo fisico, uno schema istituzionalizzato per la gestione del conflitto politico»27 ed in quanto tale si profila la definizione di un orizzonte epistemologico che ben potrebbe recuperare la tensione semantica espressa dal termine stasiologia.

 

Note con rimando automatico al testo

1 Platone, Protagora, 320 c-322 d, a cura di M.L. Chiesara, Milano, Rizzoli, 2010.

2 G. Cambiano, Come nave in tempesta. Il governo della città in Platone e Aristotele, Roma-Bari, Laterza, 2016, p. 122.

3 «Schiavi e donne. La stasis annulla le regole del confronto politico, vanifica le differenze di ruolo, invalida le norme sullo scontro politico che presuppone una posizione frontale, non esigibile, tuttavia da esseri alieni per natura allo scontro armato». M. Intrieri, Biaios didascalos: guerra e stasis a Corcira fra storia e storiografia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, p. 101.

4 Erodoto, Storie,VIII, 3.

5 N. Loraux, La città divisa. L’oblio nella memoria di Atene, Vicenza, Neri Pozza, 2006, p. 73.

6 In questo senso, la distinzione tra i due eventi è tracciata chiaramente nel libro V della Repubblica di Platone. «Come esistono questi due nomi, polemos e stasis, così mi pare che esistano due entità corrispondenti a due diversi tipi di contesa. Per queste due entità io intendo la parentela e lʼaffinità di stirpe da una parte, lʼestraneità di stirpe e di sangue dallʼaltra. Allʼinimicizia fra parenti è stato dato il nome di stasis, a quella fra stranieri il nome di polemos […]. Io sostengo che la razza greca è parente e affine a se stessa, ma estranea per sangue e per stirpe a quella barbarica […]. Pertanto, quando i Greci combattono contro i barbari e i barbari contro i Greci, diremo che si fanno guerra e sono nemici per natura, e a questa inimicizia va dato il nome di polemos; ma quando una cosa del genere avviene tra Greci, cioè tra uomini amici per natura, diremo che in tale circostanza la Grecia è ammalata e agitata da lotte intestine, e a questa inimicizia va dato il nome di stasis». Platone, La Repubblica, Libro V, 470, a cura di M. Vegetti, vol. IV, Napoli, Bibliopolis, 2005. Sul tema la letteratura è davvero vasta, qui basti D. Taranto, Il pensiero politico e i volti del male. Dalla “stasis” al totalitarismo, Milano, FrancoAngeli, 2014; C. Bearzot, Stasis e Polemos nel 404, in Aa. Vv., Il pensiero della guerra nel mondo antico, a cura di M. Sordi, Milano, Vita e Pensiero, 2001.

7 G. Agamben, Stasis. La guerra civile come paradigma politico, Torino, Bollati Boringhieri, 2015, p. 9. Sulla rimozione della stasis dal dibattito politologico cfr. soprattutto R. Schnur, Revolution und Weltbürgerkrieg. Studien zur Ouverture nach 1789, Berlin, Duncker & Humblot, 1983, trad. it. a cura di P.P. Portinaro, Rivoluzione e guerra civile, Milano, Giuffrè, 1989.

8 Erodoto, Storie,VIII, 3, a cura di L. Annibaletto, Milano, Mondadori, 2007. Senofonte, Elleniche, II, 4, 19 e ss., a cura di M. Ceva, Milano, Mondadori, 1996. Tucidide, La guerra del Peloponneso, III, 70, trad. it. di F. Ferrari, note di G.D. Rocchi, Milano, Rizzoli, 1985.

9 M. Moggi, ‘Stasis’, ‘prodosia’ e ‘polemos’ in Tucidide, in M. Sordi, Fazioni e congiure nel mondo antico, Milano, Vita e Pensiero, 1999, p. 54. Da segnalare l’opinione contraria dello storico britannico Andrew Lintott che sminuisce il fattore esterno come innesco di una guerra civile ed esalta il protagonismo esclusivo dellʼaristocrazia, risolvendo la stasis ad un conflitto tra oligarchie interne alla polis. A.W. Lintott, Violence, Civil Strife and Revolution in the Classical City, London & Camberra, Cromm Helm, 1982.

10 Tucidide,Le Storie III, 82, a cura di G. Donini, Torino, UTET, 1982, p. 539.

11 N. Machiavelli, Le Istorie fiorentine, VII, 1, a cura di A. Montevecchi, Torino, UTET, 2007. Lo stesso Machiavelli riconoscerà che solo in pochi momenti storici il conflitto endemico ad una città si è risolto in modo positivo per la comunità, quando cioè nella Repubblica di Roma, prima dei Gracchi, patrizi e plebei trovarono il modo di comporre il proprio dissidio e incominciarono il cammino di conquista della penisola italica. Sul punto G. Cambiano, Polis. Un modello per la cultura europea, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 82 e ss.

12 P. Ignazi, Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 3.

13 Cfr. S. Cotta, La nascita dell’idea di partito nel secolo XVIII, in «Rivista bimestrale di cultura e di politica», 3, maggio-giugno 1959, pp. 445-486.

14 «On ne peut se flatter d’exclure les factions d’une organisation politique, où l’on veut conserver les avantages de la liberté. Il faut donc travailler à rendre ces factions les plus innocentes qu’il est possible, et comme elles doivent quelquefois être victorieuses, il faut d’avance, prévenir ou adoucir les inconvénients de leur victoire». (Nel testo trad. mia). Cfr. B. Constant, Principi di politica applicabili a tutte le forme di governo, a cura di S. De Luca, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007.

15 Cfr. R. J. Dalton, S. Weldon, L’immagine pubblica dei partiti politici, un male necessario?, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», 34, 3, dicembre 2004, pp. 379-404.

16 L. Compagna, L’idea dei partiti da Hobbes a Burke, Soveria Mannelli, Rubbetttino, 2008, p. 13.

17 D. Palano, La democrazia senza partiti, Milano, Vita e Pensiero, 2015, p. 11.

18 G. Sartori, Democrazia e definizioni, Bologna, il Mulino, 1969, p. 100.

19 M. Duverger, I partiti politici, Milano, Edizioni di Comunità, 1975, p. 512.

20 M. Weber, Economia e società, Milano, Edizioni di Comunità, 1974, II, p. 291.

21 Poche sono le testimonianze in merito alla esistenza di tale legge. Ne restituisce menzione Aristotele nella Athenaion Politeia 8,5, mentre Cicerone, nelle Epistulae ad Atticum (X 1,2), allude alla legge per dire che non intende schierarsi né con i Cesariani né con i Pompeiani.

22 Cfr. C. Pecorella Longo, Sulla legge ‘soloniana’ contro la neutralità, in «Historia», 37, 1988, pp. 374-379.

23 M. Moggi, ‘Stasis’, ‘prodosia’ e ‘polemos’ in Tucidide, cit., p. 65.

24 G. Agamben, Stasis. La guerra civile come paradigma politico, cit., p. 84.

25 N. Matteucci,Organizzazione del potere e libertà, Torino, UTET, 1976, pp. 161 e ss.

26 T. Lowi, American Business, Public Policy, Case-Studies, and Political Theory,in «World Politics», 16 (4), 1964, pp. 677-715.

27 G. Capano, Arena di policy, voce in Aa. Vv., Dizionario delle politiche pubbliche, a cura di G. Capano, M. Giuliani, Roma, Carocci, 2014, pp. 30-31.