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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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La vite e l’ulivo. Il Mediterraneo

 

 

La vite l’ulivo sono le piante più caratteristiche del Mediterraneo; le troviamo in tutte le grandi opere della cultura mediterranea, come la Bibbia o l’Iliade o l’Odissea, per citarne solo alcune. La vite è originaria di regioni che sono ai confini del Mediterraneo e quasi dell’Asia centrale, quali l’Armenia e il Turkestan, ma ha trovato nell’area mediterranea il suo massimo sviluppo e soprattutto i suoi consumatori. Dal Mediterraneo ha conquistato il mondo, tanto che oggi solo il 60% della produzione mondiale viticola è mediterranea. Addirittura la vite americana ha salvato la vite mediterranea, distrutta dalla fillossera e dalla peronospera tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX secolo. Destino paradossale, analogo alla cultura mediterranea, che, trasferitasi in America, ha trovato nel Nuovo Mondo l’ambiente adatto al suo massimo sviluppo ed è poi tornata nell’area geografica di partenza per “colonizzarla”. L’ulivo è, invece, una pianta originaria del Mediterraneo, si è diffusa pochissimo fuori dell’area mediterranea, tant’è che oggi il 99% della produzione mondiale olivicola è nel Mediterraneo. Sono due piante molto forti, capaci di radicarsi in un suolo arido, come è quello del Mediterraneo, tanto che molti storici definiscono l’agricoltura mediterranea una aridocoltura. Attorno a queste due piante e alla loro coltivazione, attorno alla produzione agricola in un ambiente arido si sono formate classi sociali, altrettanto aride e capaci di radicarsi in un ambiente arido. Queste due piante rappresentano la sorte ambigua della cultura mediterranea: o riesce a impiantarsi in tutto il globo, come la vite, o rimane nella sua area originaria, come l’ulivo. È questo il destino della cultura mediterranea che non è una cultura univoca, omogenea, piuttosto è diversificata, anche se presenta caratteri comuni. E anche se questi caratteri omogenei o diversificati sono sempre fondamentali.

La aridocoltura mediterranea ha determinato fortemente la mentalità delle popolazioni mediterranee, come è ovvio che sia, visto che gli esseri umani vivono, giacciono in un luogo, possono spostarsi in un altro luogo, ma se lo fanno ad un’età sufficientemente avanzata, la loro mentalità, la loro spiritualità, finanche il loro corpo è stato già manipolato dall’ambiente. Così storicamente nel Mediterraneo ci sono state due tipologie di popolazioni, quelle che sono rimaste sempre legate al loro ambiente, che offriva sufficienti mezzi per la riproduzione della vita, come ad esempio gli egizi, o quelli che sono emigrati dentro il bacino mediterraneo, come fenici e greci, o fuori, come spagnoli o italiani. Chi è emigrato ha sempre manifestato una grande capacità di adattamento all’ambiente nuovo ed estraneo che ha occupato, dove è andato a giacere, come la vite. La loro capacità di adattamento e di manipolazione del nuovo ambiente è emersa prepotente, come prepotente era il condizionamento dell’ambiente arido dal quale provenivano e che aveva forgiato la loro mentalità. Chi è emigrato ha affrontato la differenza ambientale e l’ha superata.

Se consideriamo il Mediterraneo di oggi, allora la differenza più vistosa è tra la sponda settentrionale e occidentale e quelle meridionale e orientale, le prime due sono cristiane ed europee, le altre due islamiche e non europee. Si tratta della divisione che fu teorizzata da Henri Pirenne nel suo celeberrimo Maometto e Carlo Magno, del 1937. Ma è una differenza soltanto vistosa, cioè apparente, perché chi volesse attraversare il braccio di mare che divide la Sicilia occidentale dalla Tunisia, scoprirebbe una perfetta continuità geologica tra le due terre. Si tratta, infatti, di un’unica terra che si è spezzata, nel passato lontanissimo delle ere geologiche, a marcare l’omogeneità tra due sponde. Il Mediterraneo giace dentro questa unica terra, che gli fa da culla. Oggi queste due sponde parlano due lingue diverse, hanno due religioni diverse, se non opposte, per molti aspetti vivono due tempi storici diversi. L’omogeneità è anche presente nella tecnologia navale: barche identiche, reti, ami, e tutto ciò che il mare richiede per essere sfruttato è lo stesso, perché lo stesso è il mare, i suoi pesci, i suoi venti, il suo cielo. La diversità è di lingue, religioni, storia umana, a marcare l’omogeneità di una pratica lavorativa, di una vita quotidiana che non differisce. Matvejević rileva questa continuità o identità di tecnologia marinara e osserva:

Questo dimostra le trasmigrazioni dall’una all’altra sponda: come le parole cambiano o conservano la loro forma o il loro significato, accanto a uno stesso mare Mediterraneo.1

Volendo usare – modificandolo – il lessico di Heidegger, si può utilizzare il radicamento nel suolo, Bodenständigkeit, il trovare radici appunto in una dimensione più ampia della semplice dimensione singolare e particolare. Il radicamento nel suolo è una risposta alla Geworfenheit, all’essere gettati nel mondo. L’essere umano è un essere sociale, che pone radici nell’ambiente nel quale nasce, finisce per appartenere a un mondo. Ne possiamo dedurre che la ricerca di una dimensione collettiva o totale si conclude con la celebrazione di una coappartenenza, Zusammengehörigkeit, che è condizione naturale senza ulteriore sviluppo, senza progresso, semplice dato di partenza.

Nel caso del Mediterraneo le radici sono liquide, il Mediterraneo è la radice comune al di là delle differenze spirituali, ideologiche, linguistiche. Nel Mediterraneo, il lavoro della pesca si radica nel mare (Bodenständigkeit), e se per Heidegger il lavoro vero, il suo lavoro filosofico, cominciava nel pieno della tempesta e rassomigliava al lavoro di aratura del contadino, in quanto la scrittura era un segnare il foglio bianco come l’aratro segna la terra, anche il lavoro della pesca, della calata della rete, rassomiglia all’aratura, perché la barca percorre la superficie del mare, zigzagando, e lentamente lascia cadere la rete. Il suolo, il fondamento (Grund) per il lavoro della pesca è il mare. Il lavoro quotidiano, dal quale si trae il sostentamento per la vita, si radica nell’elemento naturale più consono: il mare. Si tenga conto anche di quella continuità geologica di cui si è scritto sopra, che è una vera e propria identità geologica, ctonia. Ecco che lavoro marittimo e terra/mare co-appartengono alla stessa natura, si crea così una relazione di co-appartenenza (Zusamenngehörigkeit). Questa natura comune ed intima del Mediterraneo è sintetizzata dallo pseudo-Aristotele del De Mundo nel nome di “Mare Interno” che egli diede al mare tra le terre. Terra e mare nel Mare Interno si appartengono a vicenda, creano una relazione reciproca (Gemeinschaft) che è una comunità unica, un vero e proprio assoluto (Allgemein letteralmente “tutto comune”).

Il Mediterraneo è mare di sentieri, di cammini, di rotte di navigazione. I suoi non sono “sentieri nei boschi” (Holzwege), in mezzo alla semioscurità delle foreste, ma nella solarità che gli è caratteristica, perché nel Mediterraneo la luce è diffusa, soffusa, i colori non splendono proprio a causa della luce che vi è diffusa: il panorama e l’ambiente appaiono in mezzo alla luce (ἐπιφάνεια). Questi cammini, queste rotte, sono state tracciate dal movimento di uomini e popoli. Sostiene Maurice Aymard che il Mediterraneo è stato

un polo di attrazione e di acculturazione, dunque. Ma anche un luogo privilegiato per la circolazione degli uomini, degli animali e delle piante, dei beni e delle tecniche, delle religioni e dei simboli. Una circolazione a volte tanto rapida da rendere difficile, di fronte a un’innovazione, distinguere se sia stata elaborata sul posto o importata dall’esterno.2

Il Mediterraneo è “mare di popoli” e questi popoli, seppure divisi da lingue, ideologie, religioni usano le stesse tecniche di pesca, lavorano alla stessa maniera lo stesso elemento naturale: il Mediterraneo. Essi co-appartengono alla stessa comunità. Appunto perché il mare apre la prospettiva orizzontale, a differenza del radicamento nel suolo che è una verticalizzazione, che comporta un’identità che si costruisce a strati, il Mediterraneo ha insito in sé la relazione tra diversi, tra diversi che non si impongono gli uni sugli altri, ma si guardano faccia a faccia. Appaiono davanti all’altro (προφέρω = “porto davanti”, “metto alla luce”, “produco”, “supero”, da cui “profeta”). Nel Mediterraneo l’Altro è l’identico, però l’identico della vita quotidiana, cioè colui che svolge lo stesso lavoro quotidiano, anche se parla un’altra lingua, ha un colore di pelle con sfumature diverse, crede in un dio che ha sfumature diverse. Il Mediterraneo è una terra di meticci, in cui si devono saper riconoscere le sfumature, ma che si possono anche ignorare. Se ci si sofferma sulle sfumature, allora il Mediterraneo diventa un mare di popoli differenti, spesso in guerra tra loro per raggiungere il dominio sull’ambiente mediterraneo, ma anche capaci di fondersi per dare vita a una comune cultura del mare. Se si sanno superare le sfumature, allora ci si accorge che il Mediterraneo è un ambiente occupato da uomini che fanno lo stesso lavoro, che stanno sulla stessa terra, che sono radicati nello stesso mare. Matvejević esprime questa situazione con la consueta abilità di scrittura: «Su tutte le rive sorgono o si svolgono, sia pure in tempi diversi, parole e attitudini che creano o restituiscono gli stati d’animo simili e comuni»3. Sono reazioni umane simili a fenomeni ambientali simili. L’essere umano è soltanto apparentemente diverso, in realtà è un’unica forma di essere organico.

Essere meticci è un incrocio di essere e non essere, di identità e non identità, dove il paesaggio ha una dimensione rovesciante la concezione eurocentrica dell’essere. Un filosofo latinoamericano, ma di origine tedesca e antico allievo di Heidegger, Rodolfo Kusch scriveva:

Il paesaggio sovverte così il senso dell’essere. Oppone all’essere, allo specchio cristallino del suo mondo ordinato, il senza-ragione che lo spezza per ribellione e autismo, con una imitatio Dei che racchiude nel suo seno i vettori di infinite possibilità di esistenza.4

Kusch parla di una ribellione di fronte al dominio dell’essere concepito alla maniera eurocentrica e la possibilità di altre esistenze, che storicamente sono state distrutte dall’assolutezza violenta dell’essere europeo, che nella sua unicità e semplicità non ammette alternative possibili. Kusch non rivendica tecnologie o modi di vita alternativi, denuncia soltanto la possibilità che l’esistenza possa non essere uniforme e omogenea. L’abitante del Mediterraneo ha coscienza di appartenere a un luogo particolare, si riconnette con il paesaggio e in esso perpetua l’immobile verità della vite e dell’ulivo. La condizione della vite e dell’ulivo è quella di chi è scoperto, scoperta che può essere fatta solo se si supera l’apparente diversità, può scoprire solo chi vede con occhi non eurocentrici. La scoperta porterà alla coscienza che nel Mediterraneo identità e differenza coappartengono ad un’unità geologica e umana e le civiltà si sovrappongono a questa unità in maniera differente, in modo da dare l’apparenza di un mondo multietnico e multiforme. Ma le civiltà, come afferma Fernand Braudel con la sua straordinaria capacità di sintesi: «attraversano il tempo, trionfano sulla durata. […] In un certo senso altrettanto imperturbabili, restano padrone del proprio spazio»5. Restano padrone dello spazio ma a partire dal tempo, dal tempo della lunga durata.

Il luogo è la categoria con la quale giudicare l’essere mediterraneo, per il motivo che indica Matvejević: «L’estensione dello spazio, la peculiarità del paesaggio, la compattezza d’assieme creano l’impressione che il Mediterraneo sia a un tempo un mondo a sé e il centro del mondo»6. Quindi lo spazio e il luogo del Mediterraneo assumono una valenza di categoria, manifestando la sua propria peculiarità. Usando il luogo come categoria, e usando ancora Kusch, si può rimettere in valore una categoria aristotelica: il κεῖμαι (lo stare): 

Lo stare è la condizione, per la sua negatività, della possibilità dell’essere. È l’infrastruttura della possibilità. Il mio progetto esistenziale è possibile soltanto se c’è negatività nell’orizzonte nel quale mi sono installato.7

Dunque lo stare è negazione dell’essere, mera condizione di possibilità rispetto all’assolutezza e unicità dell’essere, che presume anche di essere semplice, unica condizione di esistenza possibile. Sempre con Kusch si può concludere che il rapporto stare-essere è uno «stare-essendo e non “un essere che sta” o un Sein del Da-sein, come vuole Heidegger»8. Ho utilizzato Kusch perché rovescia le categorie del pensiero eurocentrico e fa sorgere, applicandole nella prassi, ulteriori aspetti, come ad esempio l’alienazione hegeliana, che, a partire dallo stare nel Mediterraneo, si può leggere sotto la forma del come fare9.

Fare ed essere nel Mare Interno sono stati visti in rapporto dialettico, cioè di superamento reciproco e, quindi, di negazione determinante. Ma per comprendere fare ed essere nel Mediterraneo si deve guardare alla prospettiva temporale e non soltanto a quella spaziale. Matvejević è molto chiaro su questo punto: «Percepire il Mediterraneo partendo solamente dal suo passato rimane un’abitudine tenace, tanto sul litorale quanto nell’entroterra». Quindi dallo spazio, dal luogo, il tempo del Mare Interno non si coglie con chiarezza. Matvejević continua:

La tendenza a confondere la rappresentazione della realtà con la realtà stessa si è perpetuata: l’immagine del Mediterraneo e il Mediterraneo reale non si identificano affatto. Qui, come altrove, un’identità dell’essere, difficile da definire, offusca o respinge un’identità del fare, poco determinata. La retrospettiva continua ad avere la meglio sulla prospettiva.10

Con il fare, con il lavoro nell’ambiente, siamo ormai dentro la dimensione temporale, che è sempre e comunque una determinazione dell’interiorità della soggettività mediterranea. Per fare, per oggettivare la propria essenza umana ci vuole sempre un Grund, un fondamento, un terreno, un suolo, uno spazio. Una domanda di Kusch può essere il principio regolatore della riflessione sul Mediterraneo, sul mare: 

Se partiamo dal concetto di non validità, l’umano diventa più concreto e sembrerebbe localizzarsi specialmente nel senso di acquisire la connotazione del luogo. Questo porta al problema della relazione tra ciò che si chiama il suolo e la filosofia. È possibile una filosofia senza suolo?11

Avendo uno spazio, il Mediterraneo ha dei confini, ma allo spazio, al luogo, corrisponde dialetticamente anche un tempo, c’è un tempo del Mediterraneo e un tempo del post-Mediterraneo. Il Mediterraneo continua ovviamente ad esistere, nella stessa identica forma e posizione da migliaia di anni, ma il suo tempo è cambiato. C’è un Mediterraneo fuori dal tempo e dallo spazio, è l’affermazione di Matvejević, che a proposito dei confini del Mediterraneo afferma: 

I suoi confini non sono definiti né nello spazio né nel tempo. Non sappiamo come fare a determinarli e in che modo: sono irriducibili alla sovranità o alla sorte, non sono né statali né nazionali: somigliano al cerchio di gesso che continua ad essere descritto e cancellato, che le onde e i venti, le imprese e le ispirazioni allargano o restringono. Lungo le coste di questo mare passava la via della seta, si incrociavano le vie del sale e delle spezie, degli olii e dei profumi, dell’ambra e degli ornamenti, degli attrezzi e delle armi, della sapienza e della conoscenza, dell’arte e della scienza.12

Il Mediterraneo descritto da Matvejević è metafisico, oltre la realtà della storia e del tempo, un Mediterraneo che esiste soltanto nella produzione immaginativa degli intellettuali, affascinante, poetico, perché superficiale. Ho citato a lungo Matvejević, perché ad un certo punto cambia il tempo dei verbi, dal presente passa al passato, mostrando al lettore i confini del tempo: il Mediterraneo era e non è più.

Il tempo in cui il Mediterraneo era il centro del mondo eurocentrico è il tempo dell’Antichità e del Medioevo, il tempo del post-Mediterraneo è il tempo della Modernità, quando, per dirla con Hegel: «L’uomo ha acquistato fiducia in se stesso (Zutrauen zu sich selbst). [...] Con l’invenzione della polvere da sparo scomparve la furia del combattimento individuale. [...] L’uomo ha scoperto l’America, i suoi tesori, i suoi popoli – scopre la natura, se stesso»13. Naturalmente Hegel non sa che la polvere da sparo è un’invenzione cinese e che la “scoperta dell’America”, quando avvenne, cioè il 12 ottobre 1492, durò pochi minuti, cominciando subito la “Conquista dell’America”, cioè quando gli spagnoli si accorsero quanto inadeguati fossero i loro vestiti, quanto ospitali fossero i costumi morali degli indios che, seppure non avessero mai visto un bianco, sfamarono e dissetarono quei poveri e miserabili spagnoli che avevano affrontato e attraversato l’Oceano per due mesi, mettendo in atto i principi di quel cristianesimo che era la religione degli spagnoli, i quali, però, usarono la loro religione, nel corso dell’intera conquista, come giustificazione ideologica per massacrare gli indios. In realtà i cristiani si comportarono come diavoli e le popolazioni locali, considerate diavoli dai cristiani, si comportarono cristianamente. Proprio nei primissimi istanti della conquista i valori religiosi e morali si rovesciarono nel loro contrario.

È opportuno chiedersi da dove venga tanta ferocia nei confronti di una popolazione di cui non si conosceva l’esistenza. Veniva da una tradizione di scontro di civilizzazioni mediterranee: gli spagnoli avevano formato la loro fede cristiana nel corso della lunga, estenuante, sanguinosa Reconquista della penisola iberica contro i musulmani. L’ideologia religiosa aveva sostenuto una così lunga e sanguinosa guerrilla contro un avversario militarmente e civilmente superiore, gli arabi. La guerrilla cristiana si era radicata nel suolo arido e montagnoso della meseta castigliana, l’ambiente, come avviene sempre con le guerriglie, era stato l’elemento vincente insieme alla demonizzazione dell’avversario. L’arabo era concepito come una creatura diabolica, nonostante l’evidente superiorità civile della civiltà islamica rispetto alla povera e inefficiente civiltà ispanico-cattolica. Inoltre gli arabi distrussero il feudalesimo spagnolo, inserendo rapporti di piccola proprietà agricola invece del latifondo. Nonostante ciò i contadini spagnoli condussero una guerra per secoli contro gli invasori stranieri, considerandoli appunto creature del diavolo, infedeli, restii alla conversione alla vera fede. E anche dopo il completamento della Reconquista continuarono a perseguitare i musulmani convertiti, moriscos, e gli ebrei convertiti, marranos, a rafforzare la scelta ideologica che aveva sostenuto la Reconquista. Agli indios fu estesa questa immagine di creature diaboliche, infedeli, indegne di vivere fuori dalla vera fede e questa visione ideologica sostenne l’Olocausto della razza india in America, il più ampio e radicale Olocausto della storia dell’umanità. In fondo gli indios furono vittime inconsapevoli e incolpevoli di uno scontro di civilizzazioni mediterranee.

Inoltre gli spagnoli scoprirono quanto miserabile fosse l’ambiente mediterraneo di fronte alla ricchezza e all’opulenza dell’ambiente americano. La “scoperta” finì davanti ai primi oggetti d’oro che gli indios portavano come ornamenti, mentre gli spagnoli, provenienti da un ambiente povero, scarso, consideravano l’oro il loro vero dio.

Uno dei testimoni della conquista, Domingo de Santo Tomas, ci dà un’immagine precisa di che cosa rappresentassero i metalli preziosi per i mediterranei poveri: 

Saranno quattro anni che, per terminare di rovinare questa terra, si è scoperta una bocca dell’inferno14 attraverso la quale ogni anno immolano una gran quantità di gente, che la cupidigia degli spagnoli sacrifica al suo dio che è l’oro, ed è una miniera di argento che si chiama Potosí.15

Bartolomé de las Casas, la prima voce critica latinoamericana nei confronti della conquista dell’America, allo stesso tempo un mediterraneo trasmigrato fuori del Mediterraneo, afferma:

Due sono state, generalmente discorrendo, le principali maniere con cui quelli che si sono recati laggiù e che si chiamano cristiani hanno estirpato e spazzato dalla faccia della terra tante infelici nazioni. In primo luogo vi sono state guerre ingiuste, crudeli, sanguinose e tiranniche. Hanno ammazzato quanti potevano bramare la libertà, sospirarla o anche solo pensarvi, oppure concepire il disegno di sottrarsi ai tormenti che pativano, vale a dire i signori del luogo e gli uomini: ché da sempre le guerre non lasciano in vita che i giovani e le donne. Poi hanno continuato ad uccidere opprimendo i superstiti con la più dura, la più orribile e acerba servitù cui uomini o bestie siano mai stati costretti. […] Non da altro mossi i cristiani hanno ammazzato e distrutto tante e tali anime, in numero incalcolabile, non da altro guidati che dalla sfrenata brama dell’oro, dal desiderio di empirsi di ricchezze [in pochissimi giorni …] sospinti da una cupidigia e da un’ambizione [insaziabile].16

Questa brama dell’oro, questa adorazione dei metalli preziosi, è all’origine del feticismo capitalistico, è all’origine della modernità post-mediterranea.

Lo stesso Marx citerà Las Casas a conferma della sua analisi del feticismo capitalistico: «I selvaggi di Cuba ritenevano che l’oro fosse il feticcio degli spagnoli»17. Marx, a sua volta, non si riferisce soltanto a Las Casas, ma anche ai Vangeli di Luca e Matteo che condannavano il culto del dio dell’oro, Mammona: «Non potete servire Dio e Mammona»18. Dunque Marx e con lui Las Casas erano consapevoli che i cristiani in America latina avevano riscoperto il culto del vitello d’oro, che Mosé aveva condannato, avevano ripreso la pratica condannata da Gesù di trasformare la religione dell’amore in religione dell’oro. La Modernità post-mediterranea nasce con il fallimento morale del cristianesimo, uno dei tre monoteismi mediterranei, quando i cristiani, di fronte a una popolazione umana che non conoscevano affatto, preferiscono praticare l’ateismo, preferiscono uccidere in nome del dio dell’amore per impossessarsi del vero feticcio dei loro desideri, l’oro e l’argento. In quel momento tragico finisce la centralità del Mare Interno e la storia si sposta negli Oceani. Al fallimento morale del cristianesimo corrisponde la fine del mondo medievale, fondato su valori sentimentali come la fiducia, e nasce il mondo moderno fondato sul valore quantitativo della ricchezza. Testimone inconsapevole di questo fallimento fu un monaco agostiniano tedesco, Martin Lutero, che nella Roma rinascimentale vide il lusso e la corruzione, finanziate dall’incipiente arrivo delle ricchezze latinoamericane. Il fallimento morale del cristianesimo si completò con la frattura tra il Nord europeo, protestante, e il Mediterraneo rimasto cattolico. La saccenteria hegeliana riproduce questo schema ideologico.

Matvejević non capisce questo rovesciamento dei valori cristiani durante la Conquista dell’America, nega l’evidenza più palese:

L’ipotesi che i naviganti abbiano trasferito dal Mediterraneo la dialettica della dissolutezza e della costrizione, dell’anarchia e della tirannide nell’America Latina, dove essa sembra essersi introdotta nelle dimensioni e con i caratteri tipici di questo continente, nessuno è riuscito a dimostrare.19

Questa evidenza è palese se si guarda la storia dalla parte delle vittime, degli indios, massacrati in nome del dio dell’amore e della carità, che era in contrasto con la ricerca spasmodica dell’oro da parte dei cristiani. Dalla parte delle vittime appare la verità chiaramente: gli spagnoli seminarono l’anarchia tra gli indios per imporvi la loro tirannide, vissero nella compiuta dissolutezza grazie alla costrizione che imposero alle loro vittime, che erano sempre vissute in mezzo all’opulenza ambientale.

Hegel ha ragione: il 12 ottobre 1492 l’uomo europeo scopre, per la prima volta nella sua storia, se stesso nella sua povertà ambientale: l’europeo scopre un altro ambiente, più ricco, più umano. Il cristiano ha per la prima volta nella sua storia la netta percezione che il paradiso può esistere sulla terra. Rousseau elaborò la sua antropologia a partire proprio da questo impatto traumatico tra povertà europea e ricchezza extraeuropea. L’unico europeo, Marco Polo, che si era allontanato dal Mediterraneo, quando vi era tornato, aveva trasmesso con una parola precisa, indicante una quantità spropositata, enorme, Milione, un preciso messaggio riguardo alla povertà dell’ambiente mediterraneo. Colombo confermò questo messaggio: fuori d’Europa l’ambiente naturale era più umano.

Hegel costruisce un “paradigma eurocentrico”, come lo definisce Enrique Dussel, a partire dalla conquista del Nuovo Mondo: 

Lo spirito germanico è lo spirito del nuovo mondo, il cui fine è la realizzazione della verità assoluta (der absoluten Wahrheit), come infinita autodeterminazione (Selbstbestimmung) della libertà, di quella libertà che ha per suo contenuto la sua stessa assoluta forma (die ihre absolute Form selbst).20

 Il “paradigma eurocentrico” è in netta opposizione al “paradigma mondiale”, e oltre a imporsi in Europa e negli Stati Uniti, si è imposto in tutto il mondo intellettuale, anche quello della periferia mondiale, come paradigma dominante. La divisione della storia nell’Età Antica, Medioevo ed Età Moderna è un’organizzazione ideologica ed eurocentrica della storia. La cronologia ha la sua geopolitica. La soggettività moderna si svilupperebbe spazialmente, secondo il “paradigma eurocentrico”, dall’Italia, e temporalmente dal Rinascimento alla Riforma e all’Illuminismo.

Il Mediterraneo, però, si è arricchito dalla conquista dell’America di nuove piante, che adesso non si riesce neanche ad immaginare non essere originarie del Mare Interno. Si pensi al pomodoro o alla patata, al mais. In realtà il paese mediterraneo che più degli altri assimila le piante provenienti dal Nuovo Mondo è l’Italia, che non partecipa direttamente alla conquista, non organizza l’Atlantico, come fecero la Spagna e il Portogallo. Braudel lo ricorda:

Questo trionfo marittimo rende subito privilegiata l’Italia: appoggiata sulle sue colonie del Levante e sulle sue filiali nel Nord, essa si è liberata dai mondi arretrati che la circondano, più moderna e più ricca di tutti.21

 Naturalmente non sarà l’Italia tutta, ma la città che orbitava nella sfera politica ed economica spagnola, cioè Genova, che monopolizzò il commercio mercantile spagnolo del Nuovo Mondo, trasportando le nuove merci in tutta l’Europa, almeno per tutto il XVI secolo. L’Italia ricambierà l’America latina con la vite, che non a caso ha seguito sempre l’emigrazione italiana, laddove l’ambiente rendesse possibile impiantarla. Così si trova la vite in Argentina, Uruguay, Brasile, Stati Uniti, Australia e Sud Africa. L’ulivo ha resistito a questa emigrazione, è rimasta una pianta mediterranea.

In realtà, però, senza la conquista dell’America, senza il saccheggio del continente latinoamericano prima e nordamericano poi, senza l’Olocausto di una razza umana, gli amerindi, la Modernità non sarebbe mai comparsa. La Modernità è stata iniziata da mediterranei, gli spagnoli, la cui strada alla Modernità fu aperta da un italiano, Colombo, che voleva mettersi sulle tracce di un altro italiano, Marco Polo. L’inizio della Modernità è un fattore storico mediterraneo, essa inizia quando i popoli mediterranei hanno acquisito la tecnologia per debordare, per trasmigrare fuori dal Mare Interno verso il grande Mare Esterno, l’Atlantico. Quando l’Atlantico ha smesso di essere un’appendice del Mediterraneo e lentamente è divenuto il centro del mondo. Quindi è totalmente fuori senso quanto afferma Matvejević: «Il Mediterraneo ha affrontato la modernità in ritardo. Non ha conosciuto il laicismo su tutte le sue sponde»22. Il Mediterraneo ha iniziato la Modernità e ha conosciuto per primo l’ateismo dal Dio delle vittime: gli spagnoli hanno creduto nel Dio che fa vittime in nome dell’amore e della misericordia e questo non era il Dio delle vittime. Altro che laicismo e Modernità in ritardo! Matvejević mostra quanto sia radicato negli intellettuali il “paradigma eurocentrico”, anche se poi auspica che l’Europa sia meno eurocentrica23.

Lo Stato-nazione è il grande protagonista dell’espansione europea fuori del Mediterraneo. Lo Stato-nazione nasce nel Mediterraneo come Stato-impero; il suo modello è la Spagna dei Re cattolici o la Francia dei Valois. La Spagna era, però, un impero nel Mediterraneo prima ancora di essere un impero extraeuropeo: l’Italia meridionale e la Sicilia erano le sue colonie. Anzi la conquista dell’America, il rafforzamento della sua potenza nel Mediterraneo, costrinse l’impero turco a guardare verso l’Asia24, in pratica svuotò il Mediterraneo dei due più grandi imperi che vi erano sorti. Non è un caso che le uniche due nazioni europee che non hanno avuto significativi imperi coloniali sono anche quelle che più tardi delle altre hanno raggiunto l’unità nazionale: Italia e Germania. Matvejević evidenzia il prezzo pagato per la formazione dello Stato-nazione: 

La creazione delle culture nazionali europee (e questo vale anche per il Nuovo Mondo) è stata accompagnata dall’eliminazione delle culture locali, regionali, marginali, dialettali, di tutto ciò che non si è lasciato assimilare nell’ambito del progetto di nazione o soprattutto di Stato-nazione.25

 Le culture locali, regionali, dialettali sono le culture dei margini del Mediterraneo, delle sue infinite coste. Nell’affermazione di Matvejević si può intendere come la creazione dello Stato-nazione abbia sconfitto la differenza culturale del Mediterraneo. Non è un caso che le capitali dei due grandi Stati-nazione mediterranei, Spagna e Francia, siano lontane dal mare – Madrid e Parigi – e che i centri economici dell’Italia siano anch’essi lontani dal mare – Torino e Milano –, e che tutte le città marinare italiane siano ridotte a centri di scarsa produzione economica, avendo perso anche la loro naturale vocazione ad essere porti importanti – Venezia, Palermo, Napoli –, con la sola eccezione di Genova, porto di Torino e Milano.

Le parole di Matvejević si possono prendere come una sintesi conclusiva di che cosa sia il Mediterraneo:

Lo spazio ricco di storia è stato vittima degli storicismi. Il pensiero meridiano stenta a rifiutare i suoi propri stereotipi. La retrospettiva continua ad avere la meglio sulla prospettiva. Un’identità dell’essere forte e radicata nelle nostre sponde, incontra un’identità del fare, inadeguata e poco sostenuta. La tendenza a confondere la rappresentazione della realtà con la realtà stessa si perpetua: l’immagine del Mediterraneo e il Mediterraneo reale non si identificano affatto.26

Ho insistito sul contrasto tra tempo storico e spazio, sul peso eccessivo della storia sul presente e soprattutto sul futuro del Mare Interno; nel Mediterraneo c’è un’identità del fare che è anche identità dell’essere, ma è lasciata in profondità, occultata dalla rappresentazione del mare con la quale è facile convivere, non pone questioni profonde, non fa intendere l’irreversibilità di processi storici che sono stati tragici e definitivi. Il Mediterraneo ha una storia che non piace, ma in verità è abitato da uomini che sono radicati in esso, nella sua struggente e tragica bellezza.

Una parte della cultura mediterranea è stata capace di trasmigrare fuori da se stessa, come la vite, e un’altra è rimasta radicata in se stessa, come l’ulivo. Le due piante, prese qui a simbolo, rappresentano la permanenza e l’adattabilità, che sono due tratti fondamentali (Grundrisse) del Mediterraneo.

 

Note con rimando automatico al testo

1 P. Matvejević, Breviario Mediterraneo, trad. it. di S. Ferrari, Milano, Garzanti, 2015, p. 232.

2 M. Aymard, “Migrazioni”, in F. Braudel, Il mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni, trad. it. di E. De Angeli, Milano, Bompiani, 2015, p. 236.

3 P. Matvejević, Breviario mediterraneo, cit., p. 21.

4 R. Kusch, La seducción de la barbarie, in Id., Obras completas, vol. I, Rosario, Fundación Ross, 2000, p. 26. La traduzione è mia.

5 F. Braudel, “La storia”, in Id., Il mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni, cit., p. 103.

6 P. Matvejević, Breviario mediterraneo, cit., p. 23.

7 R. Kusch, La negacción en el pensamiento popular, in Id., Obras completas, vol. II, cit., p. 647. La sottolineatura è mia.

8 R. Kusch, Geocultura del hombre americano, in Id., Obras completas, vol. III, cit., p. 238. La traduzione è mia.

9 R. Kusch, El pensamento indígena y popular en America, in Id., Obras completas, vol. II, cit., p. 506. La traduzione è mia.

10 P. Matvejević, Il Mediterraneo e l’Europa. Lezioni al Collège de France e altri saggi, trad. it. di G. Vulpius, Milano, Garzanti, 2008, p. 24.

11 R. Kusch, Esbozo de una antropología filosófica americana, in Id., Obras completas, vol. III, cit., p. 377. La traduzione è mia.

12 P. Matvejević, Breviario mediterraneo, cit., p. 18.

13 G.W.F. Hegel, “Introduzione”, in Lezioni sulla filosofia della storia, trad. it. di G. Calogero e C. Fatta, vol. 3/II, Firenze, La Nuova Italia, 1973, pp. 2-3.

14 È l’entrata della miniera.

15 Cit. da E. Dussel, “Modernità e dialogo interculturale”, in Id., Modernità e interculturalità per un superamento critico dell’eurocentrismo, a cura di A. Infranca, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 2012, p. 33.

16 B. de las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, trad. it. a cura di C. Acutis, Milano, Mondadori, 1992, p. 32. Le aggiunte tra parentesi quadre sono mie, ma queste parole, pur presenti nel testo originale castigliano, non compaiono nella traduzione italiana citata.

17 K. Marx, Le discussioni alla sesta dieta renana. Terzo articolo Dibattiti sulla legge contro i furti di legna, in Id. Opere complete, vol. I, Roma, Editori Riuniti, 1980, p. 263.

18 Cfr. Luca, 16,13; cfr. anche Luca 16,9 e 11 e anche Matteo, 6,24.

19 P. Matvejević, Breviario mediterraneo, cit., p. 60.

20 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, vol. IV, cit., p. 10.

21 F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. C. Pischedda, Torino, Einaudi, 1986, II ed., p. 233.

22 P. Matvejević, Il Mediterraneo e l’Europa, cit., p. 24.

23 Ivi, p. 133.

24 Cfr. F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, cit., p. 701.

25 Ivi, p. 101.

26 P. Matvejević, Breviario mediterraneo, cit., p. 310.