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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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«Con dolore e vergogna...». Simone Weil e il problema del colonialismo

 

«La collettività è più potente dell’individuo 
in tutti gli àmbiti, salvo uno solo: il pensare»

(Quaderni, I, circa 1933)

 

 

1. Premessa

La consapevolezza di Simone Weil rispetto al problema del colonialismo è immediatamente evidente sin dai primi articoli negli anni Trenta, dai quali cogliamo chiaramente i motivi del suo dissenso e, soprattutto, la grande acutezza con la quale affronta una questione spinosa e difficile.

Il tono dominante di questi scritti è amaramente ironico, un riso sardonico che taglia l’argomento con una lucidità che non lascia spazio ad alcun fraintendimento sul piano logico.

Questi testi, nei quali Simone Weil affronta esplicitamente la questione del colonialismo sono importanti, non assolutamente marginali, perché – come tenterò di dimostrare – sono fortemente connessi a tematiche e discussioni fondamentali nella sua filosofia, come quella sulla natura del diritto o a quella sullo sradicamento1. Vedremo che anche la questione della forza e dell’impossibilità di sottrarsi al meccanismo violento, complicano la questione e rendono le sue argomentazioni drammaticamente problematiche e, quindi, ancora più attuali.

 

2. Il colonialismo, vergogna della Francia

È con dolore e vergogna che io, giovane francese che non ha mai lasciato l’Europa, mi rivolgo tramite questo giornale agli Indocinesi. Questo dolore, questa vergogna risalgono a diverso tempo fa. Più di cinque anni. Da più di cinque anni, non hanno smesso di pesarmi sul cuore2.

Con queste parole Weil apre una lettera del 1936-1937 – mai spedita – ad un giornale e indirizzata idealmente agli Indocinesi, pensata per chiedere scusa degli enormi torti da loro subiti a causa della dominazione coloniale francese. Weil fa un riferimento diretto ai fatti di qualche anno prima accaduti a Yen Bai (Tonchino), scena di una fallita insurrezione nel 1930 da parte delle truppe indigene e repressa nel sangue dai francesi.

Le parole sgorgano sincere dalla filosofa e richiamano alla propria memoria e a quella dei lettori questo avvenimento del passato, in concomitanza con l’Esposizione Coloniale Universale del 1931, svoltasi a Parigi poco dopo.

L’Esposizione aveva riversato a Parigi una grandissima quantità di “attrazioni” provenienti dalle colonie. Enormi spazi erano stati allestiti come degli zoo, tentando di ricreare l’ambiente delle varie popolazioni, per dare al visitatore l’impressione di un viaggio del mondo in un giorno3.

Il contrasto tra questo spettacolo autocelebrativo e la consapevolezza della realtà del colonialismo, nata grazie alla lettura dei reportage di Louis Roubaud4, un giornalista di «Le Petit Parisien», rendono ancora più estraniante la visita all’Esposizione: 

divoravo l’articolo di Louis Roubaud. Vi leggevo come erano reclutati i coolies, come erano picchiati, come accadeva che dei capisquadra bianchi finissero per storpiare o uccidere a furia di calci degli operai annamiti, davanti ai loro compagni troppo terrorizzati per intervenire. Lacrime di vergogna mi soffocavano, e non riuscivo più a mangiare. All’Esposizione coloniale, vedevo la folla, di cui, tuttavia, una grande parte leggeva «Le Petit Parisien», contemplare la riproduzione del tempio di Angkor con soddisfatta ammirazione, stupidamente indifferente alle sofferenze causate dal regime che in esso era simboleggiato5. 

L’intento propagandistico dell’Esposizione, nata per giustificare l’impero coloniale che la Francia stava consolidando in quegli anni, si appoggia su una palese discriminazione razziale tesa a giustificare il mito dell’uomo bianco «portatore di civiltà». Queste popolazioni vengono esposte come animali in gabbia e – cosa imperdonabile per Simone Weil – in nome della Francia, lo stato che avrebbe dovuto essere il garante dei valori di “liberté, égalité, fraternité”.

Non esistono parole per giustificare questo abuso del popolo francese.

Il tono di Simone Weil è fortemente ironico, pungente, ma al contempo estremamente analitico. La sua capacità di far emergere le discordanze interne del sistema democratico è eccezionale. Un cosiddetto «sistema di diritto» fa vedere le sue lacune nel momento in cui rivela palesemente la sua vera natura, ossia quella di essere solo un sistema di potere6.

Se il diritto, che si afferma essere alla base della nazione francese, fosse davvero naturale non sarebbe possibile disconoscerlo in modo così sistematico, e inoltre sarebbe riconosciuto con la stessa chiarezza per tutti. Ma così non è, specialmente nel caso dei possedimenti coloniali.

Il possedimento coloniale, per sua natura, istituisce all’interno del paese un paradosso potenzialmente distruttivo. Si crea infatti una spaccatura tra “sudditi”, da una parte, e “cittadini”, dall’altra, alimentando un odio che non si tempera negli anni, ma anzi tende ad accrescersi sempre più. La popolazione degli stati sottoposti al dominio francese vengono così accusati di essere dei sediziosi, di organizzare movimenti di rivolta contro la Francia, ma, per Weil, è solo la Francia ad essere responsabile di questo clima, del pericolo, degli attacchi...

 

All’epoca dell’occupazione delle fabbriche, nel giugno 1936, la Francia si è divisa in due fazioni. Gli uni hanno accusato i militanti operai, quei “sobillatori”, quegli “agitatori”, di aver fomentato i disordini. Gli altri – e questi altri erano in particolare gli esponenti e i sostenitori del Fronte popolare – hanno risposto: no, coloro che hanno messo in cuore agli operai così tanta ribellione, così tanta amarezza da portarli a ricorrere infine alla forza, sono i padroni stessi, a causa della costrizione, del terrore, della miseria che per anni avevano fatto gravare sui lavoratori delle fabbriche. In quel momento, nel giugno 1936, gli uomini “di sinistra” avevano capito come si poneva il problema in Francia. Oggi si tratta dell’Africa del Nord, e quegli stessi uomini ora non comprendono più. Eppure è lo stesso problema che si pone. Sempre, ovunque vi siano degli oppressi7.

 

3. Oppressione coloniale e operaia, due pesi e due misure?

L’oppressione operaia e la colonizzazione vengono spesso paragonati da Simone Weil, non solo in questo scritto degli inizi del 1938, ma anche più tardi.

Quello che solletica maggiormente l’ironia della filosofa è il patriottismo nei confronti dei territori coloniali. A questo proposito, esemplare è l’articolo pubblicato nel 1937 su «Vigilance», dal titolo Il Marocco, o sulla prescrizione in materia di furto8, dove Weil scrive:

L'inizio dell’anno 1937 ci ha portato a un vivo stato di allerta. Il territorio della patria era minacciato. Tutta la stampa quotidiana, senza alcuna eccezione, unanime come lo è stata in questi quattro anni così belli, passati troppo in fretta, in cui il cuore di tutti i Francesi batteva all’unisono, tutta la stampa si è fieramente levata in difesa del suo sacro suolo. I dissensi civili sono subito scomparsi di fronte a questo magnifico slancio. Sì, il territorio della patria era minacciato. Quale porzione di territorio, in particolare? L’Alsazia-Lorena? Precisamente. O meglio no, non si trattava esattamente dell’Alsazia-Lorena, ma di qualcosa di equivalente. Si trattava del Marocco. Sì, il Marocco, questa provincia così essenzialmente francese9.

L’ironia tagliente della filosofa scopre con molta tranquillità le logiche che stanno alla base della politica, che diviene il luogo di attuazione di una sistematica doppia azione, una messa in pratica di una doppia morale: da una parte i veri francesi e, dall’altra, i francesi solo di nome, ossia i colonizzati.

Ciò che vediamo compiersi con la colonizzazione è un abuso della forza giustificato in nome del diritto, niente di peggio per una democrazia. LIliade o il problema della forza è dove, partendo dal poema omerico, Weil esplora le dinamiche della forza e della sopraffazione, ossia «ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa. Quando sia esercitata fino in fondo, essa fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale della parola, poiché lo trasforma in un cadavere. C’era qualcuno, e un attimo dopo non c’è nessuno».

I problemi della colonizzazione si pongono prima di tutto in termini di forza. La colonizzazione comincia quasi sempre con l’esercizio della forza nella sua forma pura, cioè tramite la conquista. Un popolo, sottomesso dalle armi, si ritrova improvvisamente a subire il dominio da parte di stranieri10.

Gli scritti sul colonialismo hanno un altro punto di contatto importante con la Venezia salva, di cui Weil inizia la stesura (mai ultimata) proprio in questo periodo; in entrambi i casi si tratta infatti dello sradicamento, di far sognare ai vinti i sogni dei vincitori11.

Nella Venezia salva, Weil descrive l’oppressore spagnolo che palesa i suoi piani e nell’intento di distruggere e sradicare i veneziani distruggendone completamente la storia. Solo la cancellazione della memoria di un popolo, infatti, è garanzia della sua sottomissione.

Nei testi di questo stesso periodo è l’atteggiamento dei francesi ad essere come quello degli oppressori spagnoli.

Tutti gli uomini, quale che sia la loro origine, il loro ambiente sociale, la loro razza, il colore della loro pelle, sono degli esseri naturalmente orgogliosi. Ovunque si opprimano degli uomini si fomenta la rivolta, tanto inesorabilmente quanto la compressione di una molla ne determina lo scatto12.

La vergogna che Weil prova nell’essere francese e, quindi, colonizzatrice suo malgrado si somma a quella di vedere come i rappresentanti della sinistra francese che, più di tutti dovrebbero essere dalla parte degli oppressi, si trovino invece dalla parte dei “padroni” ogni volta che si tratta di questioni coloniali13.

Gli oltraggi disonorano coloro che li infliggono molto più di coloro che li subiscono. Tutte le volte che un Arabo o un Indocinese sono insultati senza poter rispondere, colpiti senza poter restituire i colpi, affamati senza poter protestare, uccisi impunemente, è la Francia ad essere disonorata. Ed essa è, ahimè, in questa maniera, disonorata tutti i giorni14.

La responsabilità morale vale sempre allo stesso modo, sia a livello individuale che a livello collettivo, e non viene certo annullata dalla distanza fisica che intercorre tra la patria e le colonie.

[Arabi e Ammaniti] Quelle persone sono troppo lontane, si dice. No! Non sono lontane. Dei popoli che si trovano sotto il dominio della Francia, la cui miseria o il benessere, la vergogna o la dignità, e talvolta la stessa vita, dipendono interamente dalla politica francese, sono vicine a noi tanto quanto i luoghi stessi in cui si elabora quella politica15.

L’elemento che sembra colpire maggiormente è la discriminazione evidente e taciuta di chi ritenuto – in senso puramente astratto – un francese, ma viene mantenuto “sospeso” in una bolla, reso in un certo senso un apolide, per il fatto che si è cancellata la sua patria, la sua storia, senza renderlo tuttavia cittadino di nulla. E, oltre a tutto, costretto a combattere per la sua “non-patria”16.

Non c’è dubbio che i Francesi siano in malafede a questo proposito, dal momento che è vietato agli intellettuali indigeni, tranne in caso di favore eccezionale, studiare nella biblioteca che contiene tutti i documenti e i manoscritti riguardanti il loro paese. Quale sarebbe il sentimento degli intellettuali francesi se venisse loro interdetto l’accesso alla Bibliothèque Nationale?17

La perdita della storia, della possibilità di conoscere le fonti della propria cultura rendono impossibile la vita di un popolo, ed esemplificano l’ambìto scopo del conquistatore, ossia rendere il vinto straniero a casa propria18.

Come può la Francia condurre una guerra giusta se compie l’ingiustizia nelle colonie e le ignora? Fino a quando le promesse di assimilazioni rimangono tali, come può la Francia pensarsi come democrazia?

 

Tra i testi sul colonialismo, quello più sistematico risale al 1943, quando Weil scrive un lungo testo, La questione coloniale e il destino del popolo francese (A proposito della questione coloniale nei suoi rapporti con il destino del popolo francese), che riassume sostanzialmente i temi che la filosofa aveva già individuato in precedenza. È interessante notare che l’analisi del colonialismo che ne emerge sembra confermare le critiche ad altre problematiche del contemporaneo, ponendosi in continuità con le questioni trattate in molti altri testi, come, ad esempio, ne La prima radice, dello stesso periodo.

Questo saggio è scritto nei mesi di attività come redattrice di France Libre a Londra, e risulta molto più sistematico perché affronta la questione della decolonizzazione e dei suoi esiti sul piano nazionale e internazionale, in vista della fine del conflitto mondiale.

L’ottica è sempre quella di una Francia futura, e della sua possibilità di fondarsi su premesse diverse rispetto a quelle che hanno condotto al disastro bellico.

Una delle questioni che Weil fa emergere, in maniera più chiara, è il conflitto tra le civiltà che potenzialmente si potrebbe innescare e la necessità, quindi, di ripensare il rapporto tra Oriente e Occidente.

Il problema di una dottrina o di una fede volta ad ispirare il popolo francese in Francia, nel suo attuale stato di resistenza e nella costruzione futura, non può essere scisso dal problema della colonizzazione. Una dottrina non è confinabile all’interno di un territorio. Lo stesso spirito si esprime nelle relazioni di un popolo con coloro che lo hanno assoggettato con la forza, nelle relazioni interne di un popolo con se stesso, e nelle relazioni con coloro che da esso dipendono19.

La politica della Francia, ma soprattutto “una fede” capace di ispirare il popolo francese durante la guerra, di riorganizzarne la convivenza civile dopo la fine del conflitto, non può ripensare il problema della colonizzazione.

La colonizzazione implica una spaccatura evidente della condotta etica e politica, introduce l’ingiustizia nelle relazioni con i paesi che “dipendono” dalla madrepatria.

Dovendo affrontare un problema così complesso, Weil mette in guardia da alcuni pericoli nel giudizio, primo tra tutti, il patriottismo che potrebbe far “anteporre il proprio paese alla giustizia”, facendo dimenticare la presenza di sentimenti simili in ognuno dei popoli sottomessi.

Se c’è nella patria qualcosa di sacro, dobbiamo riconoscere che ci sono dei popoli che noi abbiamo privato della loro patria20.

In questa discussione non ci si può fidare dell’opinione dei diretti interessati, i colonizzatori, perché rappresentano solo la visione dei dominanti, «essi sono implicati nel problema». Oltre a ciò, sono proprio i colonizzatori a rappresentare la parte meno informata sui paesi che occupano, dato che non c’è alcuna conoscenza dei luoghi, ma semplice sfruttamento, senza curiosità nei confronti del passato. Proprio questa incapacità di percepire la storia di un popolo rende da un lato più facile il dominio, dall’altro più violenta la dominazione.

Come pretendere di capire anche solo in minima parte un popolo quando si dimentica che ha un passato? Forse che noi Francesi non cerchiamo la nostra ispirazione nel passato della Francia? O forse crediamo che essa sia la sola ad averne uno?21

L’ultimo pericolo può essere costituito dal cristianesimo usato come arma di conquista, dissacrando così il suo messaggio totalmente, dato che «si dà il caso che il Cristo non ha mai detto che le navi da guerra debbano accompagnare anche da lontano coloro che annunciano la buona novella»22.

La pratica coloniale sembra a Weil totalmente estranea alla storia francese; una serie di accadimenti, fortuiti o compensativi, hanno portato la Francia ad occupare territori extra. Questo rende ancora più evidente la necessità di affrontare e risolvere la questione, nella prospettiva di una nuova Francia.

 

4. Hitler, colonizzatore dEuropa

Weil è particolarmente diretta nel paragonare le pretese coloniali francesi a quelle della conquista di Hitler sul resto dell’Europa, proprio perché l’unico modo per far comprendere la realtà è quella di farla vivere sulla pelle dei colonizzatori.

La colonizzazione ha la stessa legittimità dell’analoga pretesa di Hitler sull’Europa centrale. Questo problema riguarda, al di fuori del popolo francese, il mondo inteso e in primo luogo le popolazioni assoggettate. La forza su cui poggia un impero coloniale è la flotta da guerra. […] Se è la forza che decide, la Francia ha perso la sua; se, invece, è il diritto, la Francia non ha mai avuto quello di disporre del destino delle popolazioni non francesi. In nessun caso, né di diritto, né di fatto, si può dire che i territori abitati da queste popolazioni appartengano alla Francia23.

Non sono possibili fraintendimenti, la Francia non può vantare alcun diritto su queste popolazioni e sui loro territori, l’unica prospettiva è allora la decolonizzazione.

Bisogna anche ricordare l’occasione di questo scritto, che risponde alla necessità di De Gaulle di misurarsi con la questione, tenendo conto del grande appoggio contro i tedeschi che proveniva, in primo luogo, dalle colonie. La politica di De Gaulle, in una prospettiva post-bellica, era sospesa tra il ristabilimento della pace sociale e il mantenimento dei territori coloniali24.

Per capire la vera natura della colonizzazione, nulla è più esplicativo del paragone con la situazione storica che Weil si trova a vivere. Ciò che, infatti, i popoli europei si trovano a vivere in quegli anni è la normalità della situazione coloniale.

 

Nella Venezia salva, Weil aveva descritto la forza che rende l’uomo una cosa. Il destino peggiore è, infatti, quello dello schiavo che non trova altro modo di sentirsi libero che amare il suo padrone; caso paradossale, ben illustrato dalla figura di Briseide nell’Iliade. Così il peggiore destino è quello dei colonizzati che ammirano inutilmente la loro “madrepatria”, dato che vengono comunque esclusi totalmente dal godimento dei diritti, e si trovano a dover rispondere solo dei doveri a loro imposti, come la partecipazione alla guerra come soldati.

Se vogliamo poi porre il discorso in termini di diritto, ecco che ci troviamo in un vicolo cieco.

Il male che la Germania avrebbe fatto all’Europa se l'Inghilterra non avesse impedito la vittoria tedesca è il male che fa la colonizzazione, ovvero lo sradicamento. Essa avrebbe privato i paesi conquistati del loro passato. La perdita del passato è come la caduta nell’asservimento coloniale. Questo male che la Germania ha invano tentato di farci, noi l’abbiamo fatto ad altri25.

Il male principale è la privazione della storia, della cultura, di quelle «radici multiple» alle quali ogni popolo deve poter ritornare per radicarsi autenticamente26. Più grave forse delle violenze della conquista, che accadono ma poi si placano, è il sistematico ricorso alla cancellazione della storia.

Privando i popoli della loro tradizione e di conseguenza della loro anima, la colonizzazione li riduce allo stato di materia umana27.

«Materia umana», una straordinaria definizione di una attività violenta di deprivazione che riduce gli uomini a “cosa”. Weil ne aveva già parlato ne LIliade o il poema della forza, come del peggiore degli stati dell’essere, una riduzione al piano ontico, potremmo dire.

La forza rende chiunque le è sottomesso pari a una cosa. Esercitata fino in fondo fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale del termine, poiché lo rene cadavere. C’era qualcuno e, un istante dopo, non c’è più nessuno28.

La forza peggiore non è quella che porta al cadavere, ma quella che trasforma in cosa.

La forza che uccide è una forma sommaria, grossolana della forza. Com’è più varia nei suoi modi di procedere e molto più sorprendente nei suoi effetti l’altra forza, quella che non uccide, quella che non ucciderà per certo. Sta per uccidere: sicuramente lo farà, o forse sta per farlo, oppure rimane solo sospesa sull’essere che essa in ogni istante può uccidere. Comunque essa muta un uomo in cosa, facendolo morire, deriva un altro potere […] quello di trasformare in cosa un uomo che è pur vivo. Egli è vivo, ha un’anima, tuttavia è una cosa. Un essere ben strano: una cosa che ha un’anima; che strana condizione per l’anima. Chi potrà dire quanto ci metterà ad adattarvisi in ogni istante, a torcersi e ripiegarsi su se stessa? Essa non è fatta per abitare una cosa; quando vi è obbligata non v’è più nulla in essa che non patisca violenza29.

Questo lungo brano dell’Iliade sembra in realtà il riferimento necessario per la comprensione di questo scritto sul colonialismo; è a questi meccanismi che Weil si riferisce quando parla delle violenze compiute dai francesi e non esiste, per lei, vergogna più grande.

La lotta contro Hitler non mette, quindi, i Francesi automaticamente dalla parte dei giusti, ma è necessario che essi estendano la propria coscienza libertaria a tutti i territori. Ciò che la Francia può e deve fare è stimolare il ritorno ad una identità autonoma dei popoli sottomessi, in modo da non perderne il controllo ma creando un altro tipo di legame, un vero “protettorato” e non più un’occupazione pura e semplice.

Questo cambio nell’atteggiamento è reso ancora più necessario dalla minaccia che incombe sulla stessa Europa pacificata, ossia la “colonizzazione culturale” americana.

 

Lo sradicamento, infatti, non è solo una realtà dei paesi colonizzati, ma è un problema anche per l’Europa vincitrice del conflitto, dovuto alla dominazione culturale dell’America. L’America potrebbe rappresentare un fattore di sradicamento per gli europei, facendo loro dimenticare le radici orientali.

Sappiamo fin troppo bene che dopo la guerra l’americanizzazione dell’Europa rappresenta un pericolo molto grave. [...] Questo avviene perché abbiamo l’angoscia di perderlo. La Germania ha voluto strapparcelo, l’influenza americana lo minaccia. Vi rimaniamo attaccati solo per qualche filo e non vogliamo che questi fili vengano tagliati30.

Ed è proprio nel passato che possiamo ritrovare i motivi di vicinanza all’Oriente, con cui condividiamo molto più di quanto li potrà mai legare all’America.

L’importanza fondamentale della conservazione del passato viene più volte sottolineata dalla Weil, che sembra provare un sentimento di superiorità dell’Europa rispetto all’America, della quale sottolinea l’inadeguatezza sul piano storico e filosofico!

Noi Europei ci troviamo nel mezzo. Siamo il perno. Il destino del genere umano dipende interamente da noi per un tempo probabilmente molto breve31.

L’Europa deve ritrovare il suo legame con l’Oriente, per non rischiare di cadere nelle mani degli americani. In questo senso, l’esempio di Charles de Foucauld32 potrebbe indicare una modalità di mediazione tra Occidente e Oriente.

L’origine orientale di quanto c’è di meglio nella cultura occidentale è fuori di dubbio per la filosofa, si tratta di riscoprirla e riaffermarla con forza.

In sintesi, si ha l’impressione che l’Europa abbia periodicamente bisogno di contatti reali con l’Oriente per rimanere spiritualmente viva. È vero che in Europa c’è qualcosa che si oppone allo spirito orientale, qualcosa di specificamente occidentale. Ma ciò si trova, allo stato puro e alla seconda potenza, in America e minaccia di divorarci.

La civiltà europea è una combinazione di spirito orientale con il suo contrario, combinazione in cui lo spirito d’Oriente deve entrare in una proporzione abbastanza considerevole. […] Abbiamo bisogno di una iniezione di spirito orientale33.

Il pericolo della perdita del passato è reale e particolarmente grave, dato che corrisponde ad una perdita definitiva. Infatti, «l'uomo con i suoi sforzi costruisce parzialmente il suo avvenire, ma non può fabbricarsi un passato. Può solo conservarlo»34.

La gravità di questa perdita deriva dal fatto che equivale ad una perdita della dimensione spirituale, del “soprannaturale”, di cui il passato è depositario. Non basta la nostra capacità razionale, ma sono necessari dei segni.

La proposta di Weil che, in questo testo, tenta di essere improntata al realismo politico e alle linee guida di France Libre; per questo motivo, la filosofa propone non tanto una dismissione dei protettorati (come deriverebbe logicamente dal tono dei discorsi precedenti), quanto un cambiamento nel modo di intendere questa situazione:

C’è un'unica soluzione, ed è quella di trovare per la parola “protezione” un significato non menzognero. […] L’importante è arrivare a un compromesso in base al quale popolazioni che non costituiscono delle nazioni e che si trovino per certi aspetti a dipendere da alcuni stati organizzati, siano, per altri aspetti, abbastanza indipendenti da potersi sentire libere.

Questo senso nuovo del termine protezione dovrebbe derivare dalla necessità di mantenere un vincolo, un legame con questi paesi considerati ancora troppo deboli per procedere autonomamente:

occorre che le popolazioni cosiddette di colore anche se sono ancora primitive, cessino di essere delle popolazioni sottomesse. Ma […] fare di loro delle nazioni di tipo europeo, democratiche o meno, non porterebbe a qualcosa di migliore; sarebbe piuttosto una follia, sia che ciò fosse possibile, sia che non lo fosse. Ci sono fin troppe nazioni al mondo35.

Per quale motivo sarebbe una follia? Perché Weil esclude una capacità di autodeterminazione della popolazione stessa? Non prevale, anche nel suo caso, il pregiudizio?

D’altra parte, la pretesa di trasformare politicamente il “senso” che tradizionalmente la Francia ha attribuito al termine protettorato, risulta utopisticamente inefficace e stranamente poco convincente rispetto alla normale scrittura weiliana.

L’incapacità, o la non volontà, di tagliare ogni possibilità al concetto di protettorato indebolisce la critica di Simone Weil; per quanto siano interessanti le analisi sul diritto, quelle sulla forma post-coloniale non sembrano così chiare. Sicuramente ha pesato su questo scritto, molto più che in altri, l’indicazione esplicita di France Libre di lavorare in senso programmatico in consonanza con le linee ufficiali del governo in esilio, in cui nessuno pensava alla possibilità di lasciare andare i territori coloniali.

 

Un’altra affermazione risulta discutibile, quella sul fatto che l’America non abbia colonie e che perciò non applichi alcun pregiudizio coloniale. In questo caso, la sua valutazione è fuorviata da una ingenuità o una mancanza di competenza storica, che non considera la vera natura della cosiddetta “dottrina Monroe” (1823), che nata in funzione anti-coloniale nei confronti delle pretese europee sul continente americano, in chiave indipendentista, venne di fatto utilizzata dagli americani per imporre il proprio protettorato sull’area centroamericana e caraibica, e in seguito, durante la guerra fredda su altri territori. Non si tratta forse in una forma di colonizzazione?

In ogni caso, per Weil, è molto più pressante il pericolo associato all’America come nazione che potrebbe portare l’Europa allo sradicamento, alla perdita totale del suo passato. Passato che non verrebbe più recuperato, in alcun modo.

Il grande problema dell’America è la mancanza di una coscienza chiara del valore della storia, che rischia di imporre una cancellazione anche della storia europea e francese in particolare. L’unica speranza per la Francia, di ritornare ad essere una grande nazione, proviene dalla capacità che avrà di ritornare ad essere una guida, in grado di «aprire delle strade per il genere umano» (55).

In questo senso, la Francia ha un vantaggio che è dato dal periodo di latenza del governo imposto dalla storia: nel momento in cui Weil scrive, France Libre è l’espressione di un governo in esilio, che non è immediatamente legato alla pratica, ma può permettersi di ripensare, di riprogettare, di reinventare il significato di alcuni concetti chiave del contemporaneo36. La nozione di diritto, di libertà e di protezione, proprio in nome dei principi guida che Weil ha identificato ne La prima radice.

Questa possibilità di inventiva semantica è fondamentale, ed è l’unica reale occasione per rifondare gli spazi di convivenza del futuro e della Francia stessa.

 

 

Note con rimando automatico al testo 

1 Daniel Boitier lega strettamente le due questioni, colonizzazione e sradicamento, facendo emergere la necessità di affrontare preliminarmente la questione del colonialismo per riuscire a cogliere chiaramente il valore dello sradicamento, così come viene trattato ne La prima radice. «Dans LEnracinement, l’analyse du déracinement ouvrier et paysan s’élabore à travers une série de comparaisons avec le sort de l’émigré, de l’étranger, de l’exilé. […] Mieux encore, le déracinement de la nation est explicité par une généalogie de l’État français comme État colonial. […] Il faut pourtant rechercher dans des textes antérieurs et des pensées plus lointaines l’analyse proprement dite du déracinement colonial pour montrer que ce qui fit métaphore dans l’Enracinement (ou n'y apparaît qu’au détour de l'analyse de l’État) correspond à une interrogation explicite et d’abord critique sur la colonisation» (D. Boitier, «Jallais à lExposition coloniale; jy trouvais une foule béate, incosciente, admirative», CSW, 2014, tome XXXVII, n. 1, pp. 11-12). Cfr. anche Id., Létranger dans L’Enracinement, CSW, 2003, tome XXVI, n. 4.

2 S. Weil, Lettera agli Indocinesi, in Id., La colonizzazione e il destino dellEuropa, Marietti, Genova 2009, p. 25.

3 L’Esposizione Universale di Parigi si svolse dal 7 maggio al 15 novembre 1931 a Parigi, al Bois de Vincennes. «Improntata ad insistiti intenti autoreferenziali l’Esposizione Coloniale si poneva anche il malcelato obiettivo di rilanciare propagandisticamente il ruolo della Francia come potenza mondiale e contemporaneamente non rinunciava a porsi come metafora del sedicente mandato pacificatore che, nell’ambito dell’esclusivo club delle nazioni colonialiste partecipanti alla manifestazione, avrebbe dovuto distinguere, dalle altre, le modalità di governo dei domini della Troisième Republique» (E. Sessa, LExposition Coloniale Universale de Paris 1931, in Aa. Vv., Le città dei prodotti. Imprenditoria, architettura e arte nelle grandi esposizioni, a cura di E. Mauro e E. Sessa, Grafill, Palermo 2009, p. 280). I surrealisti si schierarono contro questa Esposizione con tre manifesti, il primo dei quali dal titolo provocatorio: «Non visitate l’Esposizione Coloniale». Così scrivono: «È per radicare questo concetto-truffa che sono stati costruiti i padiglioni dell’Esposizione di Vincennes. Si tratta di dare ai cittadini della metropoli la coscienza di proprietari di cui avranno bisogno per ascoltare senza vacillare l’eco delle fucilate lontane». Firmatari sono: «André Breton, Paul Eluard, Benjamin Peret, George Sadoul, Louis Aragon, René Char, Yves Tanguy, Pierre Unik, Andre Thirion, René Crevel, Maxime Alexandre George Malkin.Abbiamo ritenuto nostro dovere rifiutare, per questo manifesto, le firme dei nostri compagni stranieri».

4 Louis Roubaud (1884-1941), giornalista autore di una serie di inchieste sulla condizione delle colonie indocinesi, che confluiranno poi in volumi, tra cui Viet Nam, Librairie Valois, Paris 1931.

5 S. Weil, Lettera agli Indocinesi, cit., p. 25.

6 Sulla vera natura del diritto e la sua estraneità al bene, cfr. M. Papini, Il diritto è estraneo al bene. Lo scandaloso pensiero di Simone Weil, Cittadella, Assisi 2009. Interessante per la distinzione sulla nozione di diritto weiliana: R. Fulco, Diritto e diritti umani in Simone Weil, in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», 2010, anno 12; T. Greco, La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil, Giappichelli, Torino 2006.

7 Chi è colpevole delle macchinazioni antifrancesi? (circa 1938), in Id., La colonizzazione..., cit., p. 56.

8 S. Weil, Il Marocco, o sulla prescrizione in materia di furto, in Id., La colonizzazione..., cit., pp. 33-40.

9 Ivi, p. 35.

10 I nuovi aspetti del problema coloniale nellImpero francese, in Id., La colonizzazione..., cit., p. 75.

11 «Bisogna che le genti di qui si sentano straniere in patria. Sradicare i popoli conquistati, è sempre stata e sempre sarà la politica dei conquistatori. Bisogna uccidere la città fino al punto che i cittadini sentano che un’insurrezione, anche fortunata, non potrebbe risuscitarla; allora si sottomettono. Le vostre volontà, le vostre fantasie, i vostri sogni, debbono essere ormai per loro l’unica realtà. Voi sarete uno di quegli uomini di cui i popoli sono costretti a vivere il sogno. Quando voi penserete la morte di uno di loro, egli morrà. Ciascun oggetto, ciascun giorno ricorderà a ciascuno – è necessario – che egli vivrà soltanto finché voi lo preferirete vivo. E anche la loro vita si modellerà sul vostro pensiero. La loro vita e la loro morte non saranno che il vostro sogno» (Venezia salva, Adelphi, Milano 1987, p. 55).

12 Chi è colpevole delle macchinazioni antifrancesi?, cit., p. 57.

13 Cfr. anche D. Canciani, Du malheur ouvrier à lenracinement, in Aa. Vv., Simone Weil. La passion de la raison, a cura di M. Calle e E. Gruber, L’Harmattan, Paris 2003, pp. 191-220; Id., Simone Weil. Le courage de penser, Beauchesne, Paris 2011, pp. 282-312. Cfr. anche R. Chenavier, Simone Weil. Lattenzione al reale, a cura di F. Negri, Asterios, Trieste 2016, p. 23.

14 Chi è colpevole delle macchinazioni antifrancesi?, cit., p. 59.

15 La questione coloniale e il destino dellEuropa, cit., p. 94.

16 Interessante anche il testo Il trattamento dei prigionieri di guerra neri dellesercito francese (1942), nel quale con estrema accuratezza e dimostrando la sua informazione sulla questione, richiama la sorte ancora più crudele dei prigionieri neri, vessati in modo ancora più violento dai Tedeschi. La firma riporta in auge lo pseudonimo, che Simone Weil aveva spesso usato, sia nella scrittura privata (lettere) che pubblica (articoli firmati Galois o Émile Novis nei «Cahiers du Sud»). Questa volta si firma “Francis Brown” per richiamare la sua nazionalità francese e la sua vicinanza alle persone di colore, perseguitate ingiustamente.

17 La questione coloniale, cit., p. 108

18 A questo proposito è interessante anche la lettera del 1939-1940, che Weil indirizza (forse senza spedirla) a Jean Giraudoux, commissario dell’Informazione, che aveva ribadito il clima di amore disinteressato delle colonie nei confronti della Francia. Weil scrive: «Darei la mia vita e anche di più, se possibile, per poter pensare che le cose stiano così, poiché è doloroso sentirsi colpevoli di complicità involontaria. Ma non appena ci si informa e si studia la questione, è chiaro come il sole che non è affatto così. Quanti uomini sono privati per colpa nostra della loro patria e che noi costringiamo adesso a morire per farci conservare la nostra? Non era quello un paese pacifico, unico, organizzato, di antica cultura, permeato di influenze cinesi, indù, buddiste? […] Noi abbiamo ucciso la loro cultura; impediamo loro di accedere ai manoscritti della loro lingua; abbiamo imposto a un piccolo gruppo la nostra cultura che non ha radici presso quel popolo e non può fargli alcun bene» (Lettera a Jean Giraudoux, cit., p. 98).

19 Utilizzerò per questo saggio la prima traduzione italiana di questo testo a cura di D. Canciani (Simone Weil, Sul colonialismo. Verso un incontro tra Occidente e Oriente, a cura di D. Canciani, Medusa, Milano 2003), tuttavia è disponibile anche un’altra versione in S. Weil, A proposito della questione coloniale nei suoi rapporti con il destino del popolo francese, cit., p. 127.

20 S. Weil, Sul colonialismo,cit., p. 30.

21 Ivi, p. 31.

22Ivi, p. 32.

23Ivi, pp. 34-35.

24 Cfr. osservazioni introduttive di D. Canciani in S. Weil, Une pensée libre, Edizioni Libreria Rinoceronte,Padova 2001, p. 93.

25 A proposito della questione coloniale..., cit., p. 133.

26 «Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente. Gli scambi di influenze fra ambienti molto diversi fra loro sono altrettanto indispensabili quanto il radicamento nell'ambiente naturale» (S. Weil, La prima radice, SE, Milano 1990, p. 49).

27 S. Weil, LIliade o il poema della forza,Asterios, Trieste 2012, p. 39.

28Ivi, p. 40.

29Ivi, pp. 41-42.

30Ivi, pp. 42-43.

31 S. Weil, Sul colonialismo, cit., p. 51.

32 Charles de Foucauld (1858-1916), visconte di Pontbriand, militare francese convertitosi e divenuto trappista, visse in Palestina e in Algeria, dove divenne studioso della lingua e della cultura dei Tuareg.

33 S. Weil, Sul colonialismo, cit., p. 46,

34Ivi, p. 49.

35Ivi, p 52.

36 «Il Progetto per la formazione si basa sulla stessa necessità di cambio del simbolico, unico modo per “ri-abitare” diversamente il mondo […]. Il valore del convincimento mediatico – prima di tutto esercitato dal linguaggio e poi da radio e propaganda –, è uno dei punti più compresi e sfruttati da Hitler. Su questo si deve fondare e presentare la propria diversità».