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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
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L’assenza del Mediterraneo ne "La peste" di Camus

 

Albert Camus

 

La città di Orano è una città senza mare. Ha un porto e l’estate i bagnanti vanno sulla spiaggia, ma non ha il mare. Durante un colloquio decisivo con Tarrou, il figlio di un procuratore, straniero nella città, che tiene nei suoi taccuini la sua cronaca dell’epidemia, il protagonista, il medico Bernard Rieux, cerca, istantaneamente, una via di fuga dalla situazione presente:

Rieux si voltò verso la finestra. In lontananza, dove l’orizzonte si addensava più scuro, indovinava il mare1

Il mare, nel La peste è «sempre invisibile»2. C’è, ma non si vede: 

Dal mare agitato e sempre invisibile saliva un odore d’alghe e di sale; e la città deserta, sbiancata dalla polvere, satura di odori marini, tutta sonora dei gridi del vento, gemeva allora come un’isola maledetta3.

Benché presente, il mare resta fuori della quotidianità degli abitanti di Orano, sia prima che durante l’epidemia della peste. Si tratta, crediamo, della lotta dell’Aperto contro il Chiuso, della speranza dell’Aperto, della possibilità stessa di una via di fuga da un esilio che, nella riduzione in cattività di tutti gli abitanti, ridotti a prigionieri e condannati, sembra senza fine. È il mare, infatti, che collega la popolazione di Orano col resto dell’umanità. Non è un caso che Camus scriva che l’appello di solidarietà fraterna via radio, lanciato da Rieux, «traversava i mari»4. Ecco la situazione-limite a cui si è costretti: una città senza mare, sequestrata dal mare, il cui porto, in seguito all’isolamento del cordone sanitario, è stato chiuso e le cui porte sono serrate. Orano si priva così della possibilità stessa di salvarsi. Il mare, certamente, continua a esistere, ma lo si può vedere soltanto, per effetto di una gigantesca rimozione collettiva, da una corta passeggiata che ospita il monumento ai caduti di Orano, «di fianco alle scogliere che sovrastano il porto», un porto le cui banchine sono vuote e deserte per i provvedimenti adottati dalle autorità sanitarie5. Nell’intensa attività di assistenza ai malati del dottor Rieux, il mare diventa l’orizzonte verso il quale gettare, ogni tanto, un’occhiata, per trovare un momento di ristoro, una sospensione dall’angoscia e dagli affanni prodotti dal combattimento quotidiano contro il male:

Rieux si voltò verso la finestra. In lontananza, dove l’orizzonte si addensava più scuro, indovinava il mare6.

«Si sta bene» disse Rieux sedendo, «è come se la peste non fosse mai salita qui». Tarrou, voltandogli le spalle, guardava il mare7.

La progressione della malattia spinge gli amministratori a usare il mare, che rappresentava la possibilità di liberazione dall’assedio della morte, come scenario del trasporto dei cadaveri per la cremazione:

E per tutta la fine dell’estate, come in mezzo alle piogge d’autunno, si poterono veder passare, lungo la circonvallazione, nel cuore d’ogni notte, strani convogli di tram senza passeggeri; beccheggiavano alti sul mare [...] dei gruppi giunsero sovente a inserirsi tra le rocce a strapiombo sul mare, e a lanciar fiori nelle vetture, al passaggio dei tram8.

Il mare diventa così un mare di morte, un bacino di distruzione, in cui si può perfino pensare, qualora sia necessario, come soluzione disperata, di lanciare i cadaveri9. La circostanza singolare che la morte, sotto forma della peste, sia «un’interminabile sconfitta»10 per gli uomini è un qualcosa a cui non ci si può abituare. Più generalmente, per Camus, non si può accettare la condizione umana nella sua radicale privazione, la “miseria”. Eppure la miseria è la radice dell’esistenza per molti uomini. La sua importanza non può essere trascurata. Nel periodo peggiore dell’epidemia di peste a Orano si scorge la miseria «mostrarsi più forte della paura» di morire11. La miseria appare come una vera e propria perdita di essenza per gli uomini, cioè una condizione che sopprime ogni traccia della loro dignità di esseri razionali. Tutte le esigenze morali dell’umanesimo e l’entusiasmo degli ideali illuministici vengono meno di fronte a questo spettro.

Nella città trasformata in una prigione, gli uomini diventano dei miserabili, dei forzati. E, nella loro miseria, si distinguono appena dai cani. È la condizione in cui carestia e paura della morte spingono verso l’estremo abisso. La città di Orano diventa ne La peste il simbolo della miseria di un’umanità prigioniera e in esilio. Ormai non si potrà più che coniugare al passato di ciò che è l’uomo12. È proclamata la fine dell’uomo, che soccombe all’assedio e al regime di stato d’assedio provocato dalla peste.

Ma dopo tutto, a chi mai, tra quella folla terrorizzata e decimata, si era lasciato l’agio di esercitare il suo mestiere di uomo?13

La miseria è la condizione ineluttabile degli uomini imprigionati dal male, condannati alla morte, esiliati dal resto del mondo e la cui città ha un mare invisibile, irreale.

Scrive Camus in un’illuminante testo, Lestate:

Sono cresciuto sul mare e la povertà mi è stata fastosa, poi ho perduto il mare, tutti i lussi mi sono sembrati grigi, la miseria intollerabile14.

Gli abitanti di Orano non vedono il mare, perché non vedono neppure se stessi o i propri simili. Non si prendono più cura di nulla. Sono stati spinti a un punto di apparente non ritorno. Sarà possibile tra loro soltanto una «solidarietà d’assediati» nella quale ogni individuo è rinviato alla sua solitudine15. Gli uomini, prigionieri dell’assedio della peste, sono vittime della violenza del morbo, che non distrugge soltanto i loro corpi, ma annulla anche la loro libertà e ricopre i loro destini. Eliminata la morale e i suoi giudizi di valore, l’entusiasmo e la speranza, la peste riconduce tutti gli abitanti al comune destino dell’esilio da questa terra16. È paradossale, ma si può essere esiliati persino nella propria terra d’origine, quando si rompe il vincolo sociale che lega gli uomini nella lotta contro la paura e la morte. Ne La peste la dimensione collettiva è un legame che soltanto il male svela. Il vero male, infatti, è il male di tutti, la forza che imprigiona tutti e li consegna a un destino di morte. Per questa ragione la peste pone di fronte al dovere di combatterla17.

All’inizio del romanzo Orano è descritta come una città delle abitudini, delle banalità, delle chiusure. La città si adagia in un luogo ameno:

è inserita in un paesaggio impareggiabile, nel mezzo di un pianoro spoglio, circondato da luminose colline, davanti ad una baia di perfetto disegno. Soltanto ci si può rammaricare che sia costruita voltando la schiena alla baia e che, pertanto, sia impossibile scorgere il mare, di cui bisogna sempre andare in cerca18.

Orano volge le spalle al Mediterraneo. Il mare sembra un’apertura a cui non si sente destinata, una possibilità che gli sfugge e un orizzonte che è fuori della sua visuale. Per questo lo rifiuta, come è successo, nella storia novecentesca, per altre città, Barcellona per esempio: i tempi della dittatura di Franco erano i tempi della chiusura, della recinzione della zona portuale. Gli abitanti non trascorrevano la domenica al mare. Il mare era, per loro, come la libertà, assente.

Succede in questi casi che gli abitanti della città vivono come se il mare non esistesse, cioè vivono come se loro stessi non vivessero sul bordo del mare. Avvertono però, nella quotidianità, la sua assenza. Essa incide segni profondi sugli affetti dei corpi ancor più dell’uso, delle abitudini e della promiscuità. Segregati nell’elemento terrestre, alienati dall’elemento marino, il mare diventa per loro un non-luogo, un’istanza rimossa nell’inconscio, che agisce in profondità, ma non si rende mai visibile.

In realtà, una città in cui si lavora, ci si ama e ci si annoia in modo completamente banale non ha bisogno del mare. Lo cancella dunque dal suo recinto. La città è collocata di fronte ad una baia «di perfetto disegno», scrive Camus. Ma non vuole guardarla, e gli volge le spalle. Quando la peste arriva e invade la città, rendendosi manifesta dapprima con la morte di migliaia di topi ogni giorno, ci si chiede: da dove viene? La deflagrazione della peste, la sua esplosione, coincide con l’arrivo del caldo estivo. Questo era l’unico periodo in cui la città si apriva al mare. La peste ha chiuso anche questo passaggio, come un guardiano esigente, un carceriere scrupoloso. Il Mediterraneo è la via dei traffici e degli spostamenti, degli incroci e degli incontri. Il mare, dunque, è considerato come il grembo della peste a cui la città volge le spalle, che non vuole riconoscere come esistente. Ma le manifestazioni dell’epidemia cominciano a moltiplicarsi, la sua presenza diventa invasiva. Soprattutto la morte improvvisa di migliaia di topi ogni giorno diventa un segno preoccupante:

Sino ad allora ci si era soltanto lagnati d’un fatto un po’ ripugnante; ci si accorgeva adesso che il fenomeno, di cui non si poteva ancora precisare l’ampiezza né svelare l’origine, aveva qualcosa di minaccioso19.

Si accendono delle preoccupazioni negli animi degli uomini. Chi possiede una casa al mare si ritira in città. Il mare diventa, nella loro immaginazione, una minaccia. Gli abitanti di Orano ne hanno rimosso, da sempre, la presenza. Ma, in realtà, fanno molto di più, perché il Mediterraneo non è un mare generico, non è una massa d’acqua, di pesci, di fondali. Il Mediterraneo è un orizzonte di vita. Escludendolo dalla propria coscienza, fingendo che non esista, gli abitanti di Orano si sono preclusi delle possibilità, che potrebbero essere delle possibilità decisive per la loro esistenza e, al tempo stesso, non hanno più posto il mare tra se stessi e il Nulla, la distruzione, il Fascismo. Non avranno che la prospettiva di un trionfo progressivo della morte, giorno dopo giorno, davanti a sé.

Altri attraverseranno un mare che loro non riconoscono più come proprio. All’inizio della diffusione del morbo non riconoscono neppure la calamità che li ha colpiti. Non vogliono accettare l’arrivo della peste. Indubbiamente, non si può dare, per questi motivi, agli abitanti di Orano l’appellativo di incoscienti. Anche quando qualcuno, come la madre del dottor Rieux, dice:

Sono felice di rivederti, Bernard [...] e i topi non possono proprio farci niente20.

L’inquietudine cresce, ma non va nella direzione giusta. Non si cura di accertare l’origine dell’epidemia, di valutare la sua gravità e il suo potenziale distruttivo. La vista corta non consente di vedere lontano. Orano è come una nave sul punto di affondare. Malgrado le sue negazioni, infine, la realtà del male si impone. Qualcuno ha paura e non lo sopporta, e cerca di impiccarsi. Qualcun’altro cerca di dimenticare tutto, anche il fatto di esistere e di rischiare di perdere ciò che ha. Il Mediterraneo, nel La peste di Camus, è precisamente il luogo di una perdita, di un’assenza, già avvenuta o sul punto di accadere. Questa proposizione contiene una constatazione e una domanda. In quanto luogo o presenza di una perdita, in quanto presenza invisibile di un’assenza, il Mediterraneo può considerarsi il testimone dei nostri vuoti, così come dei nostri pieni, dei nostri incontri e delle nostre concatenazioni?

E la peste? La peste è la risposta. Essa è più del morbo che si diffonde sulla costa africana del Mediterraneo. Essa è il Mediterraneo stesso, la morte diffusa nel suo bacino, un letto di morte. Il Mediterraneo nutre di morte i suoi abitanti. Poi, ritorna a sé, replica se stesso come infinitudine, illimitatezza, spazialità libera. È questo aspetto che diventa insopportabile. La semplicità di una massa vivente, che annienta coloro che abitano i suoi bordi. Questa assenza del Mediterraneo, o questo distacco che appare come assenza agli occhi umani, si dipana secondo molteplici fili narrativi, che costruiscono molteplici intrecci. La peste, in tal senso, rappresenta non soltanto un’allegoria della condizione umana, ma una Topica e una Logica dell’assurdo, la cifra di una presa di posizione dell’uomo di fronte al mondo, un bilancio razionale della sua condizione. Il Mediterraneo risulta essere non soltanto un mero spettatore delle gioie e dei dolori degli uomini. Esso è un personaggio del romanzo, assente ma attivo, come una sostanza volatile che permea la scena e le azioni in atto. Chi muore, come il portinaio di Rieux, in preda alla febbre, soffoca «sotto un invisibile peso»21 che, alla fine, «non ha storia»22. Chi non vedeva il mare non riesce a riconoscere i contorni della catastrofe imminente. Ci vuole del tempo perché la peste sia riconosciuta e si imponga nell’immaginario collettivo. È essa a rompere, con il fragore di un terremoto, la barriera dell’abitualità e della banalità quotidiana.

Darle un nome significa indicare un inizio. I medici prendono una risoluzione: bisogna nominarla, e così chiamarla alla presenza, bisogna superare il terrore di pronunciarne il nome e infrangere il divieto non scritto di nominarla, per evitare il panico. Il potere cerca di amministrare anche un flagello che il sapere medico riconosce nella sua natura.

I flagelli, invero, sono una cosa comune. Ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati. […] Il flagello non è commisurato all’uomo, ci si dice quindi che il flagello è irreale, è un brutto sogno che passerà23.

Il Mediterraneo, da parte sua, rappresenta l’esposizione ai pericoli per una comunità ottusa, esso esercita una forza contraria alla falsa e illusoria sicurezza degli abitanti di Orano, che non credevano alla peste, e non volevano uccidere la pace della loro giornata. La scossa è terribile, 

Soltanto il mare, oltre la cupa scacchiera dei caseggiati, testimoniava di quello che vi è di inquietante e di instabile nel mondo24.

Gli affanni degli abitanti di Orano e i loro traffici giungono così ad un punto di non ritorno. La peste ormai è diffusa ovunque. Essa è il mercato, è la prostituzione universale. È il Fuori, per coloro che rifiutavano un fuori. Per mantenere il dominio, il potere politico ricorre alla coercizione e alla paura, passione dominante del XX secolo.

Gli abitanti di Orano continuano a nutrire dei dubbi. Si aggrappano alle loro certezze, che sono emozioni, abitudini, comportamenti di massa. Persino quando si provvede a cingere la città con un cordone sanitario, così che nessuno esca e nessuno entri, non rinunciano al loro stile di vita, ai caffè, ai teatri e alle sale da ballo. Per loro non c’è più un esterno. Il ripiegamento su se stessi è totale, ma sembra soltanto il completamento di un destino, di una posizione d’origine: quella che li spingeva a volgere le spalle al mare.

La condizione di esilio, di vuoto, che ogni esclusione dell’esterno produce, viene disegnata da Camus con tratti esistenzialistici:

Era appunto il sentimento dell’esilio quel vuoto che portavamo costantemente in noi, quella precisa emozione, il desiderio irragionevole di tornare indietro o invece di affrettare il cammino del tempo, queste due ardenti frecce della memoria25.

Il tempo assume una modalità situazionale, è incatenato a un luogo di esistenza e a una situazione, individuale e collettiva. La stretta, che l’isolamento produce, opera una scissione del tempo, una riduzione della possibilità. Si è costretti a «venire a patti con il tempo». La libertà esistenziale viene sacrificata alle necessità del destino comune:

Da allora, insomma, ci si reintegrava nella nostra condizione di prigionieri, eravamo ridotti al nostro passato, e se anche alcuni di noi avevano la tentazione di vivere nel futuro, vi rinunciavano rapidamente, almeno per quanto gli era possibile, provando le ferite che la fantasia finisce con l’infliggere a coloro che hanno fiducia in lei26.

La condizione di prigionieri esige una reintegrazione nell’origine e un taglio nel tempo, senza possibilità di liberazione. La vita «ad occhi bassi», come la chiama l’Autore, è rimasto ormai l’unico orizzonte dei cittadini di Orano. È una vita «senza memoria» e senza tempo. La chiusura che la peste produce, fin nelle sue prime manifestazioni epidemiche, pone in esilio il resto degli abitanti ed occlude definitivamente ogni sforzo dell’immaginazione per uscire dalla condizione di esiliati. La peste fa sì che essi chiudano «gli occhi sul mondo esterno, che può sempre salvare da tutto»27.

La peste è dunque, in questo senso, l’astratto, l’irreale, ma un irreale che uccide e di cui, di conseguenza, ci si deve occupare28. Si tratta un irreale che si svolge secondo un andamento monotono29.

Rieux, che crede nella vita, intesa come concretezza dell’esistenza degli individui, è l’eroe di una morale laica, di una morale di combattimento che si impegna contro il male. Non accoglie istanze trascendenti e non nutre speranze sovrannaturali, ma cerca negli eventi una trama ragionevole e una misura umana. Il suo imperativo è «Non arrendersi!»:

Ma quello che è vero dei mali di questo mondo è vero anche della peste. Può servire a maturare qualcuno. Ciononostante quando si vedono la miseria e il dolore che porta, bisogna essere pazzi, ciechi o vili per rassegnarsi alla peste30.

Si tratta di una morale fondata su un ateismo umanistico. Proprio perché non c’è Dio ad assisterli bisogna sostenere gli uomini che soffrono, che versano nella “miseria”, che è più forte dell’indigenza e rappresenta una condizione di umiliazione intollerabile per milioni di esseri umani.

«Lei crede in Dio, dottore? [...] No, ma che vuol dire questo? Sono nella notte, e cerco di vederci chiaro»31. 

Il sacrificio quotidiano di Rieux nel combattere la peste trova un significato soltanto come risposta a una situazione di emergenza che, oltre la peste di Orano, è costitutiva dell’esserci umano. L’impegno nel soccorso e nella cura degli uomini, che assume toni platonici e cristiani, li libera anche dalle false credenze e dall’ignoranza. Chi si impegna nell’aiuto agli uomini che soffrono non crede in un Dio onnipotente: 

Rieux [...] riteneva di essere sulla via della verità, lottando contro la creazione com’essa è […]. Per il momento ci sono dei malati e bisogna guarirli. Poi essi rifletteranno, e anch’io32.

Rieux dimostra una coerenza esemplare. Abituarsi al male, lasciare che prenda il sopravvento e ci sconfigga, significa infatti compromettersi con esso. Perfino la morte è qualcosa di intollerabile, nell’orizzonte di Rieux, qualcosa a cui non ci si può abituare, ed è essa che contende il terreno all’impegno etico. L’alternativa è tra il bene e la morte: 

se l’ordine del mondo è regolato dalla morte, forse val meglio per Dio che non si creda in lui e che si lotti con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace33. 

Questa religione dell’impegno, contrapposta a quella tradizionale della trascendenza, giustifica la “devozione” di Rieux, che fa esclamare a Tarrou:

Perchè lei stesso mostra tanta devozione, se non crede in Dio?

Questa devozione di Rieux conforta gli sforzi quotidiani di sostegno verso gli altri.

Sotto certi aspetti Bernard Rieux somiglia ad un personaggio tolstojano, un eroe a tutto tondo, fornito di una morale dell’impegno che ne illustra la figura. Pur se i meriti maggiori, nello sconfiggere la peste, vanno al vecchio dottor Castel, che scopre il siero della salvezza, è Bernard Rieux a occupare sempre la scena. La sua modestia è ancorata in una fede morale. Egli afferma perentoriamente:

Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e la santità. Essere un uomo, questo mi interessa34.

Il rapporto di Rieux con il mare, d’altra parte, è altrettanto intenso che quello con la madre. Guardare il mare è già, per Rieux, una benedizione. Si tratta di riconoscere che la salute e il bene, anche se assenti, esistono, e con essi gli uomini. Rieux e Tarrou siglano, quasi alla fine del romanzo, con un bagno notturno in mare, il loro patto di amicizia e la loro fede nella santità, possibile per loro anche senza Dio. La fede nell’umanità, che Rieux cura e guarisce, lo sostiene nella situazione disperata della peste. Il mare è un’apertura possibile, la fine dell’esilio di una massa di disperati che vivono in miseria, che non vivono che «per la peste». Ciò che sembrava assente è raggiungibile e dolce, come l’abbraccio della natura, che esercita un effetto benefico di sospensione dal male quotidiano:

Il mare ansava dolcemente ai piedi dei grandi blocchi del molo, e quando li ebbero superati, apparve spesso come un velluto, flessibile e liscio come una belva […] davanti a loro la notte era senza limiti. Rieux, che si sentiva sotto le dita la faccia butterata degli scogli era pieno d’una strana gioia. [...] Durante alcuni minuti procedettero con la stessa cadenza e con lo stesso vigore, solitari, lontani dal mondo, finalmente liberati dalla città e dalla peste35.

La stessa terrazza su cui salgono Rieux e Tarrou, che si leva sopra la peste e la chiusura delle porte cittadine, libera l’orizzonte che il mare domina. Il mare, in mezzo agli eventi dolorosi, ai morti e all’esilio, è la vera patria ritrovata:

Per tutti la vera patria si trovava oltre i muri della città soffocata; era nei cespugli odorosi sulle colline, nel mare, nei paesi liberi e nei legami dell’amore36.

La terrazza su cui Rieux e Tarrou erano saliti per dimenticare la peste guardando il mare ritorna al termine del romanzo, quando la liberazione dalla peste è finalmente giunta, tra il giubilo della popolazione. Ma «il mare era più fragoroso d’allora, ai piedi delle scogliere»37. Il mare guadagna la sua rivincita sulla paura e sulla morte. La vittoria su di essa era temporanea ma testimoniava di un dovere che si sarebbe dovuto compiere ancora e sempre «contro il terrore e la sua instancabile arma»38.

 

Note con rimando automatico al testo 

1A. Camus, La peste, tr. it. di B. Dal Fabbro, Bompiani, Milano 1976, p. 104.

2 Ivi, p. 138.

3 Ibid.

4 Ivi, p. 113.

5 Ivi, p. 125.

6 Ivi, p. 104.

7 Ivi, p. 202.

8 Ivi, p. 147.

9 Ibid.

10 Ivi, p. 105.

11 Ivi, p. 145.

12 Ivi, p. 141.

13 Ivi, p. 158.

14 A. Camus, Il mare più vicino, in Id., Saggi letterari, tr. it. di S. Morando, Bompiani, Milano 1966, p. 177.

15 A. Camus, La peste, cit., p. 140.

16 Ivi, p. 152.

17 Ivi, p. 108.

18 Ivi, p. 7.

19 Ivi, p. 24.

20 Ivi, p. 14.

21 Ivi, p. 21.

22 Ivi, p. 22.

23 Ivi, p. 33.

24 Ivi, p. 35.

25 Ivi, p. 59.

26 Ibid.

27 Ivi, p. 61.

28 Cfr. ivi, p. 73.

29 Ivi, p.75.

30 Ivi, p. 103.

31 Ibid.

32 Ivi, p. 104.

33 Ivi, p. 105.

34 Ivi, p. 210.

35 Ivi, pp. 211-2.

36 Ivi, p. 247.

37 Ivi, p. 254.

38 Ivi, p. 255.