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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Il paradigma del dono

 

Archeologia del legame sociale



1. L’eclettismo di Mauss e la genealogia delSaggio sul dono

Il dono è la roccia madre dei rapporti sociali. Allo stesso modo in cui le radici costituiscono la base per la crescita e lo sviluppo di un albero, così il dono fonda la dimensione costitutiva del sociale in quanto tale. Un albero, infatti, se privo di radici, non cessa “banalmente” di vivere, bensì sarebbe incapace di essere, mancherebbe il fondamentale ciò-che-dà-la-vita senza il quale tronco e rami non potrebbero ex-sistere nel senso più etimologico del termine, non potrebbero, appunto, stare fuori. Proprio in quanto fondamento, però, il dono è perentoriamente oscurato e sommerso dagli “strati” della socialità e, a tratti, dimenticato; eppure, esso continua a funzionare come operatore del sociale a diversi livelli, come se non si dimenticasse mai di noi poiché ci appartiene a livello sostanziale, quasi ontologico, nella nostra relazionalità col mondo, proprio in quanto l’umano è un essere manchevole che vive di alterità, senziente e non.

Concetti come questo sono non solo il risultato di decenni di studi, critiche e innovazioni tanto teoriche quanto pratiche ma sono una gloriosa conquista. Negli anni della stesura del “Saggio sul dono”1, Marcel Mauss non solo dovette lottare contro i paradigmi dominanti come individualismo e collettivismo, da cui le migliori menti dell’epoca erano tutt’altro che avulse, ma dovette anche difendersi dagli attacchi della tradizione, in particolare dai durkheimiani, verso cui si oppose come erede critico, un netto oppositore del fondatore della tradizione sociologica francese inaugurata da suo zio Emile Durkheim.

Certo, la portata della riflessione maussiana è a tratti disarmante, convogliata in un testo molto facile e molto difficile da leggere, in cui sono raccolte tutte le conoscenze etnologiche del suo tempo, allo scopo di enucleare i lineamenti sociali, politici, economici e giuridici di tutte quelle società che definirà dissimulatamente arcaiche. Si sta parlando, quindi, di una personalità estremamente eclettica, radicalmente cosmopolita e fortemente critica e riflessiva, soprattutto considerando che egli era un antropologo da tavolino, ovvero uno studioso che non ha mai fatto ricerca sul campo ma che si è basato sulle ricerche sei suoi contemporanei quali l’etnologo Boas, l’antropologo Davy, il linguista Meillet, l’etnologo Malinowski. La stima verso di lui non è solo dovuta alla sua fama postuma, ma anche in vita ha goduto del rispetto professionale dei suoi contemporanei, dato che «Conosce un numero impressionante di lingue e possiede un sapere etnologico davvero enciclopedico. I suoi discepoli dicono di lui ‘Mauss sa tutto’»2.

     

Eppure, la vera grande fortuna del maestro la si ebbe solo dopo la sua dipartita. In vita, infatti, l’incidenza e il significato del suo Saggio non furono apprezzate dalla grande platea che sperava di raggiungere, e questo per svariate motivazioni. In primo luogo, Mauss vive a cavallo di due delle più eminenti personalità della storia sociologica francese e anche europea: oltre al suo già citato zio Emile Durkheim, il suo maggiore discepolo fu niente meno che Claude Lèvi-Strauss, fondatore dello strutturalismo, facendo quindi del suo maestro il predecessore di questa corrente. Inoltre, il sociologo compone il Saggio tra il 1923 e il 1924, pubblicandolo nel ’25 nella sua forma canonica, negli anni, quindi, immersi nella crisi del primo dopoguerra.

Ma che si tratti di un’opera che ha scosso il classico sistema antropo-sociologico è fuor di dubbio e per questo, quindi, si pone la necessità di studiarne non solo la genesi ma anche il significato, perché si cessi di vedere le grandi opere come creazioni ex-nihilo e che le si apprezzi come il frutto di studi meticolosi e di lotte accademiche che rendono la vita degli autori e delle loro opere colme di fascino.

 

1.1 L’’eterno presente’ della ricerca sociale

Fedele al precetto positivista, che limita la conoscenza alla realtà dei fatti, Mauss non vaneggerà mai concetti metafisici per ascendere ad una forma pura di socialità, non parlerà mai del dono in sé trascendendo ogni valore pragmatico della sociologia, ma limiterà la sua analisi ai fenomeni sociali rimanendo fermo su uno studio concreto senza mai costruire un trattato sistematico e metodologico. Proprio in questa direzione si consumerà la sua rottura con il positivismo. Delineando un paradosso sui generis che costituisce la conditio sine qua non della sua originale indagine, il sociologo utilizzerà le stesse armi della filosofia positiva contro sé stessa, in particolar modo per quel che riguarda l’evoluzionismo e la concezione positivista della storia.

Costruire un sistema onnicomprensivo, come tipico dei sociologi di inizio secolo, abbisognava di una pluralità disciplinare con cui poter dar agio delle proprie teorie, senza magari essere in possesso di prove incontrovertibili, ma semplicemente assumendo una Verità come data ed inoppugnabile ed applicabile a tutti i campi d’indagine. In questo modo, da un lato diveniva inevitabile il traviamento della disciplina sociologica in sé che perdeva inevitabilmente il suo oggetto di studio e, dall’altro, perdeva di vista il metodo d’indagine sociale, rendendo miope ogni visione del mondo che la sociologia potesse dare, vittima, com’era, della hybris degli intellettuali3. Si poneva, perciò, l’esigenza di un ritorno alla scienza del sociale propriamente detta con un oggetto ben definito e un metodo chiarificato che non venisse alterato dalla volontà di potenza di chi, volendo costruire una storia del mondo, volesse strabordare i confini della scienza sociale, anche a costo di porre sotto critica i fondamenti stessi di questa scienza. La sociologia si deve basare sui fatti.

Sulla scia di questa posizione teorica, Mauss confinerà la sua ricerca all’ambito del fatto sociale, concentrandosi sulla sua natura particolare, cronologicamente definita, con un determinato quantitativo di conoscenze pregresse, in un determinato momento storico, senza scivolare nell’ambito delle considerazioni sociali globali, studiando solo l’oggetto principe della sua ricerca, in questo caso il dono, e «se sviluppa considerazioni sui fenomeni sociali in generale, in abstracto lo fa soltanto da questo punto di vista»4. In termini più semplici, il sociologo si limita a studiare i fenomeni sociali, quindi letteralmente ‘ciò che appare’, interrogandosi poi sulle cause, sulle conseguenze e sul significato e solo in un secondo momento azzarda una generalizzazione, astratta ma ben delimitata al fenomeno d’interesse.

Proprio in questo senso lo scienziato del sociale deve radicalmente opporsi ad ogni intromissione violenta di discipline esterne, come la storia, e di dottrine come l’evoluzionismo e, per converso, ogni interpretazione storicistica. Si è sempre pensato che il tempo fuggisse in un continuo ‘avanti’, sempre dotato di direzione e verso, travolgendo tutto lo scibile in un eterno processo inarrestabile, un irrefrenabile fiume che fagocitava il passato, lo shackerava al presente costruendo un futuro i cui trascorsi sono inevitabilmente oscurati. La fede nell’inevitabile progresso sussume l’idea che uomini e società siano aristotelicamente ‘destinati’ al meglio, all’eterno progresso e al miglioramento5. Ora, questa idea che permea il pensiero circa l’umano e la società è una mera ipotesi filosofica a cui si potrebbe rispondere con una ulteriore ipotesi altrettanto filosofica: non esiste, infatti, una dimostrazione sociologica di questo ideale ma è semplicemente una indebita appropriazione del concetto secondo cui ‘oggi è meglio di ieri’, rendendo termini a-valutativi come ‘moderno’ e ‘contemporaneo’ pregni di senso fortemente progressista. L’evoluzionismo, teorizzato e applicato da Darwin in una accezione rigorosamente biologica, viene assunto, traviato ed imposto ad ogni ambito conoscibile, dalla scienza alla politica6, rinunciando ad ogni alternativa che possa concedere una diversa visione dello scibile. Ma la possibilità di applicare ovunque questa dottrina non passa il vaglio della violenza epistemologica. La sua applicazione ai campi delle scienze sociali prescriverebbe la necessità non solo di una salda conoscenza dell’ambito, ma anche la possibilità di dover applicare inevitabilmente la storia ai fatti sociali, facendo violenza sul presupposto dei sociologi di basarsi sui fatti sociali. L’esempio lampante lo si trova in Auguste Comte, nella sua teoria de ‘I tre stadi dell’umanità’.

Nessuno negherebbe che l’idea di pregresso sia necessariamente correlata al concetto temporale, ma il problema di fondo messo in campo da Mauss non è la critica al progresso, quanto piuttosto l’idea che quanto c’è stato in passato sia irrimediabilmente morto. Infatti «è in opposizione a ogni pensiero evoluzionista che Mauss invita alla riappropriazione finale di noi, alla luce di una ricerca il cui scopo è di attualizzare il passato più che descriverlo»7. Siamo di fronte ad un cambio di prospettiva: non si parla più di livelli primitivi ed elementari, come tipico della vecchia guardia della sociologia, bensì di un livello arcaico. Perciò, in questo senso, non ci si interessa più ad una dinamica storico-evolutiva, costruita in senso lineare-temporale, ma ad un metodo inedito di stratificazione che converrà chiamare archeologico, concepito come «la ricerca sotterranea di una fondazione dimenticata che è essenziale alla comprensione del presente»8. Il dono si pone, quindi, come la roccia9 su cui sono fondate le società contemporanee, certo spiegando il presente a partire dal passato, ma allo stesso tempo affrancandosi dal classico paradigma del progresso storico.

L’indagine strutturale che porta alla luce la forma principale del legame sociale, conferisce al dono lo statuto di una antica fondazione, i cui effetti, seppur nascosti, possono essere misurati fin nel presente10. Si parla appunto di ‘oblio del dono’, tramite il quale è possibile dimostrare che la nostra morale e le nostre relazioni stanziano nell’atmosfera del dono, quindi contemporaneamente dell’obbligo e della libertà11. Tale principio costitutivo del sociale, sempre riattivato in tempi e luoghi determinati ma tuttavia sempre all’opera, non solo inaugura una nuova metodologia d’indagine ma concede un nuovo statuto alla sociologia poiché «la ricerca dell’arcaico, proprio perché non è ricerca delle origini», le permette «di costituirsi più saldamente che in passato e di manifestare la propria dimensione filosofica senza cedere mai nel rigore scientifico. Le ricerche sociologiche, quindi, si concentrano di un eterno presente»12, quello del sociale in quanto tale. Il passato non viene più interpretato come una reliquia irraggiungibile perché perduto e lontano, ma svolge una funzione sempre presente.

La rottura con la filosofia positivista consiste proprio in questo paradosso: basandosi su fatti rigorosi e su di una metodologia ineccepibile, come da protocollo positivo, Mauss approda ad una sintesi teorica che abolisce l’evoluzionismo come dottrina onniapplicabile e che critica la storia come procedimento lineare, diacronico e irreversibile.

 

1.2 Tradizione, critica, innovazione

Nelle società in cui il rapporto sociale non si costruisce sul libero mercato, sul do ut des, sul contratto, lo studio del dono ha richiesto una lenta e difficile elaborazione e, proprio per questo, risulta necessario contestualizzare il Saggio di Mauss non solo per inquadrarlo in senso cronologico ma anche per dimostrare che l’universalità del dono non è apparsa di colpo. È probabile che la storia del Saggio abbia avuto inizio nel 1904, quando Mauss, interessandosi ad una insolita istituzione eschimese chiamata potlac, compose il Saggio sulle variazioni stagionali nelle società eschimesi13, rifacendosi soprattutto agli scritti di Franz Boas14, indagando una forma di dono caratterizzata da rivalità, ostentazione dispendiosa e distruzione suntuaria di beni, praticata soprattutto nel nord-ovest americano. L’anno successivo terrà delle lezioni sullo studio comparativo delle istituzioni giuridiche e religiose15 alla Scuola pratica di alti studi, in cui si impegnerà a descrivere il meccanismo del potlac che però sarà valutata e riconsiderata nella sua ampiezza solo nel 1910, quando il sociologo, commentando l’opera di J. R. Swanton16 in cui diverrà possibile applicare il dispendioso processo anche agli Haida e ai Tlingit17. In questa sede Mauss si renderà conto della vitale importanza dei processi del potlac, tanto da poter porre le basi per quello che successivamente sarà chiamato fatto sociale totale, in quanto il fenomeno straordinariamente sincretico capace di convogliare in sé una pluralità di ambiti sociali. Pur cosciente della portata della sua scoperta, il sociologo francese circoscriverà la sua scoperta ad una limitata area geografica.

La prima estensione del potlac si avrà solo nel 1913 quando, supportato dagli studi sui Papuani e sui Melanesiani, Mauss avanzerà l’ipotesi, innovativa rispetto agli studi dei suoi contemporanei, secondo cui i rapporti tra clan, famiglie e villaggi, siano regolati da istituzioni analoghe a quelle del nord-ovest americano determinate dal potlac18. Quest’ultimo, quindi, scalerà la vetta, passando da una semplice curiosità etnografica ad una istituzione regolativa di ampio respiro. L’anno successivo W. H. R. Rivers19 pubblicherà la Storia della società melanesiana, opera che permetterà a Mauss di arricchire la sua dimostrazione con nuovi dati, fortemente spalleggiato, poi, dall’etnologo R. Thurnwald20 il quale gli confermerà la fondamentale reciprocità che dilaga nelle società della Melanesia.

Dopo diversi anni di studio e di approfondimenti, Mauss proporrà all’istituto di antropologia francese i risultati a cui è pervenuto, in particolare l’idea del carattere sincretico del potlac, definito come un sistema di prestazioni totali, delineando un nuovo punto di svolta nella ricerca etnologica, tanto che Georges Davy vi dedicherà la sua tesi di dottorato, pubblicata nel 1922 con il titolo La fede giurata21. Nello stesso anno viene pubblicata l’opera più significativa dell’etnologia del pacifico, Gli argonauti dell’ovest del pacifico22 di B. Malinowski. Si tratta di un evento di incredibile portata non solo per la grande mole di eventi e nozioni trattati ma perché l’autore si pone nei confronti dei primitivi (termine per il quale sarà rimproverato dallo stesso Mauss) senza alcuna congettura storica o pregiudizio etico. Questa visione d’insieme permette a Malinowski di studiare il fenomeno del kula, un sistema di scambi inter-tribali e infra-tribali che coinvolge migliaia di individui in un circolo denominato kula ring: fu grazie a questo studio che Mauss dividerà il potlac in tre momenti, donare-ricevere-ricambiare, influenzato com’era anche dai fenomeni polinesiani, soprattutto dallo hau maori. Per circa due anni le lezioni del sociologo francese saranno incentrate sulla lettura dell’opera dell’autore polacco.

Nel ’24 due eventi renderanno conto della rivoluzionaria scoperta di Mauss. In primo luogo, un suo allievo pubblica due articoli dedicati allo stesso problema, generando non solo la conferma delle stesse teorie etnografiche, ma dimostrando anche come la problematica da lui sollevata viene apprezzata e valutata positivamente dalla comunità scientifica23. Successivamente il sinologo Marcel Granet dimostrerà come il complesso di scambi studiato alle Trobiand ha un analogo dato nell’antica Cina.

Se prima Mauss si era concentrato sulla distanza geografica che rafforzava l’analogia dei fenomeni sociali studiati, adesso lo spostamento avviene in senso cronologico, dimostrando tramite lo studio di Omero, Senofonte, Tucidide e Anassandride, che i Traci, in Grecia, conoscevano istituzioni analoghe a quelle del potlac24. In questo modo si fa avanti l’ipotesi che questa istituzione sia, in realtà, la forma fondamentale dello scambio in generale, forma di cui la società moderna rappresenterebbe il degrado tramite la società capitalistica.

L’anno prima della pubblicazione del Saggio, l’autore si concentrerà sullo studio della lingua germanica, in particolare sul termine gift, che significa tanto dono quanto veleno, dimostrando doti antagonistiche del potlac già presenti nel mondo antico25. Successivamente si concentrerà su di un testo di Posidonio che riguarda i Celti, in particolar modo per quel che riguarda il suicidio inteso in senso sociale. Sarà proprio grazie alla grammatica comparata inaugurata da Meillet, di cui Mauss era un cultore, che sarà possibile concedere una costruzione fortemente pragmatica della coscienza dei singoli popoli, dimostrando come sia legittimo dover parlare di fatto sociale totale26; in questo modo, una volta pubblicato nel 1925, il Saggio aveva un carattere oltre che estremamente accurato, ma anche dotato di un incontestabile metodo d’indagine fondato soprattutto su fenomeni che posso avere senso solo se inclusi in un sistema specifico, come dimostrano i rapporti sociali tra tribù, i sistemi giuridici, la rivalità e la linguistica comparata.

 

1.3 Il fatto sociale totale: la coercizione

La prima svolta nella stesura del trattato non può che essere stata la risultante di una polemica, in particola con la scuola sociologica di Durkheim ma soprattutto sulla neo-nozione di arcaico. In opposizione al classico termine dispregiativo di ‘selvaggio’ o ‘inferiore’, con cui venivano etichettate tutte quelle popolazioni indigene appartenenti a diverse aree geografiche, con una economia lontana dalla logica del capitale e con un credo devoto al totemismo, la scuola sociologica converrà all’unanimità l’utilizzo del termine ‘primitivo’. Scontrandosi, solo apparentemente, con la teoria evoluzionista, i durkheimiani denoteranno con questo termine il rinvio alla nozione di ‘elementare’, di elemento primo, meglio ancora primigenio, capace, cioè, di comporsi con sé stesso, denotando entità più complesse. A ben guardare, però, tale nozione ha di anti-evoluzionistico solo la facciata: ad immagine di quelle che Karsenti chiama ‘esseri monocellulari’, le forme elementari non solo altro che la base per un complesso particolare più o meno sviluppato. Rinunciando categoricamente a questa nozione, quindi anche all’evoluzionismo, Mauss porta avanti l’idea secondo cui non esistono popoli non civilizzati, ma solo popoli di diverse civiltà. Per quanto marginale possa manifestarsi, la nozione di civiltà ricopre una veste fondamentale: sviluppo tecnologico, giuridico e capitalistico non sono più i nuclei tematici sulla base dei quali si possa, ad arbitrio dell’occidente, definire il progresso di una società. Il ‘complicarsi’ di una società, a tal punto, non è più sinonimo di miglioramento, come accade in occidente: ogni società con le sue abitudini economiche, legislative e tecnologiche, possiede una unicità irripetibile, rendendo i sociologi incapaci di definire migliorie e peggioramenti a seconda di un metro di misura surrogato dall’occidente europeo.

La nozione di arcaico si pone, perciò, in rotta di collisione proprio contro queste pretese occidentalistiche autoritarie, rischiarando una nuova visione della storia del sociale. In questa direzione, la ricerca dell’archeologia sociale poggia su due capisaldi fondamentali: esiste qualcosa, al fondo delle civiltà, di obliato e nascosto e che questo oblio è necessario al funzionamento generale della società contemporanea.

Come erede ribelle della sociologia durkheimiana, Mauss si riproporrà anche di definire un nuovo concetto per definire gli avvenimenti della totalità del sociale. Nel 1895 Emile Durkheim pubblicherà l’opera che accenderà l’interesse accademico verso la sociologia propriamente detta, Le regole del metodo sociologico, in cui analizzerà le tendenze e le tradizioni della collettività. Dal suo punto di vista sin dalla più tenera età ai bambini vengono imposti modi di vivere, di agire, di sentire, di pensare, di rapportarsi agli altri, modi di essere volti a costruire ‘in serie’ un corpo sociale27: ad esempio si obbligano i bambini a mangiare, a bere, a dormire ad ore regolari, li si obbliga al decoro, alla calma, all’obbedienza, poi li si induce a prendere in considerazione gli altri, a rispettare le usanze, le convenienze, ecc… Queste usanze sono lontane dall’essere giudicate secondo la dialettica giusto-sbagliato, perché esse trascendono il giudizio singolare per oggettivarsi nella tradizione del ‘si è sempre fatto così’: col tempo, infatti, questa costrizione cessa di essere percepita come tale, trasformandosi in abitudine e anche se delle tendenze interiori dell’individuo la percepiscono come inutile, esse non l’aboliranno in quanto ne derivano. Durkheim definirà queste abitudini ‘forzate’ come fatto sociale la cui definizione è: «qualsiasi maniera di fare, fissata o meno, suscettibile di esercitare sull’individuo una costrizione esteriore»28. Tale criterio di studi del reale del sociale si sviluppa, al contempo, su due piani, epistemologico e ontologico: per il sociologo, che vuole oggettivare le caratteristiche del sociale, si pone la necessità di elaborare un dispositivo normativo generale che si possa estendere ai suoi stessi elementi, limitando le tendenze autonome e costruendone un modo d’essere. In termini più semplici, il fatto sociale esiste ed ha una consistenza ontologica indipendente dalle sue oggettivazioni singolari sugli individui, fatto di cui il metodo sociologico dovrà tener conto nel momento in cui si creino le manifestazioni singolari dell’avvenimento sociale. Su questo versante, perciò, la società intesa come complesso di individui ottiene una superiorità realmente fondata sulla materialità della somma degli individui rispetto al singolo, denotando, per converso, una inspiegabile superiorità morale: «la costrizione è legittima perché sociale»29.

Servendosi di questo studio dinamico, Mauss applicherà la medesima nozione al campo delle scienze etno-antropologiche, ampliandolo e racchiudendolo nel concetto di fatto sociale totale e servendosene per descrivere eventi come il potlac, il kula, il pilu pilu. L’appellativo totale non è né marginale né casuale dato che allarga il raggio di azione di un evento, di un principio, di un’idea alla totalità del sociale. Il terzo capitolo del Saggio, il più specifico e approfondito, dedicato alle isole Trobriand, rappresenta la miglior esemplificazione del fatto sociale. A differenza del gimwali30, il kula è un commercio di ordine nobile, apparentemente ristretto ai capi tribù, che sono anche i capi delle canoe durante le spedizioni nell’arcipelago, ma in realtà esteso ai loro famigliari che ricoprono anche il ruolo di loro vassalli. L’atto di questo dono, che viene definito dono cerimoniale31, assume forme molto solenni, in cui la cosa ricevuta viene disprezzata e la si prende solo dopo che è stata gettata ai piedi del donatario, mentre i donatori si scusano di poter offrire solo gli avanzi al proprio rivale, ma che sono in realtà il frutto di preparazioni e attenzioni32; per quanto in apparenza si ostentino liberalità, libertà ed autonomia, al fondo delle intenzioni si staglia un forte meccanismo obbligatorio oggettivato attraverso le cose. Allo scambio di una moneta comune chiamata vaygu’a33, segue un rito magico chiamato incantesimo della conchiglia34, accompagnato da prestazioni e controprestazioni quali danze, banchetti e discorsi che rendono conto di come quello che per gli occidentali sia solo un evento chiuso a sé, in realtà è connaturato a motivi religiosi, giuridici, economici, sociali ed umanitari. La ripetitività di questi eventi mostra come il kula, come altre prestazioni suntuarie, siano ripetute nel tempo, alternando i ruoli, quando i donatori saranno diventati donatari e viceversa.

Questa ‘atmosfera del dono’, comune alla Nuova Caledonia, alle isole Andamanesi, al nord-ovest americano, ai maori e alle società del mondo antico, rendono chiara la fluidità del dono che si staglia sullo sfondo simbolico della vita sociale35: l’influenza del dono ripartita a tutti i campi non è mera anarchia, bensì la cementazione di un «legame che viene costantemente riattivato che garantisce la coerenza complessiva di una totalità differenziata»36. Proprio per questo è impossibile circoscriverlo ad una istanza singolare, rendendolo, così, quasi inafferrabile. Il passo avanti rispetto a Durkheim è stato mosso proprio in direzione della socialità come totalità. Con ciò si intende, quindi, un insieme di fatti impossibili da isolare e studiare singolarmente, da intendere, perciò, come un insieme di eventi simbolici che permettono una comunicazione sotterranea degli aspetti più variegati del sociale non riducibili ad una ripartizione funzionale: «diritto, economia, arte, religione, politica, sono altrettante funzioni sociali distinte solo nella misura in cui tutte le attività che vi appartengono interferiscono concretamente in quel punto cruciale che è il dono, da cui traggono coerenza e forma»37.

 

2. Il legame contrattuale

Un dovere verso l’alterità inoculato e fatto proprio si trasforma in un tacito contratto in cui non c’è bisogno di terzi che sigillino con una firma, basta semplicemente porsi come eredi di una stessa tradizione. In questo caso, il legame sociale è consacrato alla norma della reciprocità senza la quale si passa dal legame alla rivalità causata dall’offesa del non essere considerati come pari. Non concedere in dono quanto e più di quel che si è ricevuto risulta non solo offensivo ma anche generatore di discordia, passando dalla battaglia della generosità alla battaglia delle armi. Analizzando la norma del legame sociale ci si imbatterà anche in normative dovute alla religione, come lo hau, in condizioni di reciprocità e in regolazioni sulla battaglia di generosità.

2.1 Lo hau

Come tipico della tradizione sociologica francese, Mauss non farà mancare il tratto misticheggiante alla sua riflessione, alternandolo alla dimostrazione erudita, allo scopo di porre ogni genere di studio empirico in una prospettiva generale38. Si tratta di uno degli aspetti etnologici che, forse, più di altri hanno influenzato le ricerche e condizionato la riflessione facendolo approdare alla triadicità del dono dare-ricevere-ricambiare: lo hau della tradizione maori. Per la sua rilevanza etnologica, Mauss concede alla sua spiegazione una parte del primo capitolo del Saggio intitolandolo ‘Lo spirito della cosa donata’, facendo parlare il diretto testimone, ovvero Tamati Ranaipiri, una guida maori conosciuta nel mondo accademico per via delle ricerche di Eldson Best:

Vi parlerò dello hau… Lo hau non è il vento che soffia. Niente affatto. Supponete di possedere un oggetto determinato (taonga) e di darmi questo oggetto; voi me lo date senza un prezzo già fissato. Non intendiamo contrattare a riguardo. Ora, io do questo oggetto ad una terza persona che, dopo un certo tempo, decide di dare qualcosa in cambio come pagamento (utu); essa mi fa dono di qualcosa (taonga). Ora, questo taonga che essa mi dà è lo spirito (hau) del taonga che ho ricevuto da voi e che ho dato a lei. I taonga da me ricevuti in cambio dei taonga (pervenutimi da voi) è necessario che ve li renda. Non sarebbe giusto (tika) da parte mia conservare per me questi taonga, siano essi graditi (rawe) o sgraditi (kino). Io sono obbligato a darveli, perché sono uno hau del taonga che voi mi avete dato. Se conservassi per me il secondo taonga, potrebbe venirmene male, sul serio, perfino la morte. Questo è lo hau, lo hau della proprietà personale, lo hau dei taonga, lo hau della foresta.39

Queste parole, colme di significato teologico-giuridico, rendono oscuro il ricorso ad un terzo individuo, il cui unico chiarimento fornito è la spiegazione secondo cui «l’oggetto donato diventerebbe esso stesso ciò che vigila sull’obbligo di rendere»40. Anche se abbandonata dal donatore, la cosa donata è ancora parte di lui, avendo quindi una presa ed una pretesa sul beneficiario: ciò che viene donato è animato e ‘reso vivo’ dallo hau perché esso «insegue tutti i detentori»41.

Questo porta inevitabilmente a due conseguenze di capitale importanza. In primo luogo, questo credo religioso rappresenta l’oggettivazione mistica della domanda: perché ricambiare? Nello scambio non c’è solo la cosa scambiata, ma c’è una relazione dove prima c’era distacco, crea reciprocità dove prima c’era solo mercato: in questo modo l’obbligo di rendere il dono, l’obbligo di reciprocità, non pone fine ai rapporti creati, ma spinge, con ogni dono, ad un nuovo obbligo e quindi ad un nuovo ciclo del dono. L’obbligo di perpetuare il dono è, in realtà, l’obbligo di perpetuare la relazione creatasi, spostando il baricentro del rapporto sociale dal semplice scambio all’intreccio relazionale. In più, essendo lo hau un’entità, tutt’altro che statica, che concerne tanto il dono quanto gli individui posti in relazione, esso insegue «ogni individuo al quale il taonga venga trasmesso»42, attaccandosi a tutti i beneficiari.

In secondo luogo, il processo ciclico di donazione cessa di essere pensato e circoscritto due singoli individui che entrano in contatto, entrando in un circolo ben più ampio che viene definito dono generalizzato43, ovvero A che dona a B, che dona a C…che dona ad A. La sociologia del dono, quindi, concerne l’intero corpo sociale, non solo ponendosi come valida alternativa ad individualismo e collettivismo, ma costruendo cercando anche la via per un costrutto tout court dell’intera società.

Lo hau, come una delle idee fondamentali del diritto maori, impregna le cose di una propria autonomia, un principio quasi inconscio di reciprocità che spinge a rendere, un «cemento affettivo e mistico»44aggiunto alla unilateralità del materiale. Certo, si tratta di una credenza magico-religiosa, una forma di animismo che spinge a pensare alla cosalità del mondo come umanizzata, eppure, quanto appena dimostrato non spiega da sé il motivo per il quale lo scambio avvenga secondo una disposizione ciclica suddivisa in fasi. Il principio animista non fa altro che chiudersi su sé stesso, la cui ripetitività risulterebbe solo un’aggiunta dell’etnologo. Per quanto Mauss prenda alla lettera il significato magico di questa dottrina, non la interpreterà come una spiegazione di tutto lo scibile che il paradigma del dono implica. Il merito del maestro consiste proprio nello spiegare lo hau come una ‘forza’ della cosa solo nel momento in cui quest’ultima è implicata in un rapporto tra persone, come un interruttore che si attiva quando si vengono a creare le condizioni adatte. In termini più semplici, lo hau risulta più una nozione di ordine giuridico e morale più che fisico.

 

2.2 Il riconoscimento nelle società arcaiche

Ponendosi contro le teorie sociale dei contrattualisti classici, l’originalità di Mauss sta nell’aver costruito una concezione polemologica del vivere sociale, il cui obiettivo è il riconoscimento della propria superiorità sociale rispetto al rivale, schiacciandolo all’ombra della propria generosità. Tra i tanti esempi riportati nel Saggio, forse proprio il potlac permette, meglio di altri, di capire la forma di antagonismo presente nelle prestazioni totali, un torneo in cui gruppi e sottogruppi di queste società «sentono di doversi tutto»45, all’interno di un processo etico, giuridico ed economico ma, allo stesso tempo, religioso, mitologico e sciamanistico, perché i capi che ne fanno parte incarnano gli antenati e le divinità di cui portano il nome, di cui rievocano danze e banchetti e dai cui spiriti sono posseduti46. Durante queste prestazioni il ruolo dei capi è tutt’altro che marginale. Essi, infatti, non sono dei passivi ricettori di un passato arcaico costantemente riattivato, ma devono sempre provare di essere accompagnati e favoriti dagli Dei e dalla fortuna, pena la perdita della propria faccia, della maschera di danza, della persona47. I singoli capi48 si sfidano in continue battaglie di generosità e di cortesia, celebrando la propria grandezza di fronte ai rivali, sottomettendoli all’ombra del proprio nome: infatti presso questi popoli49 la grandezza di un capo o di un membro del clan non è data da un immenso possesso di beni materiali o di denaro, non è nell’accumulazione ad oltranza che risiede l’importanza di un individuo. Contrariamente ad ogni logica economica a cui si è abituati, la ricchezza di questi popoli consiste nel maggiore o totale dispendio possibile di risorse, nella suntuaria distruzione di ogni possedimento. Questa generosità dissipativa ed individualista è la matrice fondamentale del riconoscimento sociale.

Esistono, perciò, dei parametri definiti per poter parlare definitivamente del dono cerimoniale: in primo luogo la cerimonia deve essere pubblica, non è propriamente di ordine generoso né privato, perché impegna tutti i membri di un gruppo, decide il prestigio del donatore ed è fatto per essere ricambiato; in secondo luogo, contrariamente a tutte le teorie che vedono nel potlac una forma di interesse economico, come quelle di Max Weber e di Karl Polanyi, la festività suntuaria non impegna ad un mutuo guadagno, ad un baratto o ad un tipo differente di commercio, bensì ad un mutuo annullamento della ricchezza materiale. Vedere in questi eventi una forma di economicismo è solo una violenza epistemica contraria sia alla logica del dono sia ai principi metodologici maussiani, che studiano non un dono in sé passibile di alterazioni metodologiche o metafisiche, bensì il dono iscritto in un ben determinato contesto non accostabili ai principi economici. Infine, per quanto rientri nel corpo giuridico, il dono non è definito come un legame contrattuale, o quantomeno come una forma arcaica di contratto, ma è più assimilabile ad un patto. Perciò, utilizzando le parole di Marcel Hénaff, il dono «è sentito come obbligatorio solo in quanto implica il prestigio e l’onore del donatore così come il suo Sé, eccedendo ogni calcolo egualitario»50.

Per quanto Mauss non usi mai nel Saggio il termine ‘riconoscimento’, probabilmente perché ancora legato ad una logica contrattualistica, forse manca solo il termine per identificarne il concetto. Ma cosa vuol dire riconoscimento? O, meglio ancora, di cosa c’è riconoscimento? Hénaff risponderà a questa domanda con un paragone molto sui generis, riferendosi alle società degli scimpanzè studiati da J. Goodal: questi studi mostrano come il metro di riconoscimento passi attraverso suoni, odori, gesti e abitudini. In questo senso, il riconoscimento è inteso come accettazione attraverso posture e processi di reciprocità ma non attraverso gli oggetti, ed è proprio su questo che si gioca la differenza con le società umane. All’interno di queste ultime, la dimensione simbolica ricopre un ruolo fondamentale tramite gli oggetti conservati, dati in pegno in cambio di altri a loro volta offerti immediatamente o in seguito: ciò significa che questi oggetti, questi pegni, sono dei sostituti di , intendendo con quest’ultimo «un agente che risponde di sé stesso, nella durata, davanti ad altri agenti»51. Proprio il fatto che attraverso la mediazione di un terzo ente, in questo caso un oggetto, si giochi il riconoscimento reciproco tra esseri umani, implica non solo la messa in gioco del Sé, ma soprattutto la sua messa in discussione: in questo senso si è umani nella misura in cui ci si appresta ad essere riconosciuti non solo dai famigliari, consanguinei o amici, ma anche e soprattutto da estranei, con l’altro da sé, facendo del linguaggio simbolico, inteso come trasmissione non genetica delle informazioni, un nucleo centrale della vita delle società.

 

2.3 Reciprocità e incondizionalità condizionale

Se l’obiettivo è il prestigio, il mezzo è lo scambio, un fattore sociologico e sociale che merita un’analisi epistemologica a sé stante. Ogni evento di dono e contro-dono si apre con una sfida, l’opening gift, un dono offerto per sedurre, nel senso letterale del se-ducere, condurre a sé, e infine per legare. Quest’ultimo termine, però, non sta ad indicare un legame pacifico stabilito definitivamente una volta per tutte: il legame che si mira a creare è fondato sull’ingiunzione, su una sfida lanciata al donatario, sfida che ha come obiettivo riconoscere la superiorità sociale del rivale. La generosità mostrata non è un semplice atto libero e indeterminato, ma è «regolata dal desiderio di sottomettere colui al quale doniamo, esercitando su di lui una sorta di potere»52. La replica, o la non replica, al dono di apertura costituisce il futuro rapporto in cui si troverebbero gli individui interessati: qualora si scelga di non replicare, si incorrerebbe non solo nel rifiuto di un’alleanza e di una comunione, ma soprattutto nel rifiuto del riconoscimento in quanti peri, generando una guerra nata dall’offesa di un rifiuto, percepito come un insulto alla propria persona. In termini più semplici non replicare il dono «è mettersi fuori gioco. In ciò consiste l’obbligo di rispondere»53.

Se, invece, si dovesse scegliere di replicare al dono, ci si troverebbe immersi in una palude coercitiva che invita e obbliga le personalità ad entrare in un rigidissimo ciclo di scambi che va rispettato da tutte le parti contraenti e che trascina ad oltranza tutti coloro che ne fanno parte. Quello che sarà il donatario nello scambio, perciò, «ha una specie di diritto di proprietà su tutto ciò che appartiene al donatore», una sorta di vincolo spirituale e morale per mezzo di cui il donatore, che successivamente sarà il donatario, tenta di appianare le disuguaglianze, generando, paradossalmente, un dislivello che sarà ‘pareggiato’ dal donatario nel momento in cui sarà donatore. In termini più semplici, il ciclo del dono non termina con la restituzione, ma al contrario, invita e obbliga sempre alla risposta del/al dono senza mai generare una ricchezza materiale ma solo onore e prestigio. Quindi si rifiuta una guerra per entrare in un’altra guerra che non ha la caratteristica dell’ostilità ma della rivalità.

Ma cosa si donano? «Tutto, cibo, donne, bambini, talismani, terreno, lavoro, servizi, uffici sacerdotali e ranghi, è materia di transazione e di restituzione»54. Tutto ciò che viene chiesto, tutto ciò di cui si è in possesso, tutto va donato allo scopo di far capire che si sta scommettendo sull’alleanza, la cui alternativa è la guerra. Alain Caillé definì questo concetto incondizionalità condizionale55, un concetto antinomico che spiega chiaramente il significato del rapporto di donazione: è necessario partire senza condizioni, cedendo tutto ciò di cui si è in possesso allo scopo di cementare l’alleanza ma scommettendo, a propria volta, sulla condizione per cui il rivale farà il medesimo. Il questo senso si ha una forma particolare di calcolo economico, un do ut des utilitaristico, anche se non finalizzato all’arricchimento ma alla messa in gioco di tutti i possedimenti senza cui l’alleanza cadrebbe. Infatti, se una delle due parti in gioco ritiene che i suoi conti non tornino, si può rinunciare all’incondizionalità, ponendosi fuori dalla comunità politica e generando una secessione, una guerra.

Molte teorie si sono affacciate all’analisi del dono, per lo più teorie che vedono in esso, mutatis mutandis, una forma di contratto, per prima avanzata da Davy in La fede giurata. Dal suo punto di vista, lo scambio di doni e le prestazioni suntuarie sono fondate sulla periodicità rituale, costituendo un disequilibrio connaturato allo scambio, tipico della flessibilità del contratto56. Ciò che fa Davy non è studiare il dono, bensì esaminare il dono partendo dal contratto, nonché dalle implicazioni di quest’ultimo nell’ambito giuridico. Secondo i principi durkheimiani, di cui Davy è figlio, esistono tre criteri di oggettivazione che permettono l’analisi del contratto. In primis, la coercizione in cui gli individui si trovano immersi, una forza sociale a cui si piegano e che coinvolge anche le volontà, una rappresentazione individuale della coercizione del fatto sociale. Poi, il contratto si manifesta come una nozione collettiva, che implica di per sé una trascendenza degli individui per cogliere l’insieme di determinazioni che costituisce la società57. Infine, il contratto diventa parte integrante del diritto, afferente perciò alla sfera del giuridico.

L’interpretazione contrattualista del dono apre la strada ad evidenti difficoltà sociologiche, impedendo di operare scrupolosamente la componente metodologica e applicando, aprioristicamente, un concetto occidentale allo studio etnologico; a ragione, quindi, Mauss assumerà il dono come punto di vista privilegiato e quindi unico «nel situare la realtà del dono alla base delle forme generali di scambio»58. Ma se non si parla di un vero contratto, come si può definire il dono se neanche Mauss da una definizione effettiva? Probabilmente la definizione che meglio calza con l’idea è il quasi-contratto elaborato da Burgeois59. Il termine non è pensato proprio come un artificio, ma «come una naturale visione della volontà che deve semplicemente diventare cosciente di sé»60. Il concetto si situa nel mezzo tra due riflessioni contrattualistiche tra le più influenti, quella di Hobbes e quella di Russeau: quest’ultimo, nella sua riflessione, concedeva un ruolo centrale alla collettività delle relazioni umane, al contrario del primo largamente incentrato sul radicale individualismo dell’ homo homini lupus; in questo modo il quasi-contratto si pone come valida e fondante alternativa alle classiche visioni della socialità, incentrandosi, perciò, sulla reciprocità intesa come un adattarsi reciproco. Per quanto la rivalità sia un nodo focale, il dono si viene a costituire come costruttore di un debito fondamentale, che va pagato in modo suntuario nelle prestazioni ad oltranza, senza mai scendere nella vera e propria guerra. Il paradigma del dono non corrisponde ad una contrattualistica forma di obbedienza meccanica, riferita al contratto costantemente tutelato dalla legge a cui ci si deve piegare: chi dona entra in un ciclo in cui convivono simbioticamente obbligo giuridico e libertà fondamentale.

 


Note con rimando automatico al testo

1 M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 2002.

2 Alain Caillé, Anti-utilitarismo e paradigma del dono. Le scienze sociali in questione Diogene, Campobasso 2016, cit. p. 26.

3 Cfr. M. Mauss, Saggio sul dono, introduzione.

4 B. Karsenti L’uomo totale. Sociologia, antropologia e filosofia in Marcel Mauss. Il Ponte, Milano 2012, cit. p. 341.

5 Per quanto Aristotele ne sia stato il promotore, l’idea che lo sviluppo della natura sia teleologicamente orientato verso lo sviluppo dell’uomo è bene presente anche in molti autori moderni quali, ad esempio, I. Kant, A. Comte, H. Spencer. Tra in contemporanei, invece, si può annoverare anche J. Derrida, anche se si potrebbe parlare solo di una sua interpretazione.

6 L’applicazione della teoria darwiniana all’ambito del sociale prende il nome di spencerismo, dal nome del suo ideatore Herbert spencer, il quale applicò al corpo sociale, assumendolo come un dictat, il concetto di ‘lotta per la sopravvivenza’.

7 B. Karsenti, L’uomo totale, cit. p. 343.

8 Ibidem, cit.

9 La metafora della roccia è ben presente nell’opera maussiana e la ritroviamo sia nell’introduzione, sia nell’ ultimo capitolo, il quarto. Questa immagine, dal senso metodologico cruciale, serve a descrivere il dono come il ‘fondamento costante del diritto, al principio stesso della vita sociale normale’.

10 Cfr. M. Mauss, Saggio sul dono, cap. III. All’interno di questo capitolo Mauss elenca una serie di storie del diritto ad esempio il Nexum romano, diritto greco, diritto indiano, diritto germanico, diritto celtico e il diritto cinese dimostrando come il nucleo del dono sia un modus vivendi comune anche a tutte le società del mondo antico che oggi sono annoverate tra le più sviluppate al mondo.

11 Cfr. M. Mauss, Saggio sul dono, cap. IV.

12 B. Karsenti, L’uomo totale, cit. p. 345.

13 Si tratta di un saggio apparso sull’ Année sociologique, IX, 1904-1905, in collaborazione con H. Beuchat.

14 F. Boas, 1858-1942, etnologo di origine tedesca, fondatore dell’etnologia scientifica. Tra i suoi lavori capitali si ricorda lo studio dell’istituzione del potlac presso i Kwakiutl, insediati sull’isola di Vancouver.

15 Titolo originale “Leçon sur l’étude comparative des istitution juridique et religieuses”, trad. it. mia. L’insieme delle lezioni dal 1935 al 1938 alla scuola pratica di alti studi sono contenute in un annuaire in cui spiccano le lezioni sul potlac che in quel periodo divenne un tema centrale.

16 John Reed Swanton, 1873-1958, fu un antropologo, folclorista e linguista americano che si occupò principalmente di nativi americani. Tra i suoi lavori spiccano “Contributo all’etnologia degli Haida”, 1906, trad.it. mia, e “Condizioni sociali, credenze degli indiani Tlingit”, 1908, trad. it. mia.

17 Si tratta di popolazioni indigene del continente americano, residenti nel Canada, strettamente imparentate tra loro.

18 Cfr. B. Karsenti, L’uomo totale pp.350-351.

19 Williamo Helse Rivers Rivers, 1864-1922, antropologo, biologo e neurologo britannico. Oltre che famoso antropologo, giocò anche un ruolo di punta nella nascita della psicotraumatologia.

20 Richard Thurnwald, 1869- 1954, antropologo e sociologo di origine austriaca. Ai suoi documenti Marcel Mauss dedicherà svariate letture durante i suoi corsi, concentrandosi soprattutto sulla unu, la grande festa di Buin sulle isole Salomone, e sulle rivalità dei clan, in cui le famiglie si “vendicano” dei propri avversari a colpi di buone maniere e di spese.

21 Cfr. G. Davy La fede giurata. Studio sociologico del problema del contratto: la formazione del legame contrattuale”, trad. it. mia.

22 Cfr. Bronislaw Malinowski, 1884-1942, Gli argonauti dell’ovest del pacifico. Richiamandosi al mito di Giasone e degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro, l’autore definisce gli abitanti delle isole Trobriand come argonauti proprio a causa del loro periodico viaggio all’interno dell’arcipelago per onorare quello che viene chiamato il Kula Ring.

23 Raymond Lenoir, 1890.1972, nel 1924 pubblicherà due articoli dal titolo “Sull’istituzione del potlac”, articolo dedicato principalmente all’opera di Davy apparso in Revue Philosophique, XCVIIe ”Le spedizioni marittime, istituzione sociale nella Melanesia occidentale” dedicato, invece, alle analisi di Malinowski e apparso in L’Anthropologie XXXIV.

24 La risultante di questi studi sarà pubblicata sulla Revue des études graques, XXXIV, con il titolo una forma antica di contratto presso i traci, trad. it. mia.

25 Cfr. B. Karsenti, L’uomo totale, cit. p. 352.

26 Cfr. ivi p.348

27 Cfr. E. Durkheim Le regole del metodo sociologico, Editori Riuniti, 2018 Roma, p. 49.

28 E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, p. 55. La nozione di fatto sociale va’, però, ben distinta dalla nozione di corrente sociale.

29 B. Karsenti, L’uomo totale, cit. p. 370.

30 Si tratta di un vero e proprio commercio di mercanzie utili del mondo trobriandiano, finalizzato al mero utilitarismo economico, tanto da poter dire che “un individuo che non pratica il kula con grandezza d’animo necessaria, si dice che lo pratica come un gimwali”.

31 Questa precisazione risulta necessaria proprio in virtù del fatto che esiste una molteplicità di atti del donare come, oltre a quello cerimoniale, possono esserlo quello gratuito o quello solidale.

32 Cfr. M. Mauss, Saggio sul dono, p. 27.

33 La moneta comune viene suddivisa in due tipi: i braccialetti ricavati dalle conchiglie chiamati mwali e le collane lavorate da abili tornitori nella madreperla dello spondilo rosso chiamate soulava. Secondo Malinowski questi oggetti sono animati da un movimento circolare che fa sì che i braccialetti vengano trasmessi dall’ovest all’est, viceversa le collane viaggino da est a ovest.

34 Si recita una formula magica che “serve ad affascinare, a trascinare verso il compagno candidato, dopo averle evocate, le cose che egli deve chiedere e ricevere”. Questa definizione data da Mauss è già sufficiente per capire quanto il principio economico del do ut des sia lontano da queste cerimonie..

35 Cfr. Alain Caillé, Anti-utilitarismo e paradigma del dono, p. 28: “Il problema di una comunità politica […] è di riuscire a passare il più sistematicamente e durevolmente possibile dal ciclo diabolicodell’ignorare/prendere/rifiutare/tenere per sé, al ciclo simbolico del domandare/donare/ricevere/contraccambiare”

36 B. Karsenti, L’uomo totale, cit. p. 452.

37 B. Karsenti, L’uomo totale, cit. p. 453.

38 Cfr. ivi, p. 342.

39 M. Mauss, Saggio sul dono, cit. p. 14-15.

40 M. Anspach in Che cosa significa donare? Guida Editori, 2018 Napoli, cit. p. 58.

41 M. Mauss, Saggio sul dono, cit. p. 15.

42 Ibidem, cit.

43 Cfr. A. Caillé, Anti-utilitarismo e paradigma del dono, p. 31.

44 B. Karsenti, L’uomo totale, cit. p.422.

45 M. Mauss, Saggio sul dono, cit. p. 41.

46 Cfr. ivi p. 47.

47 È interessante notare che in un altro scritto intitolato La nozione di persona, Mauss rifacendosi alla tradizione latina, nota come il termine “persona” derivi da “per-sonare”, ovvero dal suono che un attore emetteva dalla maschera della recita e che perciò la sua voce ‘conti’.

48 Non solo i capi ma tutti quelli che l’autore definisce “nobili”, intendendo anche vassalli e parenti stretti dei capi.

49 Si intende presso tutti popoli arcaici, non solo quelli circoscritti al nord-ovest americano.

50 M. Hénaff in Che cosa significa donare? cit. p. 35.

51 Ivi, cit. p 37.

52 B. Karsenti, L’uomo totale, cit. p.395.

53 M. Hénaff in Che cosa significa donare? cit. p. 41.

54 M. Mauss, Saggio sul dono, cit. p.18.

55 Cfr. A. Caillé, Anti-utilitarismo e paradigma del dono, p. 29.

56 Cfr. B. Karsenti, L’uomo totale, p. 356.

57 In questo senso ci si riferisce al termine latino societas, ovvero una “corporazione” creata per un fine.

58 B. Karsenti, L’uomo totale, cit. p.356.

59 Cfr. ivi, p.398. Sulla scia di Shalins, sono citati anche dei riferimenti anche alle teorie contrattualiste classiche.

60 Ibidem, cit.