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NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Il Leibniz di Hegel nelle Vorlesungen e nella Fenomenologia dello Spirito

 

 

Forza, tendenza e finalismo
  

1. Per le monadi in senso stretto non v'è alcun posto nel sistema hegeliano. Ma ciò che Leibniz ha squadernato nella monade, la differenza come differenza determinata in sè ovvero l'autoeguaglianza come differenza interna – il principio degli indiscernibili – l'intima partecipazione di ogni singolo io monadico alla totalità del mondo, il conatus come tendenza che preme e palpita verso il dispiegamento di un a priori rimasto latente: tutti questi aspetti che Hegel ricompulsa, attivando un medesimo movimento di pensiero, non fanno che confermare l'immenso debito o se volete la solenne gratitudine, taciuta o dichiarata, che Hegel dovette provare per questo Universale apparso nella storia dell'umanità di nome Leibniz. Eppure l'enciclopedico Hegel, per comprenderlo pìù rapidamente e meglio doveva renderselo altrettanto sgradito e in opposizione, sebbene quella singola critica che emerge nelle Vorlesungen risulti per nulla brillante o acuta, bensì ricusabile per inconsistenza e infondatezza. Ma su questo aspetto ritorneremo in seguito, per adesso concentriamoci ad analizzare più da vicino le lezioni berlinesi.

La dialettica della libertà dello Spirito, sempre di nuovo protesa verso l'alto e l'avanti, trova nella metafisica monadologica di Leibniz una forma espressiva, una figura manifestativa, nonchè un grado di sviluppo più soddisfaciente rispetto allo spinozismo. Il principio dell'unità della sostanza è ormai divenuto estraneo allo Spirito settecentesco e percìo si invera, sotto la spinta propulsiva della negazione determinata – lievito vivo della dialettica – nell'universo poliritmico, policentrico e spumeggiante delle monadi leibniziane1, dove in omnibus partibus relucet totum: dove in ogni parte risplende l'infinito, il quale non solo si esprime in ogni ente finito ma è da ogni ente finito espresso a sua volta e in maniera differente, giacchè l'unicità del fondamento è ora mediata dalla pluralità delle sostanze. Tutte le creature, anche le più piccole, non sono più intese come evanescenti prolungamenti di un'unica sostanza o modificazioni privative di questa, bensì come identità narrative ontologicamente consistenti, singolari, inedite ed irripetibili: parti nell'infinito e non dell'infinito.

Per Leibniz, infatti, il finitizzarsi e il contrarsi dell'Uno, quale infinito finiente o universale distributivo – non collettivo – dà luogo ad una pluralità discreta di centri singolari autonomi, distinti tra di loro e indistinti dall'Uno. Quest'ultimo è simultaneamente presente tanto in se stesso quanto nel suo altro, cioè nella puntualità immateriale del differente che ha però effettualità propria: ciò rappresenta per Hegel un radioso passo avanti verso la faticosa uguaglianza di sè con se stesso dello spirito nella diseguaglianza del divenire storico.

 

2. Dal momento che la contrazione dell'Uno ha la sua concreta attualità nella singularitas propria delle forme sostanziali, dei sinoli monadici, quest'ultimi contraggono dal Principio primo, dalla sua ultrasingolare e superessenziale unità, l'indivisibilità e la semplicità.

Le monadi sono perciò unità negative, ovvero «qualcosa di semplice; ciascuna è per sè, indipendente dinanzi all'altra; [ciascuna] è in se stessa qualcosa di determinato [.,.] è differenza determinata in sè»2. Questa irrecusabile intuizione leibniziana commentata da Hegel di fronte ai suo studenti berlinesi, che si condensa nel principio degli indiscernibili, rimane per lui la più vigorosa e geniale. Rappresenta difatti un prezioso guadagno nel cammino del pensiero: un guadagno che Hegel rendeva evidente a se stesso nella Fenomenologia dello Spirito, nel suo viaggio di scoperta. Nel capolavoro hegeliano del 1807 la filosofia di Leibniz viene implicitamente evocata nel passaggio dalla percezione all'intelletto e parimenti dall'universale condizionato dalla sensibilità all'universale incondizionato, cioè nel toglimento dell'ultimo in quanto che separava l'essere per sè e l'essere per altro.

E' precisamente nel capitolo sulla percezione che il principio leibniziano degli indiscernibili si attiva, palesando la cosa percepita come il contrario di sè stessa. Essa «è per sè riflesso in se stesso, è Uno; ma questo essere per sè Uno è in [relazione] con il contrario, l'essere per altro»3, le molte proprietà. Non si dà infatti una cosa senza le sue proprietà, giacchè queste ultime ineriscono a lei, sono raccolte in un sostrato unitario e inscritte nella sua trama relazionale. La cosa è determinata in se stessa e non in virtù di una nostra superficiale ed estrinseca comparazione: essa è contemporaneamente una e anche; e dato che l'uno e l'anche non sono separati ma intrecciati, la coscienza fattasi intus legere può cogliere l'intelligibilità insita nell'esperienza della percezione come ritmo e nesso dialettico di complicatio ed explicatio: forza come uno e forza come anche: « le differenze immediatamente poste passano immediatamente nella loro unità e loro unità immediatamente nel dispiegamento, e questo di nuovo nella riduzione»4.

A quest'altezza della Fenomenologia, Leibniz rappresenta la cifra filosofica che raccoglie tale conquista speculativa: l'dentità come differenza interna, sicchè ognuno è in se stesso il contrario di se stesso e, a dispetto della differenza che ha in se stesso, è e resta uno.

 

3. Unità e differenza dunque non stanno per nulla l'uno fuori dall'altro, «ma sono essenzialmente lati toglientisi in loro stessi; e che è posto solo il passare di essi medesimi l'uno nell'altro»5. La monade è forza compressa o unità e contemporaneamente forza estrinsecata o differenza. Il decisivo risiede nel passaggio. Ma affinchè vi sia passaggio, la monade deve avere già in lei stessa ciò che si pone come un'essenza diversa, sebbene a titolo di possibilità inespressa, di virtualità non tematizzata o ancora di rappresentazione non conscia.

Ciò che sollecita il movimento monadico da un'oscura immediatezza ad una esplicita e mediata chiarezza è ciò che si chiama appetito. Esso costiuisce la tendenza delle monadi, il loro conatus, la loro evolutio, ovvero il loro costante proiettarsi in avanti e nel futuro, verso l'esplicitazione delle potenzialità veritative ancora implicite e latenti entro di esse. L'appetito rappresenta propriamente la fame, il negativo del bisogno inappagato che è contemporaneamente positività dell'impeto, ossia impulso espansivo che cresce con la compressione e che tende verso l'appagamento, verso il fine.

Non possiamo allora che essere d'accordo con Ernst Bloch6 nel sostenere che il concetto di tendenza così delineato, intimamente connesso a quello di telos, è un altro tesoro leibniziano senza il quale la dialettica hegeliana non sarebbe stata forgiata così potente e dirompente. La destinazione, la inquiétude poussante, come qualcosa d'interiore che ha la sua espressione nel dispiegamento, come infinita possibilità che sfocia in infinita attualità, educa Hegel a pensare la storia come un processo evolutivo finalistico, in cui la ragione negativa, che è potenza motrice di tutte le cose, dirige ogni evento, muovendo dalla sua interna necessità e squadernandosi come una trama di senso in un mare magnum di possibilità: una trama in cui necessità e contingenza si intrecciano7 e si rilanciano finalisticamente verso l'essere per sè dello spirito, verso la sua autorealizzazione e autorivelazione come ragione effettuale e reale.

La dialettica hegeliana trova dunque una delle sue radici più profonde in Leibniz, la radice pungente e pungolante della tendenza come forza produttiva, che ha un'origine archeologica nell'appetito e una vocazione teleologica che eleva a risultato lo spirito assoluto, il quale presuppone e ha all'inizio la propria fine come proprio fine. Tendenza e risultato intenzionano così l'hegeliano termine ultimo che insieme non è termine ultimo, bensì l'intero, la totalità come causa finale, e in pari tempo la leibniziana ragion sufficiente come determinazione del fine, che nell'appetito, nel suo oscuro e intenzionale premere, si manifesta fenomenicamente come fattore inclinante e non necessitante che sospinge titanicamente in avanti, alle possibilità più proprie radicate nell'a priori della monade.

 

4. Dicevamo poc'anzi che la monade leibniziana piega, contrae e complica in unità un concentrato di possibilità indistinte, un fascio invisibile di predicati allo stato latente, che premono ritimicamente per spiegarsi, dilatarsi ed esplicitarsi, attraverso la mediazione della fame. La monade è un centro immateriale di forza capace di piegare il suo poter essere e, mediante questa compressione, tendere parimenti a realizzarlo come proprio futuro. Essa, detto altimenti, avviluppa l'Uno infinito e lo sviluppa secondo il proprio punto di vista particolare e finito.

Ma allora non c'è nulla che non sia nella monade; essa trae direttamente dal suo fondo la relazione con gli oggetti esterni, la relazione con gli altri soggetti, e le determinazioni dell'ambiente in cui vive. Tutto è implicitamente presente in lei, anche quello che ignora, sicchè ciò che è intrinseco non è necessariamente appercepito con chiarezza; ogni suo afferraggio concettuale si struttura e si articola difatti sullo sfondo di piccole percezioni inconsapevoli – come se tutto quello che la monade sa, lo ha in fondo già sempre saputo, sebbene in modo confuso 8.

Ora, aver descritto la monade in questi termini, cioè come unità negativa, esclusiva, o come perseità annichilente l'alterità, rappresenta per Hegel il punctum dolens della filosofia leibniziana.

Se la monade è una totalità conchiusa e indipendente, tutto ciò che è altro da lei è posto come tolto; è soltanto un dileguare a cui manca il sussistere, ovvero un alcunchè di astratto che perde intrinseco valore veritativo e conoscitivo. Inoltre, aggiunge Hegel, se intendiamo la monade come negazione assoluta dell'altro, la negazione toglie anche il sè, in quanto la negazione assoluta di ogni esser-altro è negazione assoluta che si rapporta solo con sè: l'inessenziale toglie se stesso.

Vi è dunque una contraddizione insoluta – commenta con tono austero nelle Vorlesungen: vi sono cioè molte monadi singole «che debbono essere indipendenti ed il cui fondamento è che non stanno in rapporto reciproco»9 e con ciò Leibniz è costretto a servirsi di Dio, Monas monadum, per spiegare e armonizzare, quale super-iectum, la relazione tra le creature. Eppure, come ho anticipato all'inizio, tale critica non solo è assolutamente ingenerosa nei confronti di Leibniz ma è anche infondata. Proviamo a riassumere il perchè.

Nella sua Monadologia Leibniz definisce effettivamente la monade come unità senza pluralità, come atomo spirituale privo di finestre, quindi come unità negativa determinantesi del tutto interiormente. Però, questo aspetto negativo della monade, se visto dialetticamente in controluce, manifesta il suo risvolto positivo, sicchè la rete infinita di stratificazioni relazionali che connettono la monade con se stessa, con il mondo e con gli altri, non è tolta ma è presente al suo interno come intra-relazione. Del resto, se la monade è la parte che ha in sè il tutto di cui fa parte, in questo tutto è compresa anche la pluralità delle relazioni10, tipiche ed essenziali, che la connettono con gli altri momenti o punti dell'universo – non solo con gli altri soggetti.

E' evidente che Hegel non ha colto questa sfumatura dialettica della relazione in Leibniz, anzi l'ha impoverita rinchiudendola nell'insulso recinto dell'ontoteologia, del concursus dei, che non hanno alcuna pregnanza veritativa. Ciò comunque non basta per provare che in Hegel non tornino a vivere e a rilanciarsi rinnovate le più grandi intuizioni leibniziane. Leibniz è, e resta, affine ad Hegel nel modo più profondo, per poliedricità, capacità di ricezione e valorizzazione, come spero di aver mostrato.

 

Note con rimando automatico al testo

1 Con ciò Hegel non intende affermare che lo spinozismo sia andato perduto; la grande intuizione della sostanza di Spinoza è conservata ma è in pari tempo liberata dal suo semplice riferimento a se stessa, dalla sua immediatezza. Come è noto, con Hegel, le posizioni filosofiche sono assunte come cifre che condensano atteggiamenti esistenziali: ogni filosofo occupa il suo posto preciso nella «galleria degli eroi della ragione pensante» dove trova il suo autentico valore univerale e il suo onore concettuale. Ma in ogni filosofo c'è un orizzonte di pensiero che implica uno sfondo che non è stato reso esplicito. Nessuna tesi filosofica è perciò incondizionatamente falsa, anche se superata: lo è nella sua unilateralità, non lo è come sforzo espressivo, come contenuto del sapere, ovvero come momento negativo di transizione nell'inarrestabile trama storica dello Spirito.

2 Cfr. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie [1833-1836]; trad. it. a cura di Roberto Bordoli, Lezioni di Storia della Filosofia, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 506.

3 G.W.F Hegel, Phänomenologie des Geistes [1807]; trad. it. a cura di E. De Negri, Fenomenologia dello Spirito, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008, p. 104.

4 Ivi, p. 111.

5 Ivi, p.110

6 Cfr. E. Bloch, Subjekt-object [1949]; trad. it. A cura di Remo Bodei, Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel, il Mulino, Bologna 1982, pag. 134.

7 Sia per Leibniz sia per hegel, libertà e finalismo sono compossbili: ognuno di noi agendo liberamente, soddisfacendo con uno stile personalissimo la fame, lascia operare la causa finale, che per Leibniz emerge in ciascun centro sostanziale attuativo come energia vivace promanante dall'Uno, che senza necessitarci ci spinge ad aprire varchi di possibilità intorno a noi, ad armonizzare ciò che è separato, a lottare per i diritti delle vite deboli e, più in profondità, a preparare il ritorno verso la nostra trascendente dimora.

8 Per Leibniz, l'inconscio è a tutti gli effetti un modo di essere in noi dell'universo: un modo di essere non consapevole fintanto che non lo abbiamo fatto nostro. Ogni monade è più vera dove non si conosce ancora o dove si conosce poco. Se quindi adottassimo la strumentazione storiografica del precorrimento, questa notizia intuitiva leibniziana costituirebbe una valida e audace risposta all'idealismo hegeliano e al suo incagliarsi nelle secche coscienzialistiche e panlogistiche. Il decisivo infatti non risiede nella consapevolezza delle proprie percezioni, ma nel percepire stesso: lì rifulge la verità, la quale sempre precede e sempre sopravanza ogni nostra tematizzazione.

9 Cfr. G.W. F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, trad. it., cit., p. 508.

10 Nella Monadologia, Leibniz dichiara in modo netto come le monadi non sono limitate nelle relazioni con l'intero universo, ma nel modo di conoscerle. Infinite, difatti, sono le relazioni che attraversano ciascun centro monadico, ma per la maggior parte sono confuse; solo una piccola porzione di esse giunge a consapevolezza: le relazioni con gli Io più vicini, più prossimi. Per questo è altamente probabile – scrive Leibniz – che ciascuno di noi senta e risenta di quello che accade nel proprio altro, anche se non lo vede da tempo o se si trova a grande distanza da lui. C'è una confusa comunicazione emotiva tra noi e l'universo intero, un'energia misteriosa che ci lega a prescindere dalla fisica e apparente distanza.