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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Sentieri metafisici: con Leibniz verso Kant

 

Vi sono pensatori che con il loro tempo hanno poco a che fare. Essi non chinano il capo a questa o quellʼaltra moda,ma forgiano pura poesia e sondano nuovi spazi di possibilità con energia e coraggio, con la lungimiranza di chi è appena tornato dallʼeternità per un breve soggiorno sulla terra. Sono uomini liberi; sono uomini dello Spirito che attraverso i millenni si incontrano nello stesso piano: il piano del Nous, ovvero la dimensione intemporale dellʼuguaglianza, della libertà e della compossibilità.

Questi eroi della ragione sono le gambe e i piedi con cui la storia si muove, la forza propulsiva ed il motore che permette allʼumanità, nel dolore e nella speranza, di pervenire a gradi di Armonia sempre più elevati.

Fra questi spiriti eletti vʼè senzʼaltro Leibniz, il più grande pensatore della possibilità. Egli ha dedicato la sua vita a combattere e denunciare le rigidi logiche sociali dellʼesclusione e della discriminazione, sognando ad occhi aperti un mirabile dialogo interculturale ed interreligioso fra tutti i popoli del pianeta. La sua Monadologia1 è una riflessione sulla libertà, sullʼautodeterminazione, sullʼinviolabilità di ogni singola coscienza e sullʼaccordo intermonadico-federativo fra gli individui e gli stati.

Proviamo ad incamminarci insieme lungo questo sentiero metafisico.

 

1. Lʼintuizione monadologica: lo schizzo ed il preambolo

La Monadologia di Leibniz è indubbiamente un grande progetto di metafisica, unʼopera in cui la mancanza dellʼintreccio sistematico non ci impedisce di intravedere la tendenza, patente o latente, che mobilità il passaggio da una proposizione allʼaltra. Lo stile ivi adoperato è zetetico-congetturale: non varca mai la soglia dellʼipoteticità e della verosomiglianza; le tesi formulate cioè non hanno valore di dimostrazione, ma si dipanano come un possibile itinerario interpretativo che non solleva chi vi aderisce al di sopra degli altri venatores sapientiae. Il programma filosofico è ambizioso: rendere compossibile lʼistanza occamista della singolarità – recuperata dal concettualismo di Ockham attraverso la mediazione speculativa del rinascimentale Nizolio – con la teoria neoplatonica della contrazione dellʼUno, quindi con la dialettica uno-molti. Ne risulta la semantizzazione dellʼUno come universale distributivo e non collettivo: lʼUno infinito, contraendosi, dà luogo ad una pluralità discreta di monadi autocoscienti, distinte lʼuna dallʼaltra e indistinte dalla loro fonte suprema. Lʼinfinito finiente, infatti, nel suo contingente, libero e volontario atto creativo non solo suscita ciascuna forma sostanziale, esistentificandola, ma parimenti le dona la singolarità, trasmettendole consistenza e autonomia, senza ridurla epifenomenicamente ad un mero modo accidentale di se stesso, bensì riconoscendola come intelligenza sostanziale.

Con questa mossa che tiene in scacco il contemporaneo Spinoza – il quale attribuiva solo a Dio lʼindistruttibilità e la sostanzialità, vanificando la consistenza delle altre creature2 – Leibniz coniuga lʼUnicità del fondamento con la molteplicità delle monadi, dando vita ad una galleria di colori e di specchi, ove tutte le sostanze semplici esprimono allʼunisono la medesima essenza, per cui le fond est part.tout le même, ma secondo un punto di vista o un angolatura che è propria e personale di ciascuna creatura, quindi inedita ed irriducibile ad ogni altra (Principio degli indiscernibili):

per via della moltitudine infinita delle sostanze semplici, ci sono altrettanti universi differenti, le quali tuttavia sono soltanto le prospettive di un univo universo secondo il differente punto di vista di ciascuna monade3.

La monade, pertanto, è sia un punto di vista singolare sullʼUno, una veduta entificata, sia uno sguardo dellʼUno, sicché in omnibus partibus relucet totum, eadem sed aliter: varietas identitate compensata.

Questa suggestiva ipotesi dellʼArmonia universale raccoglie e rilancia lʼintuizione che lʼUno non fa salti e che non cʼè il vuoto, bensì una perpetua pienezza squadernantesi nella relazione tra le monadi (tutto) e la loro fonte primigenia (Uno). Anche nella più piccola minuzzaria, per lo più in una maniera sottile a noi impercettibile, risplende il raggio intenzionale e vitale dellʼOmnia Ubique:

Cʼè un mondo vivente [...]anche nella più piccola porzione di materia. Ogni porzione di materia può essere concepita come un giardino pieno di piante o uno stagno pieno di pesci4.

  

1.2 Idealismo e innatismo

Immerso fin dallʼadolescenza nella biblioteca paterna a studiare Aristotele, Platone e parte dei neoplatonici, Leibniz fece ben presto la sua scelta filosofica, inscrivendo le proprie elaborazioni teoriche entro il registro idealistico dellʼinerenza, sottraendosi al paradigma aristotelico-tomistico in cui la verità si attiva nellʼopposto registro realistico dellʼadeguazione. Tale mossa è evidente al lettore attento di oggi così come lo era al lettore di ieri. Già nei primi paragrafi dei complessivi 90 della sua Monadologia, la verità non simboleggia un grande oggetto esterno alle monadi cui adeguare le proprie rappresentazioni, bensì lʼinerire dellʼUno-Veritas a ciascuna forma monadica. Ciò significa che la verità infinita vive tutta intera ed indivisa nel finito, e che ogni sostanza singolare è da sempre insediata nella verità come parte che ha in sé il tutto di cui fa parte pur non essendo il tutto.

Opera qui una saldatura tra la via agostiniana e quella cartesiana che cerca la verità in interiore hominis, nella tendenza da parte dellʼinterno di esprimersi nellʼesterno. Non è necessario per così dire istituire ponti tra la verità e la monade, come se la prima stesse da una parte e la seconda dallʼaltra, giacché è la verità stessa, a titolo di virtualità, ad essere implicita nel concetto completo di ciascuna sostanza individuale, come potenza di senso non ancora liquidata o espressa.

La monade si configura quindi come una rete infinita di stratificazioni relazionali con se stessa, con il mondo e con gli altri, dove la serie delle relazioni che attraversano lei e la storia intera sono già sempre intra-relazionali, cioè innate.

Per questo la monade «non ha finestre»5, e invero non ne ha bisogno. Nulla entra nel suo spirito dallʼesterno; ed è una cattiva abitudine pensare diversamente. Non cʼè un oggetto estrinseco precostituito che invia delle specie messaggere al soggetto conoscente, poiché la monade possiede già tutto in se stessa, e pensa confusamente oggi ciò che penserà distintamente domani. Altresì non cʼè modo di spiegare come una sostanza monadica possa essere alterata per opera di unʼaltra, nonostante lʼesperienza sensibile ci illuda che si possano addirittura toccare fra loro. Si dovrà convenire di conseguenza che un Io monadico agisce su un altro io, il quale patisce, nella misura in cui lʼIo agente comprende distintamente ciò che dallʼIo patente è espresso confusamente. Se ci pensiamo bene, ciò accade di frequente nellʼamicizia sincera: il nostro migliore amico ci conosce distintamente laddove noi non ci conosciamo affatto: egli ci rivela aspetti di noi che non sapevamo; egli sa chi siamo.

Eʼ quanto mai inopportuno definire allora questo aspetto monadologico un mero racconto di fate, come fece a suo tempo Bertrand Russel6. LʼIo monadico fa invero una scoperta eccezionale: ritrova in sé relazioni che lo legano al tutto: «un legame […] di tutte le cose create a ciascuna e di ciascuna a tutte»7.

Lʼintero cosmo, lʼinfinito stesso è da sempre presente allʼinterno della monade, sebbene questʼultima non ne abbia piena consapevolezza. Essa è già gravida delle sue future rappresentazioni, dei suo incontri, delle sue conquiste ma deve divenirne cosciente, esprimendo ciò che implicitamente abita il suo concetto completo, trasformando le proprie percezioni in appercezioni.

appetito si agita in lei come il principio interno, energetico ed esplosivo, inquiétude poussante, che le consente di dischiudere lʼimplicito, il sopito, sollevandolo nel chiarore albeggiante della luce della coscienza. Nel suo sordo e cieco tendere da una rappresentazione allʼaltra, essa procede dallʼesterno della percezione corporea allʼinterno del proprio Sé, sempre sullo sfondo di piccole percezioni inconsapevoli – il suo fundus intimus in cui si cela il mistero finale verso cui va e da cui enigmaticamente proviene.

  

1.3 Possibilità, libertà e finalismo

La Monadologia è anche uno scritto che valorizza la contingenza: contingenza mai univocamente determinata. La monade infatti è un progetto in divenire, un concentrato di opportunità allo stato latente, che palpita e preme freneticamente, come forza espansiva inibita e protesa al futuro, per giungere a maturazione.

Da un punto di vista logico, la forma sostanziale o monade è il soggetto (S) il cui concetto completo © contiene la serie indefinita di predicati (P) che possono inerirle con certezza. Tuttavia, nella formula S è P, la copula non va pensata staticamente, come prestabilito essere del soggetto, ma dinamicamente come poter essere o non essere ancora del soggetto, sicché ciò che è intrinseco non è anche necessario.

Il concetto completo, pertanto, mai e poi mai è uno svuotamento della contingenza, poiché rivela un fascio di possibilità che va personalizzato, sviluppato e attuato. Lʼesperienza, dunque, non si riduce ad un semplice dipanare ciò che si trova compresso nel concetto: cʼè sempre di più; cʼè unʼeccedenza di senso da renderla imprevedibile, sempre aperta ad un mare magnum di possibilità.

Certo noi non conosciamo tutti i predicati che abitano il nostro concetto, solo Dio sa persino quanti capelli abbiamo sul capo. Ma questa apparente restrizione non ci impedisce, attraverso comportamenti, scelte morali e atteggiamenti, di escludere come antitetici quei predicati che intuiamo essere estranei alla nostra celata ma fungente essenza.

In questa prospettiva il destino o il fato sembrerebbero non avere spazio; sembrerebbero essere soltanto delle rubriche provvisorie dove di volta in volta archiviare tutto ciò che non ci riusciamo a spiegare. Quel che è indubbio per Leibniz è che il destinale non è una mera necessità ineluttabile, ma una possibilità che si traduce nellʼattività poietica del de-stanare o del de-stare ciò che è nascosto e che, risvegliato, ci catapulta in avanti a moʼ di destinazione teleologica. A sonnecchiare nella tendenza-latenza del sopito è un senso universale, cosmico, che ci investe, ci interpella; un misterioso piacere che ci lega alla totalità degli esistenti e dei possibili. Eʼ una chiamata dellʼUno che ci scuote dal nostro torpore e ci esorta alla responsabilità nei confronti di ogni forma di vita: minerale, vegetale e animale; unʼesortazione che, se colta, si tramuta in energia e in desiderio di libertà onnilaterale.

Noi siamo immersi in un campo prospettico di possibilità che chiamiamo libertà. La libertà è estranea alla casualità ma non alla causalità. Leibniz si riferisce in special modo alla causa finale che inclina senza necessitare le nostre scelte autentiche. Noi allora siamo autentici ogniqualvolta ascoltiamo la forza inclinante della finalità che ci attrae dallʼalto e dallʼoltre per lʼapocalittica unione col Padre: finalità che già nellʼorizzonte mondano agisce allorquando portiamo ad unità i lati separati della nostra personalità e delle nostre relazioni con gli altri; quando apriamo varchi di possibilità intorno a noi, quando armonizziamo ciò che è discorde, quando siamo testimoni di pace, quando lottiamo per i diritti delle vite deboli. In queste circostanze siamo liberi e come tali indistinti da Dio, cioè centri sostanziali attuativi di libertà e unità.

 

 2. Una ideale convergenza tra Leibniz e Kant 

Abbiamo potuto vedere, mi pare, che niente è per le monadi che non sia già in loro stesse. Le monadi si configurano, difatti, come parti nell’infinito e non come parti dell’impartibile infinito: parti che sono a loro volta indivisibili, giacché del Principio infinito contraggono l’assolutezza, e proprio per questo sono non soltanto contenute nell’infinito, ma sono anche contenenti l’infinito.

Kant ricompulsa questa intuizione idealista. Il suo pensiero fisso è lʼUno, il Sommo Bene. E la parte pratica della sua metafisica trascendentale lumeggia nitidamente il tentativo di pervenire al contatto, per via esperienziale, con lʼincondizionato Uno: incondizionato Uno che si rivela vicinissimo, intensivamente, non estensivamente, nella legge morale dentro di noi.

Volendo cercare il nucleo teorico della convergenza ideale tra Leibniz e Kant, ritengo che esso consista nellʼattingere al platonismo il dispositivo della contrazione dellʼUno: dispositivo che viene distintamente curvato in direzione monadologica dal primo e in direzione trascendentale dal secondo. Su entrambi i versanti, però, lʼUno è concepito come universale distributivo.

Questa chiave di lettura, vincente in Leibniz, è efficace ed operativa anche in Kant, anzi gli è indispensabile sia per postulare lʼindistruttibilità dellʼio, sicché il cammino terreno è troppo breve per completare il reditus ad Unum e dunque anche dopo la morte bisognerà conservare una certa memoria che ci mantenga saldi alla fune dellʼepistrophé, sia perché se lʼUno non trasmettesse distributivamente alle parti ciò che è proprio dellʼintero, noi non saremmo in grado di esperire alcuna certezza di tipo morale. Gli universali come la libertà, lʼuguaglianza non possono infatti essere dedotti per induzione dallʼesperienza; non sono determinati dalla fattezza empirica, ma sono a priori che trascendono e precedono lʼesperienza stessa.

Ora, per quanto le idee dellʼincondizionato giacciano al di là dellʼorizzonte sensibile o dellʼuniverso newtoniano, se viste in controluce nella filigrana trascendentale, esse non appaiono affatto come pura illusione o non senso, bensì come le preziose condizioni di possibilità del nostro pensiero e della nostra azione. Anche se non possiamo stringerle a noi nella forma della scienza, in quanto non riempibili con intuizioni sensibili, esse vibrano in noi non come nozioni conoscitive, ma come direzione e orientamento della nostra vita.

Lʼassenza dellʼoggetto cercato, sia pure per disposizione naturale, che possiamo chiamare in generale soprasensibile, risulta dunque, ad una considerazione trascendentale, come il risvolto di una pregnante presenza che ci guida durante la marcia mondana come un telos noumenico fungente, sebbene mai posizionale. LʼUno, insomma, si è aperto una via in noi. La legge morale è la genuina rivelazione di un mondo soprasensibile che si annuncia come origine e fine della nostra prassi; essa si manifesta alla volontà con forza imperativa ed incondizionata, ed esige che noi esseri razionali diamo al mondo sensibile la forma di un mondo intelligibile.

La libertà, così come le altre idee della moralità costituenti il campo degli a-priori sono unʼideale universale; sono lʼespressione verace dellʼUno in noi, costitutivamente impossibilitate a riprendere se stesse in una totale trasparenza: trasparenza che, se si desse, comporterebbe lʼautofondarsi delle suddette idealità, sfociando in unʼidolatrica autodeificazione. Tuttavia, il rilievo apriorico trascendentale, se da un lato ci impedisce fortunatamente di circoscrivere e oggettivare completamente tali idee, dallʼaltro è fondamentale per la nostra autodetermiazione, in quanto lascia a noi, allʼautonomia della nostra ragione, la responsabilità di ascoltarle così come emergono, fresche ed innate, dalle profondità del nostro io, inclinandoci a scegliere il Bene e suggerendoci cosa dobbiamo fare – senza perciò rinunciare a noi stessi ma proprio per essere noi stessi.

LʼUno si connota così, sia per Leibniz che per Kant, come il più lontano dei lontani e il più vicino dei vicini: egli dalla sua indisturbata trascendenza contrae in ogni singolo Io le idee della libertà, dellʼuguaglianza, della fraternità, aprendoci, con la purezza di un vento mattutino, alla possibilità di un mondo migliore e allʼutopia di una pace perpetua.

 

 

Note con rimando automatico al testo

1 Citerò lʼopera, dʼora in avanti abbreviata Mon., nellʼedizione italiana curata da Salvatore Cariati, pubblicata nel 2001 per la Bompiani. La traduzione adottata da Cariati fa fede, come è noto, allʼedizione critica di André Robinet: edizione pubblicamente lodata da Martin Heidegger, e che insieme a quella di Boutroux sono tra le più celebri e studiate. I Principes de la Philosophe furono composti nel 1714, universalmente noti come Monadologia. Furono scritti da Leibniz dietro lʼinsistenza dellʼamico Nicolas Rémond, che da tempo ne reclamava un compendio, e del poeta francese Fraguier, il quale intendeva mettere in versi il sistema delle monadi per dar vita a un nuovo De rerum natura.

2 Da un punto di vista politico questo pensiero si tradurrà in Spinoza nella monarchia, conseguenza del suo monismo assoluto; in Leibniz, invece, in una concordia intermonadica di tipo federativo, salvaguardante la pluralità dei pensieri e delle opinioni, dove ogni stato avrà la sua tavola dei valori: valori come intreccio di idee innate e dispisizioni storiche.

3 Mon., p. 85.

4 Mon. p. 89.

5 Ivi., p. 61.

6 Cfr. B. Russel, A Critical Exposition of the Philosophy of Leibniz, Cambridge 1900.

7 Mon., p. 85.