AZIONI PARALLELE 
non ha scopo di lucro, non propone alcuna pubblicità e ha come unico interesse la diffusione della cultura.
Pertanto, le immagini pubblicate si attengono all'a
rticolo 70, comma 1bis della legge sul diritto d’autore, dove si afferma che è possibile
la 
"libera pubblicazione attraverso la rete Internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro".

Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
Gabriella Baptist,
Giuseppe D'Acunto,
Aldo Meccariello
e Andrea Bonavoglia.
Sede della rivista Roma.

Nuova informativa sui cookie

AP on line e su carta

 

AP 6 - 2019
FALSIFICAZIONI
indice completo


 AP 5 - 2018
LA GUERRA AL TEMPO DELLA PACE
indice completo
(compra il libro
presso ARACNE) 


AP 4 - 2017
SCALE A SENSO UNICO
indice completo
(compra il libro
presso ARACNE
)


AP 3 - 2016
MEDITERRANEI
indice completo
[compra il libro 
presso ARACNE]


AP 2 - 2015
LUOGHI non troppo COMUNI
indice completo
[compra il libro 
presso ARACNE]


 AP 1 - 2014
DIMENTICARE
indice completo
[compra il libro 
presso ARACNE]



 

 I NOSTRI 
AUTORI

Mounier
di A. Meccariello e G. D'Acunto
ed. Chirico

[compra presso l'editore Chirico]


Modern/Postmodern
ed. MANIFESTO LIBRI
 
[compra presso IBS]


Solitudine/Moltitudine
ed. MANIFESTO LIBRI

[compra presso IBS]


 Vie Traverse
di A. Meccariello e A. Infranca
ed. ASTERIOS

[compra presso IBS]


L'eone della violenza
di M. Piermarini
ed. ARACNE

[compra presso ARACNE]


La guerra secondo Francisco Goya
di A. Bonavoglia
ed. ASTERIOS 

(compra presso ASTERIOS)

Riflessioni a partire da un brocardo di Domizio Ulpiano

 

A Franco Coppi e Lucio Saviani,

con infinita gratitudine

 

Si è stati cattivi spettatori della vita

se non si è visto anche la mano che

delicatamente – uccide.

F. Nietzsche, Al di là del bene e del male

  

L’autentico sentimento scientifico

è impotente davanti all’universo.

M. Sgalambro, La morte del sole

 

Ogni interprete osserva un testo […]

agendo in uno spazio di discrezionalità

alla ricerca di elementi fondativi,

assunti come limite

per l’esercizio della sua libertà.

L. Avitabile, La burocratizzazione dell’ermeneutica giuridica

 

 

Domizio Ulpiano, politico e giurista (170 circa–280 d.C.), tra i maggiori esponenti del diritto romano, scrive: «La giustizia è costante e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto» (Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi; Digesto, 1.1.10.1). A partire da questo passo del Digesto (compilazione di frammenti di opere del diritto romano redatta su incarico di Giustiniano I), le note che seguono vogliono essere spunto di riflessione in merito ad alcune questioni di attualità: il processo mediatico ed il potere della televisione; i pericoli e le opportunità dell’utilizzo della rete Internet; l’impatto del progresso delle intelligenze artificiali nella dimensione umana; l’importanza, nel diritto, dell’attività ermeneutica, non riducibile ad un calcolo macchinale. Oltre ad Ulpiano – il cui brocardo sarà orizzonte orientativo di questo saggio – i temi sono discussi con particolare riferimento a Pier Paolo Pasolini, Stefano Rodotà, Octave Mannoni, psicoanalista francese (1899-1989) e Bruno Romano, docente di Filosofia del Diritto presso La Sapienza Università di Roma.

 

 

1. Il potere della televisione

 

La concreta affermazione del concetto di giustizia configurato da Ulpiano trova purtroppo un ostacolo nel fenomeno del cosiddetto processo mediatico. I casi di cronaca nera occupano quotidianamente gli schermi e le pagine dei giornali, entrando nelle nostre case come tribunali in miniatura dove giornalisti ed opinionisti discutono in merito all’operato delle forze dell’ordine e della magistratura, esprimendo giudizi in merito alla posizione dell’indagato o dell’imputato; tutto ciò in totale contrasto con l’art. 27 della Costituzione italiana, che così recita: «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva».

Assistendo ai talk show di approfondimento dei casi di cronaca, seguendo un servizio del telegiornale, o leggendo un articolo di quotidiano, è possibile in effetti notare chiare e continue interferenze giornalistiche con l’attività della forza pubblica incaricata delle indagini: spesso, ad esempio, alcuni testimoni sono ascoltati prima dai giornalisti e poi dalla magistratura. Tutto ciò ha luogo nella ricerca della notizia più affascinante, spesso gettando ombre su individui non imputati o neanche indagati. Non vi è alcuna attenzione al rispetto del diritto altrui: tutto si esaurisce nella dimensione utilitaristica degli ascolti televisivi. Se la giustizia è la «costante e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto», nel fenomeno del processo mediatico non vi è alcuna attenzione a questo principio.

Franco Coppi, avvocato, emerito di Diritto Penale presso La Sapienza Università di Roma, considerato tra i più illustri penalisti italiani e Nicola Marseglia, avvocato penalista, in riferimento ad un caso di cronaca particolarmente (ed ossessivamente) seguito dai media, scrivono:

 

I mezzi di comunicazione si sono impadroniti della vicenda e si sono scatenati senza alcun ritegno e senza alcuna preoccupazione di poter influire negativamente sull’accertamento della verità procedendo ad autonome indagini […], all’esame di testimoni, a sopralluoghi, a sondaggi di opinione, a dibattiti con la partecipazione di esperti o sedicenti tali […]. Certo è che non si è mai visto che testimoni comparissero in televisione per anticipare, commentare e difendere le proprie dichiarazioni. […] Il risultato paradossale di questa situazione è che nel processo sono confluite anche le dichiarazioni rese da imputati e testimoni a giornalisti, opinionisti e redattori televisivi (e quindi dichiarazioni ovviamente rese secondo il particolare momento, le convinzioni dell’intervistatore, la volontà di difendere la propria posizione a fronte di quanto dichiarato da altri in altre interviste o, ancora per stupida vanità, per mania di protagonismo, ecc.).1

 

Le parole di Coppi e Marseglia contenute in questo frammento permettono di dare uno sguardo ancora più circostanziato riguardo alla portata di questo fenomeno e su come esso interferisca nelle vicende giudiziarie. Si parla genericamente di mezzi di comunicazione, ed è indubbio che le vicende di cronaca nera siano seguite da una varietà di media; tuttavia è altrettanto fuor di dubbio che il medium televisione sia il più diffuso e di conseguenza il più condizionante. Per questo motivo la televisione merita un’attenzione particolare.

Il potere della televisione è stato brillantemente colto da Pier Paolo Pasolini, che in un’intervista in RAI del 1971 spiega:

 

Nel momento in cui qualcuno ci guarda nel video ha verso di noi un rapporto da inferiore a superiore, che è un rapporto spaventosamente antidemocratico. […] Le parole che cadono dal video cadono sempre dall’alto, anche le più democratiche, anche le più vere, anche le più sincere […]. L’insieme della cosa vista dal video acquista sempre un’aria autoritaria, fatalmente, perché […] parlare dal video è parlare sempre ex cathedra, anche quando questo è mascherato da democraticità.2

 

Nell’espressione «le parole che cadono dal video cadono sempre dall’alto» è descritta con eccezionale precisione il potere del medium di massa e l’influenza che esso esercita. Non è un caso, ad esempio, che la televisione sia uno dei principali obiettivi nell’organizzazione di un colpo di stato: si tratta in effetti di uno straordinario mezzo di propaganda e di affermazione del potere.

Le parole di Pasolini ci permettono ora di osservare con uno sguardo più ampio il fenomeno del processo mediatico. Giornalisti, presentatori ed opinionisti raccontano spesso una verità parziale dei fatti, nella misura in cui ciò consente un maggior numero di ascolti, approfittando del potere che la televisione offre loro: nella maggior parte dei casi si tende a sostenere tesi colpevoliste, sfruttando la (legittima) pretesa dei cittadini di sapere che il colpevole sia assicurato alla giustizia. Lo spettatore sarà dunque influenzato dal racconto di quella verità parziale e sarà portato inevitabilmente a considerare colpevole un individuo anche prima di una sentenza di condanna definitiva o addirittura dopo una sentenza di assoluzione, quasi come se la giustizia, in questo senso, si configurasse nel trovare un colpevole e non il colpevole. Insomma, «niente di più feroce della banalissima televisione»3. La sentenza televisiva è emessa secondo criteri che non appartengono alla giuridicità. Nella giuridicità vi è sempre una possibilità altra: la sentenza ritenuta ingiusta può sempre essere appellata ed anche quando essa è definitiva può essere sempre revisionata. La televisione invece non ammette impugnazione: la sua sentenza sarà perpetuamente valida perché con la sua spaventosa potenza persuasiva ha radicato nella mente di milioni di spettatori che quanto è stato deciso non ha possibilità di modifica.

 

 

2. Il mondo di Internet: pericoli e possibilità

 

Le parole di Pasolini in riferimento alla televisione potrebbero essere rilette oggi riguardo al mondo di internet ed in particolar modo del social network, cioè «un servizio di rete sociale (…) che offre servizi di messaggistica privata ed instaura una trama di relazioni tra più persone all’interno dello stesso sistema»4.

Alberto Angela, in una recente intervista, in riferimento al fenomeno delle cosiddette fake news, cioè la diffusione di notizie false sui social, afferma che «il web è come una grande piazza: si va e si incontrano tante persone; però è ovvio che noi quando andiamo per strada non è che ci fidiamo della prima cosa che ci dice uno sconosciuto; invece sul web sì»5.

Pasolini probabilmente direbbe che le parole che arrivano dal web cadono sempre dall’alto mettendo l’ascoltatore in una posizione di inferiorità, cosa che non accade parlando con un altro individuo nella vita reale.

Altro fenomeno da tenere in considerazione è il proliferare di ingiurie e diffamazioni sul web. Per comprendere l’attualità della questione si veda ad esempio quanto accaduto a Laura Boldrini, per anni oggetto di feroci insulti sui social network; si pensi anche agli auspici di morte rivolti al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella6. Insulti ed ingiurie si propagano anche contro altri utenti e, per effetto del processo mediatico, contro protagonisti dei casi di cronaca nera. Ciò detto, alle parole di Alberto Angela si potrebbe aggiungere che in una piazza reale nessuno si metterebbe ad insultare altri soggetti o specialmente il Capo dello Stato, in tutta tranquillità e con la convinzione di rimanere impunito. Continua infatti Angela: «Purtroppo sul web non c’è la responsabilità di chi parla; chiunque può dire qualcosa e poi non ha delle conseguenze. Se le stesse cose […] le dicesse scrivendo su un giornale o in tv sarebbe un putiferio»7. Certamente, trovarsi dietro una tastiera, fa sentire l’utente al riparo dalle responsabilità.

L’illiceità di tali comportamenti è stata recentemente confermata dalla Corte di Cassazione, che scrive: «la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art.595 terzo comma del codice penale, poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone»8.

Ritornando alla questione del processo mediatico, oggetto di ingiurie e diffamazione sono anche individui indagati, imputati e condannati, specialmente se le accuse riguardano reati che comprensibilmente toccano più di altri la sensibilità dei cittadini. Sono molti gli utenti dei social che scrivono auspici di morte nonché di torture nei confronti dei responsabili (o presunti tali) di stupri od omicidi. Sorvolando sulla violazione del diritto a non essere considerati colpevoli fino a sentenza definitiva e sulla illiceità dell’ingiuria espressa sul social, di cui si è già fatto cenno, la questione verte ora sull’ammissibilità della pena di morte e della tortura. Il diritto, inteso non nella sua positività e contingenza storica, ma nella sua purezza ed universalità (si richiama qui la genesi fenomenologica del diritto secondo Husserl), non è compatibile con una forma definita e definitiva, ma ammette sempre una nuova apertura, una nuova via: in questo senso una sentenza può sempre essere impugnata o revisionata. La pena di morte è invece definitiva, non ammette impugnazioni o revisioni. Per quanto concerne invece la questione della tortura e del desiderio di infliggere sofferenza al colpevole (o presunto tale), è opportuno ricordare Kant, quando afferma che «in ogni uomo va operata una distinzione tra lui e la sua umanità»9: in tal modo «anche i giudici punendo i criminali non ne debbono disonorare l’umanità: debbono comminare loro il castigo, ma non offendere la loro umanità con punizioni ignobili»10. La tortura quindi non punisce la personalità del colpevole, alla quale sono da attribuire le sue azioni e quindi la sua responsabilità, ma la sua persona, riferibile invece alla dimensione umana comune a tutti gli uomini; in questa direzione Simone Weil scrive infatti che «in ogni uomo vi è qualcosa di sacro»11.

Occorre a questo punto chiarire che internet, a differenza della televisione, ammette un comportamento attivo del soggetto che ne usufruisce: egli può, appunto, navigare, cioè muoversi ed interagire con altri individui. Chi naviga sul web può ritrovarsi dunque in una doppia situazione: una passiva ed una attiva.

L’analisi di Pasolini torna nuovamente utile: se è vero che le parole del medium cadono dall’alto, nel momento in cui il soggetto è ascoltatore passivo subisce l’influenza di ciò che ascolta in una condizione di sottomissione; quando invece il soggetto agisce attivamente sulla rete è convinto di essere in una posizione di superiorità rispetto agli altri utenti ed addirittura al di sopra della legge, e crede di essere autorizzato ad ingiuriare e diffamare: l’essere dietro ad una tastiera, come già detto, lo ricopre della sicurezza necessaria per potersi scagliare contro altri soggetti, siano essi politici, protagonisti di casi di cronaca nera oppure altri semplici utenti.

La possibilità che il Web offre di tenere un comportamento attivo non produce tuttavia solo risultati negativi, beninteso. L’utente della rete può attivamente liberarsi dalla condizione di passiva ricezione, avendo la possibilità di verificare più fonti in merito ad una informazione. Ciò non è invece permesso dalla televisione: quella condizione di sottomissione di cui parla Pasolini non ammette comportamenti attivi da parte dell’utente.

Un esempio calzante possiamo trovarlo nella Corea del Nord, dove da decenni si è instaurato un regime dittatoriale. Il governo detiene ovviamente il controllo della televisione di stato e di tutti i mezzi di informazione. Con l’avvento della rete internet il regime si è dovuto attivare per impedire che i cittadini, attraverso il web, potessero liberarsi dall’informazione falsata da esso imposta. Nel 2000 è stata così creata Kwangmyong12,una rete intranet, cioè privata, non collegata con la rete globale. L’accesso alla rete Internet è consentito solo a determinate persone, per cui Kwangmyong è l’unica rete di computer a disposizione della gente comune: in tal modo i cittadini sono isolati dal resto del mondo e vengono a conoscenza solo di ciò che il governo ritiene utile. Ai nordcoreani è dunque negato quel comportamento attivo che è permesso invece dalla rete globale. Grazie a questa soluzione, il governo nordcoreano si è messo al riparo dal rischio che taluni soggetti possano venire a conoscenza di una realtà altra, minando la forza del regime.

Della televisione è possibile prendere il totale controllo. Della rete globale no; ci si può solo accontentare di esercitare una mera influenza oppure impedirne l’accesso: ecco quindi l’esigenza della creazione di una rete chiusa. Stefano Rodotà, in riferimento al Web, scrive: «Il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto, la rete che avvolge l’intero pianeta, non ha sovrano”13.

Riprendiamo nuovamente Ulpiano. Nel mondo di Internet, «la costante e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto» può eventualmente trovare riscontro positivo nella possibilità di partecipazione attiva offerta dal Web; trova invece sicuramente un ostacolo nelle condotte ingiuriose e diffamatorie al quale si assiste sui social.

Internet ha influito ed influisce anche sul mondo della politica. I social network sono sempre più utilizzati da parte di esponenti politici, non come spazio privato, ma come strumento di divulgazione pubblica del proprio pensiero o di informazione (o propaganda) per il cittadino riguardo le attività delle istituzioni.

Rilevante è la questione delle presunte influenze che i social network eserciterebbero sulla politica. In un articolo de “Il Sole 24 Ore” si legge:

 

Nel 2012, in piena era Obama, la rivista scientifica Nature dimostrò che Facebook era riuscito a portare alle urne 340mila elettori in più grazie ad un esperimento sociale svolto nel 2010 in occasione delle mid-term elections: le elezioni che si svolgono due anni dopo le presidenziali per rinnovare il congresso […]. Nello stesso giorno vennero inviati a destinatari diversi un “messaggio informativo” di incoraggiamento al voto […] o un “messaggio sociale” dove si mostravano le foto-profilo di amici che avevano dichiarato di essersi recati alle urne cliccando sull’apposito pulsante del social network […]. Il risultato fu che i destinatari del messaggio in forma social erano del 2% più inclini a dire di aver votato, dello 0,4 % più propensi a documentarsi on line, e dello 0,3 % più intenzionati a recarsi davvero alle urne […]. Nel bilancio totale circa 60mila persone scelsero di votare sulla spinta della notifica personale, ma a fare la differenza furono le 280mila spinte alle urne dal contagio sociale propagato on line. In altre parole, su 340mila votanti influenzati dalla piattaforma, la stragrande maggioranza aveva subito l’effetto-sciame innescato dal vedere il comportamento dell’alto.14

 

La ricostruzione di Magnani permette di comprendere quanto la politica sia interessata alla questione. Così i social potrebbero essere, dopo la televisione, il nuovo obiettivo del potere: se ad esempio Facebook può spostare migliaia di voti, cosa potrebbe accadere se un partito ne prendesse il controllo? Come suggerisce Foucault, «bisogna studiare il potere […] al di fuori del campo delimitato della sovranità giuridica e dell’istituzione dello stato. Bisogna invece analizzarlo a partire dalle tecniche di dominazione”15.

Pasolini avrebbe forse parlato del feroce e banalissimo Web. L’impatto del Web sulla politica non può tuttavia avere solamente risvolti negativi ed autoritari. Nei primi anni Duemila, con la galoppante crescita di Internet, la questione della rete ha interessato i giuristi, soprattutto per quanto concerne la possibilità di creare un sistema di democrazia diretta mediante il web. Scrive Rodotà:

 

Sull’orizzonte originario di Internet si staglia, nitido, il mito fondativo della democrazia: l’Agorà di Atene. Nel villaggio globale, nell’immensa sua piazza virtuale, sarebbe stato possibile ricostruire le condizioni della democrazia diretta. Internet sarebbe così venuta in soccorso della morente democrazia rappresentativa, e l’avrebbe traghettata sui lidi più sicuri di una democrazia immediata.16

 

In questa direzione si parla oggi di e-democracy (contrazione di electronic democacy). Proprio la e-democracy potrebbe guidare il superamento della democrazia rappresentativa, nonché della distinzione tra governanti e governati. Occorre a questo punto chiederci se vi siano state o vi siano oggi esperienze di e-democracy.

È possibile citare innanzitutto il Partito Pirata Tedesco, dotato di un software denominato LiquidFeedback, piattaforma che funge in sostanza da assemblea permanente e virtuale, in cui ogni iniziativa è sottoposta al voto degli iscritti.

Negli Stati Uniti il tema della e-democracy ha destato molto interesse. Pur considerando la fredda reazione a livello istituzionale riguardo ad un dibattito concreto sulla democrazia diretta, è possibile citare White House 2, iniziativa promossa da Obama nel 2008 con il fine di creare una piattaforma sulla quale i cittadini potessero realizzare proposte e programmi condivisi; tuttavia il progetto morì nel 2010. White House 2 è stato poi utilizzato in Islanda come modello per un progetto di riforma costituzionale con l’apporto di tutti i cittadini (mai realizzato).

Per quanto riguarda l’Italia è certamente interessante analizzare l’esperienza del Movimento 5 Stelle, partito politico che utilizza una piattaforma virtuale (denominata “Rousseau”) come strumento di consultazione degli iscritti. A differenza del Partito Pirata Tedesco che alle elezioni non ha mai superato il 10%, il Movimento 5 Stelle è arrivato in meno di dieci anni al governo del Paese; tuttavia la consultazione on line raccoglie solo una minima parte degli elettori del partito, pertanto il concetto di e-democracy non viene pienamente attuato.

Alla luce di queste esperienze, considerando l’art. 1 della Costituzione della Repubblica italiana potremmo chiederci quanto segue: dal momento che «la sovranità appartiene al popolo» (Costituzione della Repubblica Italiana, art. 1), quale mezzo migliore della e-democracy può offrire la possibilità, al popolo, di esercitare la propria sovranità, realizzando dunque una «costante e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto»? Occorre comunque rilevare che senza assicurare ai cittadini un adeguato livello di istruzione e preparazione in materia di educazione civica e di diritto pubblico, la democrazia diretta via Web rischierebbe di lasciare le sorti di uno Stato in balia di individui che non dispongono delle conoscenze necessarie per comprendere le conseguenze derivanti da ogni decisione politica. L’esperienza della democrazia diretta non può dunque dirsi realizzata, né si può affermare che possa essere efficacemente attuata in tempi brevi.

 

 

3. Nuove tecnologie ed Umano

 

I nuovi mezzi tecnologici si diffondono con estrema velocità e permeano ormai le nostre vite tanto da dover riflettere su eventuali cambiamenti della dimensione umana stessa.

 

Mi par chiaro, infatti – scrive Sergio Cotta, cogliendo tali mutamenti già nel 1971 – che l’uomo della presente età tecnologica ha una visione della vita per molti aspetti diversa da quella dell’uomo dell’età artigianale e del lavoro manuale. E questa diversità è senza dubbio riconducibile in misura rilevante al diverso spazio occupato dalla scienza in tali due età.17

 

È necessario a questo punto ampliare il discorso verso l’impatto delle nuove tecnologie nella dimensione umana, qui discusso nelle tre direzioni dell’identità, dell’etica e della responsabilità.

 

Il mutamento più significativo – scrive Stefano Rodotà – è rappresentato dal fatto che il corpo […] intrattiene rapporti sempre più intensi con un mondo delle macchine […]. Il corpo, dunque il luogo per definizione dell’umano, ci appare oggi come l’oggetto dove si manifesta e si compie una transazione che sembra voler spossessare l’uomo dal suo territorio, appunto la corporeità, facendolo reclinare nel virtuale o modificandone i caratteri in forme che […] fanno parlare […] di post-umano […]. La nuova dimensione dell’umano esige una diversa misura giuridica, che dilata l’ambito dei diritti fondamentali della persona.18

 

Rodotà coglie un aspetto fondamentale e probabilmente ancora troppo sottovalutato: i mutamenti del mondo umano dovuti al progresso tecnologico invitano a riconsiderare il ruolo della corporeità e, di conseguenza, l’intera dimensione dell’identità. In questa direzione, Octave Mannoni, in riferimento alla Macchina, osserva: «Da quando essa esiste, io non so più […] chi sono io”19.

Riprendendo il brocardo ulpianeo, se «la giustizia è la costante e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto», è quindi fondamentale stabilire chi sia “ciascuno”, quale sia, appunto, la sua identità. Rodotà, infatti, insiste su questo tema:

 

Profondissimo è divenuto il pozzo dell’identità […]. Proprio il rapporto con il mondo delle macchine mostra che l’identità è un oggetto sociale complesso, irriducibile ai soli dati naturalistici […]. La costruzione dell’identità […] si effettua in condizioni di dipendenza crescente dall’esterno, dal modo in cui viene strutturato l’ambiente nel quale viviamo […]. Stiamo davvero vivendo una vera rivoluzione dell’identità. L’identità è nel cuore di un tempo di straordinari tumulti, nell’età nuova del Web, della continua e massiccia produzione di profili, […] dell’intelligenza artificiale”.20

 

Utile esempio dell’attualità della questione è il profilo social. Nel momento in cui il mio profilo diviene espressione della mia personalità e del mio pensiero, esso fa parte della mia identità, che ormai si costruisce, appunto «in condizioni di dipendenza crescente dall’esterno»21. In effetti, «le mie opinioni politiche o la mia fede religiosa accompagnano e costruiscono la mia identità solo se posso collocarle fuori della sfera privata, se posso farle valere nella sfera pubblica»22. La costruzione dell’identità nella «nuova dimensione dell’umano, esige una diversa misura giuridica, che dilata l’ambito dei diritti fondamentali della persona»23. Pertanto i diritti fondamentali della persona devono ormai estendersi anche ai profili social, in quanto parte integrante dell’identità di un individuo. È questo il motivo per cui, ad esempio, l’ingiuria e la diffamazione sul Web divengono fenomeni ai quali il giurista deve prestare particolare attenzione, garantendo il realizzarsi di quella «costante e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto» indicata da Ulpiano. Se infatti il profilo social integra la mia identità, anche sul Web io ho il diritto di non essere leso da espressioni offensive, così come ho il dovere di non ingiuriare e diffamare altri utenti. Se il profilo social integra l’identità estendendo i confini dei diritti, vi è dunque anche un’espansione della responsabilità.


4. Il progresso della robotica: interrogativi etici e giuridici


Di particolare rilievo ed attualità è il progresso della robotica, cioè la scienza che progetta automi con intelligenza artificiale in grado di riprodurre le attività umane. Per quanto concerne l’identità, occorre chiederci se un robot possa essere considerato un soggetto, al pari dell’essere umano. Per quanto progredisca lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, i robot sono governati dagli schemi numerici degli algoritmi, incompatibili con la dimensione dell’umano. La soggettività infatti «non è avvicinabile secondo gli schemi dei numeri, ma esige il linguaggio delle parole dialogiche, manifestative della volontà»24 e non dell’esecuzione meccanica di impulsi programmati. Nascono a questo punto interrogativi etici e giuridici. L’esempio più calzante da cui muoversi è quello delle automobili con guida autonoma. Come agiranno queste intelligenze artificiali quando, in particolari casi fortuiti, dovranno scegliere se investire un bambino o schiantarsi contro un muro mettendo a rischio la vita dei passeggeri? La questione comporta un interrogativo etico; in effetti negli ultimi anni si è parlato di roboetica25, cioè dell’etica applicata ai robot, o ancor meglio, dell’etica degli umani che progettano gli automi. Si è anche ipotizzata la possibilità di inserire nei robot un algoritmo etico26. Allo scopo di riflettere sulla roboetica è intervenuta Deep Mind, società di ricerca sulle artificial intelligences, ha creato una Partnership on Artificial Intelligence to Benefit People and Society, prevedendo al proprio interno un comitato etico. Un tema particolarmente discusso è l’impatto della robotica sul mondo del lavoro: in effetti, come sottolinea un articolo de Il post,

 

secondo molti studi nei prossimi decenni l’introduzione di nuove tecnologie farà aumentare la produttività delle aziende ma al tempo stesso porterà a una diminuzione dei posti di lavoro difficile da compensare con la creazione di nuove opportunità di impiego a meno che i governi non prendano provvedimenti.27

 

Si tratta in questo caso di un’etica indirizzata alla mera efficienza, alla dimensione «dell’utilità monetizzabile, commercializzata nel mercato, oggi qualificato dal dominio delle operazioni della finanza sulle attività dell’economia reale»28, contraria alla «volontà costante e perpetua di attribuire a ciascuno il suo diritto». È necessario chiedersi: se l’attività di un robot arreca un danno patrimoniale ad un altro soggetto, gli causa danni fisici oppure addirittura ne provoca il decesso, può il robot essere responsabile?

 

Quando parliamo di colpevolezza – scrive il penalista Fabrizio Ramacci – intendiamo riferirci sicuramente alla componente psichica del reato ed al suo addebito a titolo di responsabilità individuale; vogliamo considerare, in qualche modo, almeno l’elemento soggettivo, articolato nelle modalità della volontarietà e della involontarietà dell’agire.29

 

Il robot non esprime una volontà, non esercita una libertà, ma esegue degli impulsi algoritmici programmati. «La Macchina ricorda Mannoni non valuta niente, calcola»30. In questa direzione, come giustamente osserva Bruno Romano, «la radice della responsabilità e dell’imputabilità è […] la libertà del soggetto»31; «è giuridicamente imputabile – continua Romano – chi esercita una libera scelta di contenuti relazionali, concepiti e realizzati con il pensiero e con la volontà, propri di un soggetto responsabile»32. Certamente lo sviluppo tecnologico sta conducendo le intelligenze artificiali alla possibilità, in presenza di alternative, di compiere una scelta. Tuttavia un soggetto, un essere umano, nel momento in cui compie una scelta, è consapevole di tale scelta.Un automa mai sarà consapevole delle proprie azioni e «mai si [troverà] con consapevolezza e responsabilità, davanti alle leggi istituite da un legislatore ed amministrate da un magistrato»33 perché, in effetti, «le macchine ed i numeri non mentono, né dicono il vero, non scelgono né la buona fede né la mala fede»34. La responsabilità dunque è radicata nella libertà e di conseguenza è propria esclusivamente del mondo umano, ed estranea a quello delle macchine, comprese le intelligenze artificiali che, in quanto tali, non esprimono volontà ma si ritrovano ad «eseguire unicamente operazioni anonime»35. Ne La metafisica dei costumi Kant scrive: «Persona è quel soggetto, le cui azioni sono suscettibili di un’imputazione […]. Cosa [Sache] è una cosa [Ding] che non è suscettibile di alcuna imputazione».36 I robot, per quanto intelligenti, non essendo consapevoli delle proprie scelte, non sono imputabili, quindi, come suggerisce Kant, non sono persone, né possono essere assimilati al mondo umano. A questo punto occorre chiarire che «una macchina […] funziona unicamente perché è un prodotto dell’opera umana»37 e che dunque un robot «non ha una genesi macchinale, ma è da ascrivere agli uomini ed alle donne che producono la macchina e che nel produrla vi iscrivono una programmata direzione di funzionamento»38. La responsabilità degli illeciti causati dall’attività robotica è quindi da attribuire al produttore che ha programmato l’automa oppure al proprietario che lo ha acquistato accettandone eventualmente i rischi? La questione non è di facile risoluzione. Ciò che interessa ai fini di questa discussione è che in ogni caso la responsabilità sarà da attribuire agli uomini ed alle donne (produttori o proprietari) e non ai robot; questi ultimi infatti non sono imputabili in quanto espressioni di mere esecuzioni e non di atti di volontà.

 

 

5. Macchinalizzazione del giudizio

 

Il progresso delle nuove tecnologie offre importanti possibilità per il mondo del diritto. L’evoluzione dell’informatica giuridica, ad esempio, ha creato degli algoritmi per il calcolo delle probabilità di vincere una causa (simulando quindi una sentenza) oppure per la rilevazione di clausole contrattuali vessatorie per il consumatore39. Il progresso della scienza forense consente alla magistratura di disporre di mezzi molto più efficaci di un tempo per la risoluzione dei casi. Considerando tale progresso tecnologico applicato al diritto, occorre chiederci a questo punto se sia possibile sostituire il giudice con un automa governato da algoritmi tesi alla risoluzione dei casi sottoposti al suo giudizio. Un esempio attuale, utile per introdurre la questione, è la vicenda riguardante Facebook ed i dipinti di Pieter Paul Rubens: l’algoritmo che il social network ha programmato per censurare le immagini pornografiche ha oscurato alcuni nudi presenti nelle opere del pittore fiammingo dimostrando, come poi ha confermato Mark Zuckerberg40, di non distinguere tra nudo artistico e pornografia. Il riconoscimento dell’arte presuppone una valutazione che appartiene solo al mondo umano; l’algoritmo, per riprendere le parole di Mannoni, «non valuta, calcola»41. Certamente il progresso tecnologico potrà trovare una parziale soluzione, ad esempio programmando un algoritmo per distinguere la pornografia da nudi appartenenti a determinati stili artistici, riconoscibili dalla tecnica utilizzata, calcolabile; tuttavia un nudo appartenente ad un nuovo stile non conforme agli stili programmati nell’algoritmo sarebbe ugualmente oscurato; l’errore potrebbe essere nuovamente corretto inserendo i tratti del nuovo stile nella programmazione dell’algoritmo, ma il problema si potrebbe ripresentare all’infinito. Occorre inoltre considerare la genesi non macchinale dell’algoritmo: per far sì che quest’ultimo riconosca determinati stili artistici, necessita che sia programmato; i programmatori dovranno così prima compiere una valutazione in merito ai nudi da considerare artistici. La distinzione tra un nudo artistico (e non quel nudo di quel determinato stile) ed un’immagine pornografica attiene ad una valutazione non oggettivabile né calcolabile che attiene esclusivamente al mondo umano.

Nell’ipotizzare una giustizia governata da una Macchina, illuminante è certamente Octave Mannoni quando racconta, in Lettere personali del 1951, di una colonia immaginaria governata appunto da una Macchina42. Scrive Mannoni:

 

La macchina ha messo ordine […]. Mai un sistema amministrativo si era tanto avvicinato alla giustizia assoluta quanto la nostra macchina […]. La Macchina è la giustizia stessa, non si inganna mai.43

 

In questa direzione, la giustizia diviene un calcolo, l’esecuzione di un impulso programmato, poiché, come osserva Bruno Romano, «ogni giudizio macchinico-giuridico emesso dalla macchina non incontra le intenzioni delle singole persone, ma unicamente l’esteriorità dei loro gesti, oggettivabili in forme numeriche, certe, che non esigono l’attività ermeneutica del giudice»44. Analogamente a quanto accaduto con i nudi di Rubens, la Macchina-giudice non distinguerebbe tra una rapina in banca ed il furto di una mela compiuto per sopravvivere da un senzatetto. Certo, si potrebbe programmare la Macchina in modo da distinguere un reato commesso in stato di necessità dagli altri delitti, ma in questo modo si otterrebbero solo ulteriori specificazioni delle varie fattispecie e non si coglierà la particolarità del caso concreto da conciliare con la generalità delle norme. Il problema si riproporrebbe dunque nell’incapacità della Macchina di distinguere tra uno stato di bisogno ed un altro, nella loro unicità, perché sarebbe necessaria quella capacità di valutazione ed interpretazione dell’interiorità del soggetto giudicato, propria del mondo umano ed estranea agli schemi numerici degli algoritmi; in effetti, «la macchina non ha un’interiorità ed è dunque incapace di incontrare l’interiorità delle persone»45. La Macchina, come si è già detto, «non ha una genesi macchinale, ma è da ascrivere agli uomini ed alle donne che producono la macchina e che nel produrla vi iscrivono una programmata direzione di funzionamento»46. Occorre allora considerare che «la giustizia macchinale manca della dimensione della terzietà, perché, essendo costituita secondo un programma che risponde ad alcune utilità funzionali, risulta essere tale da operare sempre a vantaggio di tali utilità»47. La Macchina, non garantendo la terzietà ed indirizzando le decisioni verso ciò che è funzionale agli obiettivi programmati, non dimostra alcun interesse verso il rispetto dell’uguaglianza dei soggetti sottoposti al suo giudizio. Lo stretto legame tra giustizia ed uguaglianza può cogliersi anche nel citato frammento del Digesto; commentando Ulpiano, Massimo Brutti48 scrive infatti: «volontà costante e perpetua, attribuzione ad ogni persona dello ius suum: da queste figure concettuali emerge nettamente il nesso teorico tra giustizia ed uguaglianza»49. Nella Macchina non vi è né una volontà – vi è infatti solamente l’esecuzione di impulsi – né l’attribuzione di diritti nel rispetto dell’uguaglianza, perché essa funzionerà esclusivamente verso un’utilità programmata. Più precisamente, la Macchina non riconosce alcun diritto, perché a tal fine occorre l’adempimento di un dovere. Scrive Simone Weil: «La nozione di obbligo sovrasta quello di diritto […]. Un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo»50. La Macchina-giudice, nel momento della sentenza, non adempie ad alcun dovere, ma esegue impulsi secondo la programmazione. Essa inoltre non potrebbe motivare le sentenze, ma fornirebbe solo spiegazioni di carattere scientifico, poiché «la motivazione viene argomentata [mentre invece] la spiegazione dei fatti [ha] una presentazione scientifica»51; un automa non dà una motivazione del proprio agire, ma solo una spiegazione basata su impulsi programmati.

 

Nel descrivere che l’amministrazione della giustizia macchinale ha il carattere della certezza del calcolare – scrive infine Romano – si conclude che questa macchina giudiziaria funziona se gli uomini e le donne possono essere trattati come un materiale ‘leggibile’ da un programma, che però mai può cogliere l’intenzione delle persone, la qualità della volontà.52

 

La giustizia, intesa non come espressione funzionale di un’utilità programmata ma come «volontà costante e perpetua di attribuire a ciascuno il suo diritto», non trova concretizzazione nella dimensione calcolabile ed utilitaristica delle macchine, ma esclusivamente nella terzietà che solo l’umano può garantire con le proprie capacità di valutazione, di riflessione e di interpretazione, conciliando con equità la generalità delle norme con la particolarità dei casi concreti.

 

La giustizia – scrive Ana Messuti53 – è incalcolabile, ribelle alle norme, estranea alla simmetria, eterogenea. […] Il diritto [positivo] pretende di essere esercitato in nome della giustizia e la giustizia esige di essere istallata in un diritto vigente […]. Il diritto [positivo] necessita della giustizia per legittimarsi, la giustizia necessita del diritto [positivo] per materializzarsi”54.

 

In questa direzione Giorgio Del Vecchio55 ricorda infatti che «la particolarità delle leggi rimanda all’universalità del diritto»56.

 

 

6. Giustizia ed ermeneutica

 

La giustizia sfugge all’oggettività di una conoscenza scientifica. Necessaria è dunque l’attività ermeneutica, intesa come arte della comprensione, esclusiva del mondo umano, che impegna il giurista, «nella ricerca del giusto, insita nel desiderio da parte di tutti gli umani di essere riconosciuti titolari di diritti universali, inalienabili»57.

Scrive Giorgio Del Vecchio:

 

Conoscere le singole norme non basta se non si pon mente allo spirito che le muove […]. Giurisprudenza e filosofia non possono perciò andare disgiunte […]. Una giurisprudenza priva di elementi filosofici sarebbe, secondo il paragone che Kant desume dalla favola antica, simile ad una testa senza cervello.58

 

Del Vecchio coglie perfettamente l’importanza necessaria della riflessione filosofica e, più specificatamente, ermeneutica nel diritto. La giustizia, qui considerata secondo la definizione ulpianea, non si colloca all’interno della mera applicazione delle norme, bensì nel senso che solo l’attività di comprensione del giurista, esclusiva del mondo umano, può donare ad esse, riattivando quel flusso oggettivato dal testo legislativo. Il diritto pretende la coesistenza di due versanti: da una parte le norme che necessitano di un senso, dall’altra un senso (di giustizia) che necessita una materializzazione. Ulpiano, citando Celso, ricorda che «il diritto è l’arte del buono e dell’equo»59. Massimo Brutti ricorda che «parlare di arte come fa Celso significa riferirsi alla giurisprudenza, e precisamente alle scelte interpretative che questa compie […]. Sono quindi i giuristi a concretizzare l’ideale».60 Nel momento nel diritto si oscura l’attività ermeneutica, non vi è alcuna concretizzazione dell’ideale, ma solo l’esecuzione burocratica di una codificazione che trasforma il giurista in un burocrate, in un manager61 che ha il solo scopo di eseguire automaticamente dei comandi, senza svolgere alcuna valutazione, come farebbe una Macchina, trovandosi già orientato verso una giustizia intesa come efficienza di un funzionamento, non come «volontà costante e perpetua di attribuire a ciascuno il suo diritto». Si chiarisce allora che «l’interpretazione del diritto, propria della giurisprudenza, non svolge la funzione di una tecnica della spiegazione normativa, ma si sostanza […] come arte del comprendere l’equo e il buono, nella direzione del giusto»62. Le norme hanno una fissità stabilizzata nei testi di legge; la giustizia è invece un flusso non codificabile. «Le leggi – ricorda Romano – si danno in un senso già formato negli enunciati che le fissano; la giustizia consiste in un senso in formazione»63, la cui comprensione è propria dell’attività ermeneutica, estranea al mondo delle intelligenze artificiali. «La legge – scrive ancora la Messuti – oppone al flusso continuo la stabilità di un ordine […]. Nell’esercizio della giustizia […] il giudice opera tra l’universalità della legge e la molteplicità cangiante del destinatario della sua sentenza. […] La norma si flessibilizza quando il giudice la applica al tempo che fluisce»64. Occorre dunque chiarire che «nel momento in cui si oscura il legame tra la comunicazione e le leggi, si sviluppa una dimensione normativa che registra il dominio della forza e del funzionamento»65. L’ermeneutica è comprensione del testo tesa a superare il mero significato grammaticale, flessibilizzando la lettera, illuminando il fluire del senso «che mai può essere considerato proprietà privata di qualcuno, poiché […], nella sua immaterialità, sfugge ad ogni recinzione proprietaria ed escludente»66. L’ermeneutica giuridica è dunque comprensione della norma oltre il significato letterale, riattivando il fluire inoggettivabile della ricerca del giusto. Pertanto, come scrive Gianpaolo Bartoli, docente di Filosofia del Diritto presso La Sapienza Università di Roma, commentando Schleiermacher, «la norma resta incomprensibile, anche se correttamente formulata in termini grammaticali, qualora non riveli tracce […] di un senso esplicitabile come una forma del desiderio di giustizia”67 che non deve essere inteso come l’efficiente funzionamento legale di un ordinamento, bensì come «volontà costante e perpetua di attribuire a ciascuno il suo diritto». Gadamer ricorda infatti che «il giurista, nella sua funzione di giudice, si sente legittimato ad operare un completamento del senso originario di un testo di legge»68. L’opera del giurista «non si esaurisce nell’essere semplice recettore della testualità del legislatore»69 perché nella ricerca del giusto «il dovere del giudice non si assimila ad un’osservazione, ma ad una costante interpretazione, nella pienezza dell’ermeneusi delle leggi […], per comprendere se la giustizia è presente nella formazione della legalità»70. Il giudice-ermeneuta, a differenza della Macchina e del burocrate, non calcola, non esegue, bensì valuta, comprende ed interpreta; egli tenta di conciliare la generalità della legge con la particolarità del caso concreto, nel rispetto di entrambi i versanti, nella ricerca non di un funzionamento utilitaristico, ma della giustizia, intesa come «costante e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto».

 

 

 

Ringraziamenti

Il primo ringraziamento per la realizzazione di questo breve saggio va al mio maestro Lucio Saviani per i suoi preziosi consigli, punto di riferimento del mio percorso di ricerca, e per avermi trasmesso l’amore per la filosofia.

Ringrazio altresì Luisa Avitabile, Massimo Brutti, Franco Coppi, Nino Filastò, Massimo Luciani, Stefano Rodotà e Bruno Romano per aver contribuito ad accrescere la mia passione per il diritto.

 

 

Bibliografia:

Aa.Vv., Persona, Imputabilità, Ermeneutica, Torino, Giappichelli, 2014.

Aa.Vv., Giuristi della ‘Sapienza’. Questioni di Filosofia del Diritto, Torino, Giappichelli, 2015.

Luisa Avitabile, Cammini di Filosofia del Diritto, Torino, Giappichelli, 2012.

Gianpaolo Bartoli, Diritto ed Ermeneutica in Schleiermacher, Torino, Giappichelli, 2012.

Massimo Brutti, Il diritto privato nell’antica Roma, Torino, Giappichelli, 2011.

Sergio Cotta, Prospettive di Filosofia del Diritto, Torino, Giappichelli, 2014.

Giorgio Del Vecchio, Sui principi generali del diritto, Milano, Giuffrè, 2002.

Michel Foucault, Bisogna difendere la società, Milano, Feltrinelli, 2010.

Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani, 2012.

Octave Mannoni, Lettere personali, Milano, Spirali, 2006.

Ana Messuti, La justicia reconstruida, Barcellona, Edicions Bellaterra, 2008.

Immanuel Kant, Lezioni di etica, Roma-Bari, Laterza, 2004.

Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Editori Laterza, 2014.

Bruno Romano, Due studi su forma e purezza del diritto, Torino, Giappichelli, 2008.

Id., Il dovere nel diritto, Torino, Giappichelli, 2014.

Id., Principi generali del diritto, Torino, Giappichelli, 2015.

Id., Orientarsi nel pensiero – Kant – e nelle norme – Gadamer –, Torino, Giappichelli, 2016.

Simone Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, Milano, SE, 1990.

Ead., La persona e il sacro, Milano, Adelphi, 2012.

 


Note con rimando automatico al testo

1 Il frammento è tratto dall’atto di appello – pagina 4 – con il quale la difesa di Sabrina Misseri ha impugnato la sentenza n. 1/2013 R.G. Sent. Ass. pronunciata dalla Corte di Assise di Taranto, Prima Sezione.

2 L’intervista è visibile a questo indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=4ZucVBLjA9Q.

3 Il frammento citato può essere ascoltato a questo indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=f_WZ_KMOHoA.

4 Corte di Cassazione, sezione V penale, sentenza n. 4863/2017.

6 Nell’aprile del 2018 un utente di Facebook scrisse, riferendosi a Piersanti Mattarella, assassinato da Cosa Nostra nel 1980, «hanno ucciso il fratello sbagliato».

7  Si veda il link citato più sopra.

8 Corte di Cassazione, Sezione Civile, sentenza n. 50/2017.

9 I. Kant, Lezioni di etica, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 123.

10 Ibidem.

11 S.Weil, La persona e il sacro, Milano, Adelphi, 2012, p. 11.

12 Informazioni in merito sono disponibili a questo indirizzo: https://it.wikipedia.org/wiki/Kwangmyong

13 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza, 2014, p. 379.

15 M. Foucault, Bisogna difendere la società, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 29.

16 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., p. 380.

17 S. Cotta, Prospettive di Filosofia del Diritto, Torino, Giappichelli, 2014, pag. 12. Giurista e filosofo, Sergio Cotta (1920-2007) è stato titolare della cattedra di Filosofia del Diritto presso La Sapienza Università di Roma dal 1966 al 1990.

18 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza, 2014, pp. 314-345.

19 O. Mannoni, Lettere personali, Milano, Spirali, 2006, p. 29.

20 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., pp. 298-326.

21 Ivi.

22 Ivi.

23 Ivi.

24 B. Romano, Il dovere nel diritto, Torino, Giappichelli, 2014, p. 227.

25 Sommarie informazioni in materia di roboetica sono visibili al link: https://it.wikipedia.org/wiki/Roboetica

26 La questione è stata discussa dal prof. Gianfranco Basti, docente di Filosofia della Scienza alla Pontificia Università Lateranense, in occasione del seminario “Diritto e potere degli algoritmi” tenutosi presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università La Sapienza il 24 maggio 2018.

27 L’articolo citato è disponibile integralmente al link: https://www.ilpost.it/2017/04/12/intelligenza-artificiale-etica/#steps_1.

28 B. Romano, Il dovere nel diritto, cit., p. 26.

29 Aa.Vv., Giuristi della ‘Sapienza’. Questioni di Filosofia del Diritto, Torino, Giappichelli, 2015, p. 130. Fabrizio Ramacci, docente ordinario di Diritto Penale dal 1972, è autore di uno dei manuali più utilizzati.

30 O. Mannoni, Lettere personali, cit., p. 29.

31 Aa.Vv., Giuristi della ‘Sapienza’. Questioni di Filosofia del Diritto, cit., p. 3.

32 B. Romano, Il dovere nel diritto, cit., p. 233.

33 B. Romano, Principi generali del diritto, Torino, Giappichelli, 2015, p. 124.

34 B. Romano, Il dovere nel diritto, cit., p. 231.

35 Ibidem.

36 I. Kant, La metafisica dei costumi, trad. it. di G. Vidari, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 26.

37 B. Romano, Il dovere nel diritto, cit., p. 233.

38 Ibidem.

39 Queste innovazioni sono state illustrate nel corso del seminario “Diritto e potere degli algoritmi” tenutosi presso la Facoltà di Giurisprudenza de La Sapienza Università di Roma il 24 maggio 2018.

40 Informatico ed imprenditore statunitense, è A.D. di Facebook, di cui è anche fondatore.

41 O. Mannoni, Lettere personali, cit., p. 29.

42 La Macchina di Mannoni è stata trattata da Bruno Romano ne Il dovere nel diritto,cit.

43 O. Mannoni, Lettere personali, cit., p. 29.

44 B. Romano, Il dovere nel diritto, cit., p. 226.

45 Ibidem.

46  Ivi, p. 231.

47 Ibidem.

48 Docente di Diritto Romano e Diritto Civile presso La Sapienza Università di Roma.

49 Aa.Vv., Giuristi della ‘Sapienza’. Questioni di Filosofia del Diritto, Torino, Giappichelli, 2015, p. 131.

50 S. Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, Milano, SE, 1990, p. 13; la questione è stata trattata in B. Romano,Il dovere nel diritto, cit.

51 B. Romano, Principi generali del diritto, cit., p. 124.

52 B. Romano, Il dovere nel diritto, cit., p. 231.

53 Studiosa di Filosofia del Diritto, ha insegnato presso la Universidad de Buenos Aires ed ha svolto attività di docenza in varie università europee.

54 A. Messuti, La justicia deconstruida, Barcellona, Edicions Bellaterra, 2008, p. 250, traduzione mia.

55 Studioso di Filosofia del Diritto, professore dal 1920 al 1953 presso La Sapienza Università di Roma, di cui è stato anche rettore dal 1925 al 1927.

56 G. Del Vecchio, Sui principi generali del diritto, Milano, Giuffrè, 2002, p. 66.

57 Aa.Vv., Giuristi della ‘Sapienza’. Questioni di Filosofia del Diritto, cit., p. XIII; il frammento è tratto dalla Presentazione scritta da Luisa Avitabile, docente di Filosofia del Diritto presso La Sapienza Università di Roma.

58 G. Del Vecchio, Sui principi generali del diritto, cit., p. 66.

59 Digesto, 1,1,1 pr.

60 Aa.Vv., Giuristi della ‘Sapienza’. Questioni di Filosofia del Diritto, cit., p. 130.

61 La questione, in questi termini, è stata discussa da Luisa Avitabile in “La burocratizzazione dell’ermeneutica giuridica”, contenuto in Giuristi della ‘Sapienza’. Questioni di Filosofia del Diritto, cit., pp. IX-XLI.

62 G. Bartoli, Diritto ed Ermeneutica in Schleiermacher, Torino, Giappichelli, 2012, p. 216.

63 B. Romano, Due studi su forma e purezza del diritto, Torino, Giappichelli, 2008, p. 20.

64 A. Messuti, La justicia deconstruida, cit., p. 252, traduzione mia.

65 L. Avitabile, Cammini di Filosofia del Diritto, Torino, Giappichelli, 2012, p. 24.

66 B. Romano, Orientarsi nel pensiero – Kant – e nelle norme – Gadamer –, Torino, Giappichelli, 2016, p. 88.

67 G. Bartoli, Diritto ed Ermeneutica in Schleiermacher, Torino, Giappichelli, 2012, p. 225.

68 H.-G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani, 2012, p. 681.

69 Aa.Vv., Persona, Imputabilità, Ermeneutica, Torino, Giappichelli, 2014, p. 23.

70 Ibidem.