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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
Gabriella Baptist,
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e Andrea Bonavoglia.
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La guerra secondo Francisco Goya
di A. Bonavoglia
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Verità. Unione fra realismo e costruttivismo

[Il testo "La verità" di Vito J. Ceravolo contiene alcuni caratteri speciali e alcune formattazioni non sempre decifrate dai browser di Internet. Per questo motivo mettiamo a disposizione anche la sua versione in PDF.] 

 

 

1. Introduzione alla verità 

Rivisitiamo la verità in una riformulazione assieme realistica, per adaequatio rei et intellectus, e costruttivista, per coerenza a sé dell’interpretazione. Più semplicemente diciamo che la verità dei nostri concetti, per essere tale, esige due adeguatezze chiamate “coerenza”:

  • Adeguatezza materiale dei concetti, per cui la descrizione del soggetto è coerente all’accadere dell’oggetto che descrive, non contraddittoria con esso (adaequatio rei et intellectus);

  • Adeguatezza formale dei concetti, per cui la descrizione del soggetto è coerente con se stessa, non contraddittoria con sé (coerenza a sé dell’interpretazione).

In questo senso escludiamo dalle cose vere tutte quelle descrizioni che, per quanto siano in grado di non contraddire l’oggetto che descrivono, però si contraddicono concettualmente con se stesse. Inversamente escludiamo dalle cose vere tutte quelle descrizioni che, per quanto siano in grado di essere coerenti con se stesse, però si contraddicono con l’oggetto che descrivono.

Questi errori di verità si risolvono con un cambio di prospettiva, un aggiustamento linguistico o con un ampliamento dello schema concettuale. E qui la recherche de la vérité si fa chiaramente più difficile, perché richiede di rispondere a una coerenza “fisico-concettuale” che diventa fatto essenziale alla verità stessa, qualcosa a cui non ci si può esimere previa rinuncia di stabilità delle proposizioni, laddove per incoerenza è possibile dire qualunque cosa. Mentre la coerenza della descrizione a se stessa e all’oggetto descritto diviene la guida alla verità.

Tale coerenza ci porta a osservare la verità sia dal suo lato di “verità concettuale” che da quello di “verità fisica”. Iniziamo col conoscere la “verità concettuale” attraverso il celebre paradosso del mentitore di Epimenide.

 

2. Verità concettuale

Il cretese Epimenide afferma che i cretesi sono bugiardi.

La frase è formalmente in contraddizione con se stessa, perché se il cretese Epimenide dice il vero, allora i cretesi sono bugiardi e lui non sta dicendo il vero, mentre se il cretese Epimenide dice il falso allora i cretesi sono sinceri ma lui sta dicendo il falso. La frase è anche materialmente in contraddizione con l’oggetto che descrive, sia se fosse vero che i cretesi mentono, perché ce ne sarebbe uno che non sta mentendo, sia se fosse falso che i cretesi mentono, perché ce ne sarebbe uno che sta mentendo.

In questo senso la frase non ha un riferimento reale, in quanto mancante dell’oggetto che descrive, e non ha neanche un riferimento possibile, in quanto incoerente con se stessa. Similmente, per un verso, alla frase “il cretese Epimenide afferma che il rotondo è quadrato”: se il rotondo (cretese) è quadrato (mente), allora non è vero che è rotondo, quindi non è quadrato (non è vero che mente); parimenti se il quadrato è rotondo (dice il vero… allora non dice il vero). Qualcosa d’insensato per la mancanza di un riferimento reale-possibile:

Epimenide non può essere allo stesso tempo Bugiardo e ¬Bugiardo. Benché, fuori dal paradosso del mentitore, possa esserlo in tempi t diversi in cui si trasforma da E=B in t1 ad E=¬B in t2. Benché, sempre fuori dal medesimo paradosso, possa essere una via di mezzo fra B e ¬B, per esempio E=1/2diB e pertanto stare, per logica fuzzy, in uno stato fisico che non è né B¬B, una sorta di confine fra gli stati (come quando si dice qualcosa che non è del tutto una bugia né del tutto una non bugia). Stacchiamoci anche dal metalinguaggio di Tarski, da un “diverso linguaggio di osservazione”, e osserviamo con lo stesso linguaggio ma da punti di vista differenti:

  • Un punto di vista più ampio e generale da cui siamo noi a domandarci sulla frase, chiedendoci se ha o non ha un valore di verità. Nel nostro caso, come vedremo, la frase “il cretese Epimenide afferma che i cretesi sono bugiardi” non ha un valore di verità;

  • Un punto di vista più ristretto e particolare da cui noi rispondiamo alla frase affermandola come vera o falsa. Nel nostro caso “è vero, detto da un cretese, che i cretesi sono bugiardi?” la frase non può essere predicata né come vera né come falsa, né come una via di mezzo né sotto diversi rapporti, poiché priva di un valore di verità, poiché da ovunque la si guardi, essa – la frase – è la stessa circolarmente contraddittoria con sé all’infinito. Qualcosa che è simpatico ribattezzare “l’illogicità del mentitore”.

In sostanza, il criterio di verità concettuale non ci sta dicendo se la frase di Epimenide è vera o falsa, oppure se il quadrato-rotondo è quadrato o rotondo. Ci dice invece che “non ha valore di verità” dire che qualcosa possa realmente affermarsi come negazione di sé – α afferma di essere ¬α – o realmente negare di essere l’affermazione di sé – α nega di essere α –. Certo: non lo può realmente fare ma lo può dire, perché a parole si può dire di tutto, anche α≠α. Mentre realmente, in autoriflessivo, si può solo negare di non essere ciò che si è oppure affermarsi.

In pratica, il criterio di verità concettuale – sulle linee del «principio di identità» α=α – ci apre all’impossibilità dell’autoconfutazione del concetto che, in quanto inconfutabile da sé (per l’impossibilità di affermarsi come propria negazione o negare ciò che si è), è preludio di una verità indistruttibile. Formalizziamo:

  • Se, affermandosi o negandosi, un concetto α coerente con sé predica () un linguaggio L allora quest’ultimo ha un valore di verità che può essere vero 1 o falso 0. Si scrive L(α=α ¬αα) → L = 1 0 e si dice “valore di verità”;

  • Se, affermandosi e negandosi, un concetto α che si contraddice da sé ≠α predica un linguaggio L allora quest’ultimo non ha un valore di verità, non è né vero 1 né falso 0. Si scrive L(αα ¬α≠¬α) → L ≠ 1 0 e si dice “non-valore di verità”.

In sintesi, per il criterio di “verità concettuale”, l’identità del concetto, cioè la sua non autoconfutazione, conferisce un valore di verità (vero o falso o un po’ vero e un po’ falso) alla frase data da tal concetto. Senza identità del concetto, né in positivo né in negativo, invece, alcun valore di verità (né vero né falso né un po’ vero né un po’ falso).

 

3. Verità fisica

A questo punto torniamo al nostro adagio, e postuliamo che le verità che affermiamo sul mondo devono rispondere a una coerenza bina: formale-materiale (fisico-concettuale). Ed è di tale natura la verità che,così la si definisce: è vero solo e solamente quel concetto che coincide con la realtà della cosa descritta e non si contraddice da sé.

La prima implicazione della verità, in quanto esplicitata nella sua stessa definizione, è quella realtà per la quale quel concetto può dirsi vero o non vero in merito all’oggetto descritto. La seconda implicazione della verità, in quanto implicita nella sua stessa definizione, è la realtà del soggetto concettualizzante e dell’oggetto concettualizzato. Più sinteticamente: è la realtà dell’oggetto a garantire la verità della descrizione del soggetto.

Infatti, se non esistesse una realtà a cui riferire la descrizione del soggetto, ogni descrizione sarebbe irreale, quindi ognuna vera indistintamente, sino al punto in cui la verità contraddirebbe la verità, quindi nessuna verità, nessuna realtà; neanche la realtà di un sogno, di un setoso velo di Maya o di un tangibile e concreto reale. Perché qualunque cosa accade non si può dire che essa non accade, e se accade allora accade secondo la realtà per cui è tale, secondo le ragioni per cui è tale. Così, se noi sappiamo che qualcosa accade, e non c’è dubbio che qualcosa accade, allora sappiamo che ha una realtà per cui accadere, una verità. A ritroso: la verità implica la realtà per cui è tale e ogni tentata descrizione del mondo o di una sua parte è un’implicita affermazione di “ti sto raccontando la realtà delle cose” o qualcosa che presumo essere la descrizione più prossima alla realtà o, ancora, con le parole di Popper1, qualcosa che, per mezzo di un comune sforzo, può avvicinarci alla verità. E dalla verità la realtà per cui quella verità è tale, o l’irrealtà per cui non è. Tale che: verità salva realtà.

In termini linguistici diciamo che se il “vero” predica ciò che è reale, allora – rompendo il diallele2 degli scettici antichi – la realtà comprende tutto ciò che può essere detto “vero”. Ed ecco allora che l’aletheia passa necessariamente per la res dove, esattamente, il “valore di realtà” comprende tutto ciò che è accaduto, accade e ha la possibilità di accadere. Linguisticamente diciamo:

  • Se il linguaggio L ha un valore di realtà allora ciò che predica α accade nel mondo ω. Si scrive αω e si dice “realtà”;

  • Se il linguaggio L non ha un valore di realtà allora ciò che predica α non accade nel mondo ω. Si scrive αω e si dice “irrealtà”.

Attribuiamo ora il “valore di verità” al “valore di realtà” e diciamo: è vero ciò che accade nel mondo psicofisico (verità fisico-concettuale) ed è falso ciò che accade solo nel mondo immaginifico (es. sogno3). Formalizziamo:

  • Se il linguaggio L predica qualcosa di vero 1 allora ciò che predica α accade nel mondo psicofisico ω1. Si scrive L = 1 → αω1e si dice “reale”;

  • Se il linguaggio L predica qualcosa di falso 0 allora ciò che predica α accade solo nel mondo immaginario della mente ω0. Si scrive L = 0 → αω0 e si dice “immaginario”.

In sintesi, per il criterio di “verità fisica”, l'accadere dell’oggetto conferisce un valore di realtà all’oggetto stesso, il quale può essere vero-reale (realtà reale) o falso-immaginario (realtà immaginaria). Senza l’accadere dell’oggetto, invece, alcun valore di realtà, l’irrealtà.

Si rileva oltremodo che è attraverso l’accadere psicofisico della realtà che si può riconoscere la sua natura, in sincronia col vivere: per dimostrare che una cosa è irreale devo dimostrare che non è accaduta, non accade e non può accadere, viceversa per dimostrare che è reale.

Se poi si vuole percorrere la via della non-realtà tout court, allora si vedrà subito che questa è impercorribile, in quanto qualunque descrizione o più avanzata teoria, è implicitamente dichiarante la descrizione di una verità, o presunta tale, anche quando dice “la verità non esiste” per la cui frase, appunto, si afferma una verità per giunta assoluta: nulla può essere asserito senza la presunzione di affermare una possibile realtà e sua collegata verità4. E se ogni frase implica la realtà affermata e sua collegata verità, allora, come Aristotele, affermare “la neve è bianca” è lo stesso che affermare “è vero che la neve è bianca”, con la differenza che nel secondo caso (è vero che la neve è bianca) si aggiunge una testimonianza esplicita di verità, cioè si aggiunge alla frase l’affermazione che la stessa risponde a delle regole per cui dirsi vera/reale. Cosicché nel primo caso, quello senza testimonianza di verità (la neve è bianca), si ha ancora la possibilità di falsificare la frase da parte di un soggetto responsabile che possa dar senso alla nozione di verità. Ne segue che quando affermo esplicitamente che qualcosa è reale, per l’impossibilità dell'autoconfutazione sto implicitamente negando che accada in altra maniera5: è realmente cosi! amen6. Talché: ogni affermazione esplicita di “realtà” o “verità” esclude da ciò che viene detto la possibilità di essere diverso da come detto7.

Un qualsiasi altro uso di queste parole “realtà, reale, realmente” è – riutilizzando Austin – se non scorretto, quantomeno idiosincrasico.

 

4. Veritas lucens et redarguens

Possiamo ora dire che questo è il punto comune da cui ogni buona filosofia del vero dovrebbe partire: vero è ciò che si esprime descrivendo la realtà di qualcosa o la sua irrealtà descrivendola irreale. E questo appunto perché l’astratto, cioè la descrizione del vero, trova la conseguenza della sua verità solo nel concreto, cioè nel descritto reale, tale che, in senso naturale, è vera la descrizione-astratta realizzata nel descritto-concreto. E se la “descrizione astratta” è un atto esclusivo del soggetto cosciente, allora è solo al sopraggiunger di quest’ultimo che si ha la verità:

  • Ciò che si descrive è l’oggetto, ma da parte del soggetto;

  • La verità è del soggetto, ma in merito all’oggetto.

Si dice pertanto che l’esistenza dell’oggetto è necessaria alla descrizione del soggetto e il soggetto alla descrizione dell’oggetto. E senza uno dei due, oggetto o soggetto, alcuna descrizione! Detto in termini solenni: la verità è una luce gettata dal soggetto sull’oggetto per illuminarne la realtà: veritas lucens. L’oggetto gliela riflette indietro redarguendolo lì dove non adeguatagli: veritas redarguens8.

Abbiamo cioè il soggetto illuminante e l’oggetto illuminato, dove il soggetto è ciò che dice (veritas lucens) mentre l’oggetto è ciò che gli risponde (veritas redarguens). Ne segue che, per quanto sia il soggetto a parlare dell’oggetto, è l’oggetto a essere ciò che è necessario al dire del soggetto, laddove ogni cosa detta riguarda l’oggetto detto. L’implicazione è che è solo il ritorno dal mondo della veritas redarguens a rendere conto di quanto avviene nel mondo stesso, mentre una veritas lucens senza ritorno dal mondo sarebbe vuota d’ogni realtà, priva di cose da illuminare.

Ciò ci permette di rivisitare la semantica di Tarsky in modo che non sia suscettibile di obiezioni9: l’enunciato “P” è vero se e solo se P accade nel psicofisico. “Psico” come soggetto esprimente la verità e “fisico” come oggetto a cui si riferisce la verità.

In questo senso, per ogni verità si ha una compartecipazione di almeno due elementi: l’oggetto e il soggetto. E così come è facile affermare il soggetto per l’impossibilità di negare se stessi (α non può realmente negare di essere α), così è altrettanto facile riconoscere che qualunque cosa descritta (sogno, velo di maya, mondo fenomenico, ragione in sé ecc.) è l’oggetto della descrizione, così che la verità della descrizione è la realtà dell’oggetto (o la sua irrealtà se descritto come irreale). Diciamo: in vero, l’oggetto è l’inemendabile luogo in cui può esercitarsi la descrizione del soggetto.

 

5. Verità oggettiva e soggettiva

Abbiamo detto di una compartecipazione alla verità fra oggetto-soggetto, non uno separato dall’altro ma solo assieme si ha la verità. Si dice:

  • Se l’oggetto non fosse, la verità soggettiva oggettivamente non sarebbe;

  • Se il soggetto non fosse, alcuna descrizione di verità.

Ciò comporta che è vero che «c’è [descrizione di] verità solo perché e fintanto che l’Esserci è»10, ma ciò non esclude che un oggetto possa esistere in un dato spazio-tempo anche senza alcuna descrizione della sua verità da parte di un relativo osservatore cosciente; esistendo, magari, anche solo per la sua semplice ragione meccanica in interazione con altri “esserci” non coscienti. Per questo linguisticamente si può dire che: l’affermazione “è vero x” si riferisce a quell’accadere “x” il quale può accadere anche senza un “relativo osservatore cosciente” che, disvelandolo alla propria coscienza (x = la neve è bianca), ne afferma la verità (è vero che la neve è bianca)11. Ed è per tale “affermare” che, nonostante i vari tentativi di distruggere e superare la verità, essa perdura indistruttibile come modo concettuale sine que no per saldarsi alla realtà di ciò che accade.

Il fatto che si parli di verità in termini di compartecipazione fra oggetto-soggetto, ci fa fare un salto nel mondo della scienza e del senso comune, i quali non solo esprimono ciò che esprimono nell’idea positiva di descrivere una realtà (o negativa di ingannare in merito a una data realtà), ma sovente parlano anche di verità valide oggettivamente per tutti e altre valide soggettivamente per alcuni! E se ne parlano è anche perché, consciamente o inconsciamente, cercano di rispondere alla struttura delle cose, a quella compartecipazione alla verità fra oggetto e soggetto:

  • La verità oggettiva (dell’oggetto) è sostanziale alla realtà in sé dell’oggetto descritto. In questo caso la descrizione è in grado di riflettere la ragione in sé delle cose tramite le differenze linguistiche di chi la esprime;

  • La verità soggettiva (del soggetto) è accidentale alla realtà fenomenica del soggetto descrivente. In questo caso la descrizione è in grado di riflettere il sensibile fenomeno delle cose tramite le differenze percettive di chi la esprime.

Avere verità oggettive valide per tutti significa avere unione, all’opposto, avere verità soggettive valide per alcuni significa avere individualità; senza la possibilità che queste verità possano contraddirsi fra loro, appunto per non falsificarsi vicendevolmente: «la verità non contraddice la verità»12.

Oggettivo e soggettivo devono quindi conciliarsi nella loro partecipazione alla verità che diviene pertanto la coerenza d’unione di tutte le creature. Cioè una verità dell’unità a cui risponde la verità dell’individuo. Tale che: la verità partecipa nell’unità a sé e alla cosa descritta.

In termini filosofici si dice che la verità è un realismo compartecipato dal soggetto, un real-costrutto. Dove, per “compartecipazione” si deve accettare che ognuno, oggetto e soggetto, partecipa alla costruzione della verità, cioè della realtà, entro quei limiti in cui la verità non si contraddice per non essere falsa. Si parla in tal senso di una relazione di complicazione reciproca, un’esperienza che modifica colui che la fa, sia esso l’oggetto esperito o il soggetto esperente. Il qual fatto, come detto, determina la soggiogazione dell’oggetto e del soggetto alla loro unità d’insieme, alla loro comune esperienza, che è appunto il limite entro cui oggetto e soggetto partecipano; o come Heidegger: «il medesimo mondo di appartenenza».

 

6. Verità dell’unione

Il mondo di appartenenza nel quale si uniscono oggetto-soggetto assume un ruolo fondamentale per definire il valore di verità, mentre in questa compartecipazione soggetto e oggetto assumono il ruolo di poli variabili (o uno o l’altro soggetto od oggetto) attraverso cui la verità può darsi. L’estrema conseguenza di ciò è il decadimento dell’uomo quale osservatore privilegiato rispetto agli altri esseri, il decadimento della sua abbagliante illusione d’esser «[l’unica] misura di tutte le cose»13 e fondamento d’ogni vero! Dal cui decadimento, il sorgere della propria remissione al mondo di appartenenza. Ben considerando che qualsivoglia compartecipazione non cancella l’individualità delle parti partecipanti, ma anzi la implica per la possibilità stessa della compartecipazione, così mantenendo quella loro verità individuale nel complesso della verità dell’unione, un’“union d’essere”, cioè, in cui ogni cosa coincide con ogni altra nell’ordine dell’essere e si differenzia da ogni altra per quello che l’altra è e che essa non è14.

Ciò ci impedisce di fare, come Platone, una «comunione dei generi»15, o delle idee, dove si annichilisce la verità delle parti, o dei fenomeni, sino a decretarne il carattere illusorio ma da salvare!16 Anche semplicemente perché, se un’uguaglianza ci permette di cancellare le differenze, allora, in egual misura, una differenza ci permette di cancellare delle uguaglianze; il che rende il discorso assai controverso: con quale diritto si dà verità al genere e non al particolare o viceversa, se ogni genere ha la sua particolarità e ogni particolare è di un genere? Per riflesso non possiamo neppure salvare la cosa in sé, come chiedeva Kant17. No, non arriviamo a tanto. Meglio non avere nulla da salvare perché tutto è già salvato: in sé e fenomeno. E a tal fine continuiamo il nostro discorso.

Possiamo così dire che ogni essere “è” e nel contempo “non è ciò che esso non è”. E quivi non c’è possibilità d’inversione: ogni negazione è presupposta sempre dall’affermazione, non potendosi negare nulla che non sia stato prima presupposto e, conseguentemente, non potendosi intendere l’esistenza del falso senza prima necessariamente intendere l’esistenza del vero: la verità è ciò da cui può darsi la sua negativa falsità. Ed è in questa primalità genealogica del vero sul falso che il mondo rivela la “meravigliosa gioia” del suo senso originario, cancellando ogni terribile dolore nietzschiano sul nonsense delle cose: il senso del mondo sta nella verità che dobbiamo alla realtà. In altri termini: la realtà è il senso del rapporto inscindibile e inesauribile tra l’umano e la verità. Cosicché noi, «valutate le ragioni di tutti senza inchinarci all’autorità di nessuno, non riconosceremo altro principio in filosofia se non la verità»18, in deriva dal famoso proverbio – rivisitato – Amicus Plato, Amicus Kant, magis amica veritas.

Ma torniamo a noi e sintetizziamo quanto fin qui detto, agganciando la forma fenomenologica “tesi, antitesi, sintesi” di Hegel con “essere, appartenere, unione”.

Tesi dell’essere:

  • L’unità è il principio di conoscenza;

  • La verità è la possibilità di conoscenza;

  • La realtà è la necessità di conoscenza.

Antitesi dell’appartenere:

  • La realtà è dell’oggetto;

  • La verità è del soggetto;

  • L’unità è di ogni cosa.

Sintesi dell’unione:

  • L’unità di ogni cosa è il principio di conoscenza;

  • La verità del soggetto è la possibilità di conoscenza;

  • La realtà dell’oggetto è la necessità di conoscenza.

 

7. Verità di ragione e sensibile

Vediamo dunque la loro naturale riconciliazione, dell’oggetto e del soggetto, rielaborando le linee di Kant.

Dalle verità oggettive seguono le verità di ragione uguali per tutti. Dalle verità soggettive seguono le verità sensibili uguali non per tutti:

  • Le verità di ragione si riferiscono a ciò che è proprio dell’essere preso per sé – in cui il predicato è compreso nell’oggetto, un predicato cioè che effettivamente non aggiunge niente al valore dell’oggetto, perché ne è solo l’analisi. Da cui si danno i giudizi analitici, che diminuiscono l’unità dell’oggetto nei suoi predicati, quindi, aumentano la conoscenza dell’oggetto tramite la conoscenza dei suoi valori. Per le quali verità di ragione si danno i giudizi di verità (vero o falso);

  • Le verità sensibili si riferiscono a ciò che è dato dall’interazione fra gli esseri – in cui il predicato è aggiunto sull’oggetto, un predicato cioè che aggiunge al valore dell’oggetto un valore che lo trascende, perché ne è la sintesi con altro. Da cui si danno i giudizi sintetici, che espandono l’unità dell’oggetto con altri predicati, quindi, aumentano la conoscenza dell’oggetto tramite la conoscenza della sua sintesi con altro. Per le quali verità sensibili si danno i giudizi di valore (p.es. utile/inutile, bello/brutto ecc.).

Da ciò si evidenzia la differenza specifica fra verità sensibili e di ragione: le prime mutevoli in misura dell’osservatore e osservato; le seconde immobili19 per ogni osservatore e osservato. Senza escludere con questo un rapporto fra le stesse, cioè la possibilità di porre sotto ragione il sensibile o da una ragione sensibilizzare qualcosa che la trascende; così riuscendo a passare dal “perché” della ragione al “come” del sensibile e viceversa. Senza neanche escludere, da ciò, quello statuto di verità di cui entrambe godono, sebbene in misura diversa:

  • Essendo la verità sensibile mutevole, diremmo, per esempio, che è vero che x piace a y in un dato contesto, ma non che x piace ad ogni y;

  • Essendo la verità di ragione immobile, diremmo, per esempio, che è vero che per ogni x, y esiste un insieme z che li accumuna.

Repetita iuvant: le verità sensibili si vestono di relatio; le verità di ragione si spogliano ad absolutum. La deriva è una natura retta da leggi immobili (absolutum) su cui si esercitano leggi in fieri (relatio); così che né la determinazione dell’absolutum né la possibilità del relatio possano escludersi l’un l’altra, bensì reciprocamente coesistenti nell’ordine vitale dell’essere: il relatio come dionisiaca consecuzione dell’absolutum e l’absolutm come apollinea origine del relatio; così che ogni “vivere” sia un habitus cucito da una commistione di vincoli e licenze, un “vivere” posto tra l’adesione a certe regole (absolutum) e la libera ispirazione (relatio)20.

Oltremodo, la sopra rivisitazione dei giudizi analitici e sintetici di Kant, ci parla di un possibile accesso alla verità sia tramite ragione che tramite sensibile, talché, in ultimo, la verità delle cose si può raggiungere per buona intelligenza o per umiltà di cuore. Appunto per la compartecipazione del cuore (oggetto) e dell’intelletto (soggetto) alla verità. Con questa differenza: chi si unisce alla verità tramite amore (sensazione) non necessariamente è in grado di descriverla nei suoi meccanismi, benché possa essere in grado di rappresentarla. Chi si connette alla verità tramite intelligenza (razionalità) è necessariamente in grado di comunicarne i meccanismi.

 

8. Verità in sé e fenomenica

L’ultima verità che tratto in questi brevi logoi è la differenza fra verità fenomenica e verità in sé:

  • Il fenomeno è la verità sensibile, accessibile all’osservazione. È la conseguenza e “prole” della ragione in sé;

  • La ragione in sé è la verità sovrasensibile, non accessibile all’osservazione, solo intellegibile pura ragione in sé. È il motivo e “genitore” del fenomeno.

Da questo schema possiamo riconoscere i “fenomeni” come l’insieme di tutte le qualità e quantità esclusivamente percepibili, mentre gli “in sé” sono l’insieme di tutte le ragioni esclusivamente intellegibili e di cui ogni qualità e quantità si fregia. E di più: il fenomeno, in quanto frutto della relazione, richiama anzitutto a ciò che viene osservato-percepito, cioè al “per noi” (pros hemas, quoad nos); mentre la ragione in sé richiama anzitutto a ciò per cui il fenomeno si dà, cioè al “per propria natura” (kata physin, in se). Dalla cui differenza possiamo trarre due diversi ambiti di studio:

La “verità fenomenica” è da intendersi come il dominio della scienza, la quale appunto si basa sull’osservazione dei fenomeni; mentre la “verità in sé” è da intendersi come il dominio della filosofia, la quale invece opera anche separatamente dalle osservazioni sensibili. Con ciò però non si nega una possibile contaminazione fra le stesse, anche perché poi, a dire il vero, la filosofia è una scienza, esattamente è l’origine delle scienze umane, solo che come ogni origine, il principio si differenzia dai secondi. In questo caso la differenza sta in una scienza qualitativa per la filosofia e in una scienza quantitativa per le sue opposte scienze dure (es. fisica, biologia etc.). Ma torniamo a noi.

In sostanza tale schema fenomeno-in sé ci permette di dire che a essere oggetto di indagine non è solo ciò che è fisicamente osservabile (verità fenomenica) ma anche ciò che è astrattamente computabile21 (verità in sé). E mentre il fenomeno è il limite della nostra conoscenza sensibile, la ragione è il limite della nostra conoscenza razionale. E se da un lato non possiamo vedere oltre il sensibile, dall’altro non posiamo razionalizzare oltre la ragione. Così che non esista cosa che possa percepirsi fuori dagli apparati del sensibile – materia universalis – o cosa che possa affermarsi fuori dai predicati dell’intelletto – ratio universalis –. Si dice:

  • La “percezione” della materia è l’atto sensibile e primordiale di presa della realtà (sulla terra responsum della realtà);

  • L’“affermazione” della ratio è l’atto intellettuale e finale di presa della realtà (sul cielo veritas della realtà).

Senza dimenticarci di distinguere la ragione in sé dalla razionalità, dicendo che la prima è l’elemento fondante sia dell’oggetto che del soggetto razionalizzante, la seconda è il mezzo per cui ci è dato, tra l’altro, conoscere astrattamente la ragione a costituzione in sé delle cose:

  • L’in sé è la ratio efficiens;

  • La razionalità è la ratio conoscendi.

Da cui, inseguendo un’immagine di Sini: «[la ragione in sé è quel] luogo a partire dal quale, tenendo in mano da una parte la cosa [oggetto] e dall’altra la mente [soggetto], potremo decidere se la seconda corrisponde alla prima o meno»22. Cioè la ragione in sé a fondamento d’ogni cosa è il luogo e medio di contatto fra razionalità conoscente e oggetto conosciuto. Un intellegibile23 a fondamento delle cose sensibili dove la verità si lascia scoprire rendendosi disponibile idea.

Abbiamo così da un lato questo in sé accessibile solo intellettualmente, dall’altro invece quell’evento sensibile che ci viene incontro e verso cui noi andiamo tramite la nostra fisicità percipiente. E quivi è il rapporto fenomenico a farsi vettore in sé delle ragioni per cui è tale, lasciando a noi il compito di sistemare in maniera coerente la nostra esperienza, nella consapevolezza che solo la verità può dare adeguatezza all’esistenza umana. Esattamente:

Al fine di una migliore pratica della vita e della felicità, sistemare i concetti che ricaviamo dalle cose in modo che siano coerenti con se stessi (coerenza a sé dell’interpretazione) e con le cose che descrivono (adaequatio rei et intellectus). La verità.

 

9. Conclusione

Con questo rapporto in sé-fenomeno siamo entrati ufficialmente in un nuovo paradigma che va oltre il solo concetto di verità qui in esame. Non posso far altro che chiedervi la pazienza di rimandarvi, per ora, al mio libro Mondo. Strutture portanti (Editore Il Prato, collana Cento Talleri, dicembre 2016); luogo in cui più esaustivamente si tratta di questo paradigma e da cui, peraltro, sono stati estrapolati alcuni passaggi “portanti” di questo breve saggio.

  

 

Bibliografia di riferimento

P. Amoroso e G. De Fazio, Tema su variazioni. Appunti per una filosofia del qualcosa, in «Kaiak. A Philosophical Journey», vol. 3, 2016.

P. Bellan, Le istanze individuali della verità in fieri. Argomenti soggettivi nella corsa all’oggettività scientifica, in «Nóema», 4-1, 2013.

E. Berti, Che significa «vero»?, in «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», vol. CLXIX, maggio 2011.

V.J. Ceravolo, Mondo. Strutture portanti, Editore Il Prato, Collana Cento Talleri, Padova 2016.

M. Duichin, Amicus Plato, magis amica veritas. Origine, fortuna e varianti di un celebre proverbio filosofico, in «Società Filosofica Italiana», nuova serie n. 182, maggio/agosto 2004, pp. 33-46

F. Falappa, Esperienza e verità. Note sullo statuto dell'ermeneutica, in «Lo Sguardo – rivista di filosofia», n. 20, 2016, pp. 155-166.

R. Gangemi, Vertigine e verità. Henri Maldiney nel segno di Heidi, in «Kaiak. A Philosophical Journey», vol. 2, 2015.

E. Grimi, Veritas Redarguens, saggi di E. Baccarini, M. Buzzoni, L. Fossati, M.P. Lynch, M. Santambrogio, in «Philosophical news», n. 2, 2011.

M. Guerrisi, Nuovo realismo: oggetti sparsi tra filosofia e scienza, in «Metábasis.it Filosofia e comunicazione», n. 18, novembre 2014.

A. Moschetta, Il mito platonico della caverna tra ’Αλήθεια e Veritas, in «Logoi.ph. – Journal of Philosophy», vol. 4, n. 2, 2016, pp. 222-229.

E. Palmentura, La verità in gioco. F. Nietzsche e H. G. Gadamer, in «Logoi.ph. – Journal of Philosophy», vol. 3, n. 1, 2015, pp. 264-278.

M. Pavanini, Corpi, linguaggio e verità. Il materialismo dionisiaco di Sloterdijk, in «Kaiak. A Philosophical Journey», vol. 3, 2016.

C. Sini, Oggettività e realismo. L’ultima impresa della verità, saggi di M. Adinolfi, M.R. Brioschi, G. Cacciatore, D. Capra, E. Della Valle, M. Ferraris, S. Frangi, A. Manicone, M. Mazzocchi, D. Poccia, F. Poggiani, F. Scandella, C. Sini, V. Vitiello, in «Nóema», n. 2, 2011.

S. Scrima, L’“invenzione” del mediterraneo. Nietzsche e Camus, in «Azioni Parallele – Quaderni d'aria», 13 ottobre 2016.

A. Stella, Il programma di radicale naturalizzazione della mente. Note su alcuni assunti concettuali, in «Rivista Internazionale di filosofia e psicologia», vol. 5, n. 3, 2014, pp. 250-266.

C. Tugnoli, Alla ricerca della verità, in «Culture Economie e Territori», n. 36, 2013, pp. 87-110.

G. Vagnarelli, Scomparsa del reale e agonia del potere in Jean Baudrillard, in «Metábasis.it Filosofia e comunicazione», n. 18, novembre 2014.

 

Note con rimando automatico al testo

1 K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol. II, p. 267: «io posso avere torto e tu puoi avere ragione, ma per mezzo di uno sforzo comune possiamo avvicinarci alla verità».

2 Il diallele – o circolo della verità – definisce circolarmente la verità con la realtà e la realtà con la verità. Il che è filosoficamente inutile.

3 Da questo punto di vista anche il sogno ha un “valore di realtà” in quanto accade in un’immagine mentale, e sebbene sia in grado di influenzare la realtà stessa, esso – il sogno – non è però propriamente reale, è solo una realtà immaginaria: il sogno è una realtà esclusiva della mente.

4 Ciò è valido anche per l’overlapping consensus di J. Rawls che, dir si voglia, poggia sulla presunzione di affermare come vero che «le conclusioni tratte sono solo ragionevoli e non vere». Parimenti è valido anche per J.L. Austin quando, in Come fare cose con le parole, differenzia fra enunciati «constativi» (che nel venir espressi descrivono uno stato di cose) ed enunciati «performativi» (che nel venir espressi compiono un’azione capace di modificare la realtà); ben affermando che la stessa è una differenza «spuria». Infatti anche un «constativo» compie a suo modo un’azione, esattamente un’azione descrittiva con tutta la sua “modificazione della realtà” (es. l’aria che esce dalla bocca, l’inchiostro che scrive o il pensiero che si costruisce; le mani che gesticolano o l’influenza sull’auditorio ecc.). Mentre anche un «performativo», dalla sua parte, descrive il tipo di azione che sta compiendo con tutta la “verità della sua realtà” (muoviti!; scommetto mezzo scellino ecc.).

5 In verità tutto ciò che viene predicato esclude la propria negazione, per l’impossibilità dell’autoconfutazione: “liberamente” esclude “costrizioni” ecc.

6 In ebraico “amen” significa “è così”, cioè “è vero”.

7 Aristotele, Metafisica, IV, 7, 1011 b: «Dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; dire di ciò che è che è, o di ciò che non è che non è, è vero.»

8 Sant’Agostino, Confessioni, «amant eam lucentem, oderunt eam reguardentem». Punto su cui ruota l’editoriale di E. Grimi, Veritas Redarguens, in «Philosofical news», n. 2, 2011.

9 G. Vattimo, Addio alla verità, 2009, p. 46: «davvero la seconda P sta fuori dalle virgolette?» si chiede Vattimo davanti alla teoria tarskiana «“P” è vero se e solo se P».

10 M. Heidegger, Essere e tempo.

11 Naturalmente la verifica di ciò si può avere solo a posteriori, solo dopo aver individuato quel qualcosa, prima d’allora sconosciuto, che ora giustifica più coerentemente le nostre previsioni: quindi un oggetto che esisteva anche prima che qualche “relativo osservatore cosciente” ne riconoscesse la verità. E questo è sostanzialmente uno dei motivi per cui la Terra girava intorno al Sole sia prima della nascita umana sia quando gli umani ne predicavano l’inverso.

12 Alcuni sostenitori di questa verità concettuale: Averroé, Avicenna e altri filosofi e astronomi.

13 Protagora: «l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono».

14 Il fatto che più esseri possano coincidere sotto lo stesso ordine generale, e in questo mostrarsi scambievoli al fine di quell’ordine, non ci permette infatti di cancellare la loro differenza specifica (delle parti); perché se sotto quell’ordine si eguagliano, sotto altri potrebbero contemporaneamente divergere. Così come “identico” e “diverso” si eguagliano sotto l’ordine ontologico “trova un essere” mentre divergono sotto l’ordine enigmistico “trova le differenze”. Così come il 2 e il 4 coincidono nell’ordine del numero ma si differenziano come numeri dotati di una quantità di unità differenti; e il loro essere ugualmente “numero” non toglie il loro essere numeri diversi, viceversa.

15 Platone, Sofista.

16 “Salvare i fenomeni” è un’espressione che Simplicio attribuì a Platone nel senso di salvaguardare le apparenze; come se non fossero caratteri della realtà.

17 Kant, Critica della ragion pura.

18 Newton, cit. in M. Duichin, Amicus Plato, magis amica veritas. Origine, fortuna e varianti di un celebre proverbio filosofico, in «Società Filosofica Italiana», nuova serie n. 182, maggio/agosto 2004, pp. 45-46.

19 Qui dovrebbero normalmente seguire le accuse di autoritarismo verso queste “verità immobili” della ragione che si impongono sugli uomini impedendo a questi ultimi di potersi imporre loro sull’universo. Ma dopo Galileo, che ci ha emancipato fisicamente dal centro dell’universo, forse sarebbe il caso di incominciare a emanciparci anche dall’idea di essere noi il centro concettuale del cosmo. Così rimettendoci, sotto un comune ordine, al pari di ogni altro esistente; invece di cadere, come vorrebbero i nostri detrattori, in un mondo di sole “leggi ad personam” tramite cui rompere l’eguaglianza fra gli esseri. Mentre sotto tale “ordine eterno” osservare le infinite attività pratico-sensibili (verità in fieri) su cui abbiamo libertà di guida e che mai riusciremo a compiere tutte e di cui ancora, qualcuno, non si accontenta per la propria bramosia d’esser egli stesso demiurgo delle leggi universali, o unica causa di ciò che è per sé, o peggio ancora: diversificati centri concettuali che incontrandosi creano mondi fuori dal concetto di “unione del loro incontro”, quindi fuori dalla regola dell’unità e dalla sua deriva, è un’idea logicamente e matematicamente impossibile. Qualcosa che qui non possiamo prendere in considerazione per palesata contraddizione con la “verità fisico-concettuale” (cfr. 1). Indi sorvoliamo amorevolmente su queste accuse.

20 Esempio matematico: nel mondo matematico il risultato è frutto di un’interazione fra più esseri (numeri); ed è qui che cadono le verità sensibili, qui, dove la relazione è apparentemente antecedente alla determinazione. Da ciò si estranea l’unicità del numero 1, il quale, come cominciamento, e necessariamente privo di relazioni ad esso antecedenti (per non contraddire il suo valore primale); ed è qui che cadono le verità di ragione, qui, dove la determinazione è sostanzialmente precedente alla relazione. Ben consapevoli che la somma fra più zeri è nulla e che dunque ogni somma con valore diverso da 0 avviene fra addendi di cui almeno qualcuno è determinato: non esiste relazione se non fra determinazioni.

21 Ciò che è computabile può venire riprodotto da un elaboratore artificiale a stati finiti.

22 C. Sini, L'esperienza e la verità, in «Nóema», n. 2, 2011, p. 4.

23 L’intelligibilità delle cose comporta la possibilità di conoscerle, benché, davanti a una possibilità infinita, un essere parziale non potrà mai avere accesso a tutta la conoscenza, al contrario di un essere infinito. Uno scarto non da poco quello che distingue un essere parziale con la sua asintotica long run verso la verità totale, e un essere infinito con il suo eterno stare su tutta la verità. Nel primo caso si hanno verità discrete la cui estensione e completezza può variare a seconda, ma la cui verità, per non contraddire la verità, in quella parte è completamente vera. Nel secondo caso si ha la verità infinita, finitamente indefinibile nella totalità delle sue verità, causa dell’inesauribile continuum di implicazioni ed esplicazioni del nostro finito conoscere. Ma non è hic e nunc che parleremo di tali verità.