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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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La vita umana e la sua struttura empirica

 

La vita umana e la sua struttura empirica1

 

(cfr. il saggio su Marías di Giuseppe D'Acunto) 

 

Julian MariasSi cerchi nel dizionario la parola «pentagono». Si troverà una definizione univoca: «poligono di cinque lati e cinque angoli». Genere prossimo e differenza specifica. Qui, non si presenta proprio nessun problema. L’oggetto matematico si lascia catturare attraverso una formula secca. Se si cerca, invece, «civetta», il sobrio Dizionario dell’Accademia Reale Spagnola – nonostante esso non sia un lessico enciclopedico o, piuttosto, sia un repertorio non di cose, ma solo di parole – non dirà niente di meno di quanto segue: «Uccello rapace e notturno, lungo, dalla sommità della testa all’estremità della coda, circa 35 cm. e con un’apertura alare doppia rispetto alla sua lunghezza. Il suo piumaggio è molto morbido, giallastro, macchiato di bianco, grigio e nero nella parte superiore e di bianco color neve sul petto, ventre, zampe e faccia. La testa è rotonda, il becco tagliato e incurvato sulla punta. Gli occhi sono grandi, brillanti e l’iride è giallo. La faccia è circolare, la coda è ampia e corta e le unghie nere. È molto diffuso in Spagna, soffia quando viene catturato e gracchia in modo stridente e lugubre quando vola. Si alimenta ordinariamente di insetti e di piccoli mammiferi roditori». Ciò prova che la civetta non si lascia rinchiudere docilmente nella gabbia di una definizione.

La cosa, però, certo non finisce qui. Se, infatti, da ultimo, cerchiamo il nome di Cervantes, ci viene detto che nacque nel 1547 ad Alcalá de Hernares, che viaggiò in Italia al seguito del cardinale Acquaviva, che fu ferito nella battaglia di Lepanto, che fu fatto prigioniero ad Argel, che fu amministratore, che scrisse il DonChisciotte, che volle essere un poeta e che morì a Madrid nel 1616.

Ma perché si dà tutta questa differenza fra i tre casi? Nel primo, si tratta di un oggetto matematico – di un oggetto ideale, stando alla terminologia di Husserl – e la definizione ci dà semplicemente la sua consistenza. Nel secondo, la definizione in senso stretto non è possibile. L’“essenza” della civetta, malgrado essa sia l’uccello di Minerva, è problematica. Inerisce all’essenza del cigno il fatto di essere bianco? Il poeta Rubén Darío lo chiama l’«olimpico cigno di neve». Il cigno australiano, però, è nero e non è dello stesso tipo di quello di Leda. Il dizionario si rifugia in una definizione più circostanziata. La nostra, però, è solo più prolissa e, in qualche modo, più vaga, tranne per il fatto che include due caratteri nuovi, che la distinguono dalla definizione del pentagono. Innanzi tutto, da dov’è che deriva? Deriva dall’esperienza, dall’aver visto civette. (Lasciamo da parte la questione di quante civette bisogna aver visto e della costanza di questi caratteri.) In secondo luogo, lì si dice che la civetta fa certe cose: soffia con forza, vola gracchiando in modo stridente e lugubre – non c’è dubbio che il Dizionario abbia una visione romantica di quest’uccello, la cui abitudine è di posarsi sulla spalla divina e rotonda di Atena –, si trova in Spagna e si ciba di insetti. Ma chi è che fa tutto questo? La civetta, si dirà. Intendiamoci bene, qui non siamo davanti allo stesso caso del pentagono. Qui, si tratta di ciò che ogni civetta fa. È questa che soffia, che gracchia in modo lugubre nelle tenebre e che fa brillare i suoi occhi grandi, dall’iride giallo. È ciò che fanno tutte le civette, tutte ed ognuna. Non è “la” civetta – come “il” pentagono – che vola nel crepuscolo. Sono tutte le civette che lo fanno.

E Cervantes? Qui, si tratta di un terzo caso ben distinto, nel senso che ciò che corrisponde alla “definizione” è una storia. Ci è detto quel che ha fatto Cervantes e che cosa gli è accaduto. Ci è raccontata la sua vita. («La vita è quel che facciamo e che a noi accade», ha detto un po’ di tempo fa Ortega y Gasset e questa definizione è molto rigorosa.) Già nel caso della civetta, si è mostrata insufficiente la mera descrizione morfologica ed è stato necessario aggiungere uno schema del suo comportamento o condotta: lì ci veniva detto che cosa la civetta “fa”. Nel caso di Cervantes, ci è detto, invece, quel che “ha fatto”, cosa ben distinta. Non si tratta di uno schema di attività, ma di precisi atti localizzati temporalmente: atti che non si ripetono, che sono irreversibili, che sono, in una parola, storici. Ciò che corrisponde ad una definizione, quando la parola che si cerca nel dizionario è un nome di persona, è una narrazione.

La conoscenza della vita umana, il “dare ragione” di essa, è possibile solo mediante una forma di ragione narrativa, la cui formulazione filosofica ci viene incontro nell’idea di ragione vitale2. Ma in questa affermazione pacifica ne vanno incluse delle altre, molto importanti, che vale la pena di mettere in luce. Come io sono un ingrediente della realtà, nella misura in cui questa si costituisce in quanto tale solo nella mia vita e in essa si radica, così tutta la realtà, e non solo quella relativa all’uomo, è intrisa, in ogni suo punto di vista, della condizione storica della vita stessa. Vale a dire che la conoscenza effettiva della realtà, quando essa non è limitata ad una mera “macchinazione” mentale, è accessibile solo alla ragione narrativa, la quale apprende la costituzione reale e non astratta dei suoi oggetti, nella sfera della nostra vita. La realtà si presenta sempre come ricoperta da una patina di interpretazioni e il primo compito della teoria è la rimozione di esse, al fine di rendere patente, nella sua verità – alétheia – la nuda realtà che le ha suscitate e che le ha rese possibili e necessarie. Solo la storia ci permette di scoprire il carattere interpretativo di questa patina sociale e tradizionale e proprio in questo senso è l’órganon o lo strumento grazie a cui riconduciamo tutte le interpretazioni alla nuda realtà latente che sta sotto di esse, ma che – non lo si dimentichi, poiché è decisivo – solo attraverso di esse si palesa e si rivela3.

Ma qui si tratta non della conoscenza, ma della struttura stessa della vita. Esiste ciò che possiamo chiamare un alveolo materiale, composto di diversi elementi o ingredienti, in cui si situa quella realtà dinamica e drammatica che è il vivere, consistente non in cose, ma nel fatto che io, qui e ora, faccio qualcosa con le cose, in vista di qualcosa e attraverso di esso. Ciò vuol dire che la mia vita certo mi è data, ma non mi è data già fatta e sono io che devo farla, istante dopo istante. Ma proprio in ogni istante si dà una complicazione tra presente, passato e futuro, la quale costituisce la trama strutturale della nostra vita. Tale trama strutturale si può configurare dicendo che il passato e il futuro sono presenti nella mia vita, nell’“in vista di che” e nell’“attraverso che” di tutto ciò che io faccio. Nel mio fare di ogni istante è presente tanto il passato, perché la ragione di quel che faccio si trova solo in quel che ho fatto, quanto il futuro, dato che dai progetti dipende tutto il senso della mia vita. L’istante vitale non è un punto inesteso, ma implica un contorno temporale. Poiché l’essere della vita consiste in questa distensione temporale, l’unico modo di parlare realmente di essa è raccontarla. La forma di “enunciato” in cui la vita concreta è accessibile è la narrazione, il racconto.

Il problema capitale che ora si pone è come sia possibile narrare o raccontare. La teoria orteghiana della ragione storica e vitale non ci fornisce un orientamento in questa direzione. Nel mio libro su Miguel de Unamuno4, ho esposto una teoria del racconto come metodo di conoscenza – cosa che, dal 1938, io chiamo racconto personale o esistenziale – e nella mia introduzione alla filosofia ho costruito alcuni capitoli intorno a quel metodo e a quella teoria della ragione che la posizione di un tale problema reclama e ho messo a punto una logica del pensiero concreto. Mi si permetta di richiamarmi a questi miei scritti.

La conseguenza che da essi discende è che la comprensione del concreto necessita che si prenda atto di alcune strutture previe, date. Ciò di cui si tratta, infatti, non è che io costruisco prima certi schemi o modelli mentali e poi vado alla ricerca, nel mondo, di un qualcosa che sia commisurato ad essi, ma è che, nell’osservare la mia vita, scopro condizioni o requisiti senza i quali non sarebbe possibile. E poiché ciò è una caratteristica di tutta la vita umana, io scopro così una struttura previa e necessaria studiata dalla teoria astratta o analitica di essa. Solo in tal modo risulta possibile la comprensione della vita umana concreta, tanto fittizia – romanzo, cinema, teatro –, quanto reale – biografia e storia.

Intorno a questo punto, però, dobbiamo raddoppiare la nostra cautela. La vita umana è una realtà a tal punto inesplorata che, contro ogni speranza, è piena di terre incognite, per le quali, fino ad ora, pochi o nessuno si sono avventurati. Tra la teoria analitica e la narrazione concreta si interpone uno stadio intermedio, il quale spesso è passato inosservato, ma che è decisivo e su cui intendo spendere alcune parole: è ciò che, in diverse occasioni5, ho chiamato la struttura empirica della vita umana6.

Come si può immaginare, la filosofia passata non è stata interamente estranea a sollevare questioni. Però, quanto più si mettono in risalto gli antecedenti, tanto più si mostra la radicale insufficienza delle impostazioni. Aristotele, nei Topici (102a, 18-19), Porfirio, nell’Isagoge (12, 12-22) e, sulle loro tracce, gli scolastici medioevali, rispetto a ciò che è essenziale o accidentale, hanno distinto il “proprio”. È essenziale all’uomo essere vivente o essere dotato di ragione. Gli è accidentale essere rosso, ateniese o vecchio. Ridere, essere bipede o incanutito, però, sono determinazioni né accidentali, né essenziali, ma proprie dell’uomo. (Devo avvertire che, in merito all’ídion o proprium, il punto di vista in cui si situano i vecchi logici, mancando di precisione, lascia molto a desiderare7.) Ma ciò che distingue l’impostazione antica da quella che a me qui interessa è che mentre lì si tratta di cose, nel caso migliore dell’uomo, qui si tratta, invece, della vita umana, la quale, in primo luogo, non è una cosa, ma una realtà interamente distinta e, in secondo luogo, non si può identificare con l’uomo, ma eccede radicalmente la sfera di tutta l’antropologia.

La teoria analitica della vita umana non è data dall’analitica esistenziale heideggeriana del Dasein, per le seguenti, non trascurabili, ragioni: essa comprende i requisiti che, inerendo all’intera vita, la rendono possibile, le relazioni astratte che devono riempirsi di un contenuto concreto e circostanziale. Solo così sono pienamente reali, solo così sono oggetto di quella conoscenza autentica della realtà che è la ragione narrativa. Però, tra questi due elementi, si estende tutta una terra incognita.

Qui, ricorderemo ancora come gli esempi del dizionario forniscano solo un’analogia orientativa, nella misura in cui il fatto di prenderli alla lettera induce in errore. La definizione del pentagono e tutto ciò che da essa consegue necessariamente – la geometria del poligono di cinque lati – corrisponde alla teoria analitica. Come questa, si tratta di una conoscenza aprioristica, universale, necessaria e irreale. Ciò che il dizionario dice di Cervantes, raccontando la sua vita è, invece, la conoscenza concreta di una realtà circostanziale e storica, insomma, una narrazione. Ma quali sono i presupposti di questa voce del dizionario? Che cos’è ciò che “in quanto saputo si tace”? È proprio questo il problema che qui ci occupa.

Il primo presupposto, indicato dal nome personale proprio, è che Cervantes è un uomo e che, pertanto, egli non rinvia al dominio della teoria analitica. Il secondo è che per “uomo” intendiamo una serie di determinazioni che, piuttosto che meri requisiti necessari perché sia dia vita umana, sono preliminari a tutta la biografia individuale concreta e grazie ai quali noi possiamo raccontare. Tali determinazioni io le chiamo struttura empirica, la quale è sì empirica, ma è struttura, è sì struttura, ma è empirica. Mutatis mutandis (e molto, naturalmente, dovrebbe mutare), a tutto ciò corrisponde quel che il dizionario dice a proposito della civetta. La realtà di una tale struttura empirica è che essa, senza essere un requisito a priori della vita umana, inerisce di fatto e in modo stabile alla vita concreta che empiricamente mi si fa incontro.

Corrisponde, inoltre, al campo della possibile variazione umana nella storia, contrassegnata, però, da una stabilità e da una permanenza essenziale. Io incontro, ad esempio, come determinazione analitica e a priori della vita umana l’essere circostanziale, l’essere nel mondo, però non, obbligatoriamente, in questo, né nell’epoca presente. Inerisce alla vita umana la corporeità, non però questa forma precisa di corporeità. Per principio, la realtà “vita umana” si potrebbe dare incarnata nel corpo di una piovra, anche se, naturalmente, in modo molto distinto. La vita terrena è finita, i giorni sono contati. Ma in che modo li si conta? La longevità normale dell’uomo, che regola il suo comportamento vitale, la successione e la funzione delle età, il ritmo delle generazioni e la vita storica in generale, di tutto questo si fa carico la struttura empirica. Essa è ciò che determina l’aspetto del nostro mondo reale, non solo il fatto che vi fiorisce la “vita umana”: la struttura delle nostre città, con porti, finestre, mobili e piazze, di questa o di quella data forma; il riferimento ai diversi sensi corporei – può aversi sì vita umana senza vista o udito, ma non certo senza sensibilità; si possono perdere alcuni sensi (di fatto stiamo, pian piano, perdendo l’olfatto) o acquisirne di nuovi (ciò significano gli artifici tecnici per rendere sensibili le radiazioni che non lo sono) –; il repertorio di ciò che è piacevole e stimato. Tutto questo è cambiato o cambierà. Quantomeno, potrebbe cambiare. Senza che l’uomo smetta di essere uomo, lo schema generale della sua vita può essere un altro, ossia avere una struttura empirica diversa.

Si tratta di determinare, inoltre, il confine che corre fra il naturale e lo storico. Nel valutare la “naturalezza umana”, si è soliti porre molte determinazioni storiche acquisite, sebbene durevoli, che si incorporano nella struttura empirica della nostra vita. Non esistono costanti storiche, ci sono, al massimo, elementi durevoli, forse permanenti, che permangono e perdurano lungo la storia o in essa. Per principio, si potrebbe pensare ad ingredienti della vita umana la cui “durata” va da Adamo fino al Giudizio Universale, senza che essi manchino, per questo, di essere storici.

La struttura empirica è la forma concreta della nostra circostanzialità. L’uomo non semplicemente è nel mondo, ma sta in questo mondo, non solo ha una realtà corporea, ma ha questa struttura corporea e non un’altra. C’è un esempio minimo nel cui segno le due dimensioni si articolano: il sonno. Il mondo in cui vive l’uomo è fatto di giorni e notti che si alternano, il suo corpo ha una struttura fisiologica che gli impone di dormire. Ma quanto e quando? Probabilmente, nei millenni passati, l’uomo ha dormito molto più di adesso, verosimilmente di notte e di più in inverno che in estate. La tecnica recente dell’illuminazione ha alterato tutto ciò, ha affrancato l’uomo dagli orari e lo ha reso relativamente libero per quanto riguarda i tempi (un caso particolare è la situazione naturale nelle zone polari). Non solo l’uomo è mortale, ma vive, più o meno, una porzione di anni, fa affidamento su questo orizzonte probabile e incerto e la sua vita si articola secondo uno schema preciso di età individuali e di generazioni storiche, schema che cambia in rapporto al fenomeno del consolidarsi dell’aumento della longevità, che ha preso inizio da alcuni decenni.

Beninteso, tutto questo non è la geografia della terra incognita da noi indicata – nella quale noi stiamo, senza saperlo – e non è nemmeno una mappa di essa. È solo quel po’ che stringono in pugno i naviganti quando non hanno ancora raggiunto l’isola da loro intravista nella nebbia: la sua posizione, determinata con l’astrolabio, l’abbozzo indeciso delle sue forme, un ramo galleggiante o un uccello – forse una civetta – posatasi sull’albero della nave, fra due luci.

(tr. it. di Giuseppe D’Acunto)

 

Note con rimando automatico al testo

1 Saggio del 1952 che fa parte della raccolta: Ensayos de teoría (1954), in J. Marías, Obras, vol. IV, Revista de Occidente, Madrid 1969, pp. 355-61.

2 Cfr. J. Marías, Ortega y la idea de la razón vital, Zuñiga, Madrid 1948 e Introducción a la filosofia, Revista de Occidente, Madrid 1947; tr. it., Ragione e vita. Unintroduzione alla filosofia, di F. De Nigris, Edizioni Università della Santa Croce, Roma 2004.

3 Cfr. ivi, capp. III e IV.

4 J. Marías, Miguel de Unamuno, Espasa-Calpe, Madrid 1943, nonché il mio saggio: La obra de Miguel de Unamuno (1938), nel vol. La Scuola di Madrid, Emece Editores, Buenos Aires 1959.

5 Cfr., ad esempio, J. Marías, El método histórico de las generaciones, Revista de Occidente, Madrid 1949, pp. 155-6.

6 Si veda, al riguardo, la mia comunicazione al Congresso Internacional de Filosofía di Lima del 1951.

7 Cfr., ad esempio, N. Signoriello, Lexicon peripateticum philosophico-theologicum, Bibliotheca Catholica Scriptorum, Napoli 1906, pp. 276-7.