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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Pierre Dardot e Christian Laval, Del Comune, o della Rivoluzione nel XXI secolo

 

 

Pierre Dardot, Christian Laval

Del Comune, o della Rivoluzione nel XXI secolo

 

tr. it. di Antonello Ciervo, Lorenzo Coccoli, Federico Zappino

prefazione di Stefano Rodotà

postfazione di Antonello Ciervo,
Lorenzo Coccoli, Federico Zappino

 

Roma, DeriveApprodi,2015 (I Libri di DeriveApprodi),
pp. 535, ISBN 978-88-6548-116-5, € 30,00

 

 

 

Come ogni buon libro di filosofia, anche Del Comune parte dalla etimologia della parola. Munus in latino è “dono”; da munus viene mutuum, che indica la “reciprocità” (cfr. p. 22). Aggiungo io che risalendo all’indoeuropeo si scopre che mit, da cui proviene mutuum, indica “mettere un limite (mi)tra due punti (t)”, “formare una coppia”, “alternare”, “unire”, “capire”, “comprendere”. D’altronde il greco μάθησις è apprendimento e μάθος è conoscenza. La congiunzione tedesca mit mantiene molti di questi significati o permette, unita a verbi o sostantivi, di dare il senso dell’unità o della comprensione; ancora in tedesco rimane una presenza del munus nel gemein, “comune”, ad evidenziare che anche le lingue germaniche mantengono la stessa radice indoeuropea del latino. Ritornando a Dardot e Laval, essi concludono rilevando che cum e munus formano la parole communis e, quindi: «Il termine “comune” è particolarmente adatto a designare il principio politico di una co-obbligazione per tutti coloro che sono impegnati in una stessa attività» (p. 22) e proprio in questo senso lo usava Kant. Se c’è una co-obbligazione, questa si fonda su una co-partecipazione, quindi il comune è compartecipazione, se non si partecipa insieme non si è obbligati. Nella Rivoluzione ungherese del 1956, i due autori, riprendendo una suggestione di Castoriadis, vedono la prima rivoluzione, cioè il superamento della divisione tra la politica professionalizzata, il Partito comunista ungherese, e la società civile (cfr. p. 70). In quei giorni, tra il 23 ottobre e il 4 novembre 1956, la società civile ungherese instaurò una “politicizzazione universale della società”, che esercitava una democrazia diretta, fondata sulla vera eguaglianza politica, radicata in collettività concrete ed autogestite, i Consigli, o, per dirla in russo, i Soviet. Nel 1956 si riprese il filo interrotto in Ungheria nel 1919, e fu questa la ragione principale della partecipazione del vecchio Lukács a quella rivoluzione; ma ovviamente di Lukács nel libro non si parla. 

Se la co-partecipazione è la condizione sine qua non il comune non può sussistere, il comune è, quindi, una co-attività, non è una condizione naturale, come l’umanità, non è una dignità comune, ma è una co-azione, che non va intesa come costrizione, perché richiede – come detto sopra – una co-partecipazione. Per chiarire che cosa sia il comune userò il vecchio Lukács, cioè la sua concezione di “appartenenza al genere” (in tedesco Gattungsmässigkeit). Laval e Dardot citano Hegel, evitando scrupolosamente Marx, ma in fondo il senso della loro concezione è del tutto parallelo a quello del Lukács dell’Ontologia dell’essere sociale, cioè proprio la capacità di co-agire insieme fa degli uomini degli esseri sociali. Questo senso del comune è quello espresso dal sostantivo tedesco Gemeinschaft, che oltre che “comunità” significa anche “azione reciproca”, “co-azione”. Ed è proprio questo il senso che Lukács intendeva dare all’essere sociale, e spero che Laval e Dardot possano essere d’accordo con questa mia interpretazione.

I due autori evitano anche di far riferimento a un concetto teologico-politico di comune, perché vogliono evitare nuove forme di dominio. Proprio sul dominio, più precisamente sull’appropriazione del comune, si fonda la nascita del capitalismo secondo Marx, almeno così sostengono i due autori (cfr. p. 100). In realtà, la nascita del capitalismo è descritta da Marx in forma di complesso di complessi, dove l’appropriazione delle terre comuni ha una parte rilevante, insieme ad altri fattori altrettanto rilevanti, come l’arrivo in Europa dei metalli preziosi dell’America latina. Altrettanto rilevante è l’appropriazione dello Stato da parte del blocco storico –per dirla con Gramsci, altro assente nel libro – tra aristocrazia e borghesia, laddove era esistente, o della sola borghesia, laddove l’aristocrazia non collaborava con la borghesia. Lo Stato difese l’appropriazione del comune e nel comunismo realizzato, secondo gli autori, lo Stato distrusse il comune (cfr. p. 75). 

Sullo Stato e sulle concezioni comuniste dello Stato c’è un’enorme quantità di materiali, su cui qui non c’è spazio sufficiente per discutere. Su un solo punto vorrei richiamare l’attenzione del lettore sulla definizione che Engels dà di Stato: “essenza comune” che in tedesco è Gemeinwesen. Lo Stato comunista e socialista sarebbe stato l’essenza comune dei cittadini, ma storicamente lo Stato è stato uno strumento nelle mani della classe dominante, che si è appropriata del comune facendone una proprietà privata. Oggi lo Stato è sempre più uno strumento nelle mani del capitale, che non ha più ostacoli né nemici potenti. Tornando a Dardot e Laval, ormai il dominio del capitale è tale che il capitale riesce «a mettere al lavoro i consumatori, di farne i co-produttori della merce e del loro stesso assoggettamento» (p. 146). Quello che Lukács aveva intravisto nel fordismo e descritto in Storia e coscienza di classe, adesso è perfettamente realizzato, aggiungo io, anche gli strumenti che lo Stato si è dato, come ad esempio il diritto consuetudinario, che è stato un diritto alla povertà, come sosteneva Marx, che gli autori citano (p. 268).

Non ci potrà essere nessuna istituzione del comune, finché esisterà la proprietà privata, perché essa è la netta negazione del comune (cfr. p. 361), fino al punto che «ormai questa medesima proprietà […] possiamo a ragione considerare come la minaccia principale alla possibilità stessa della vita» (p. 19). Perché è sotto gli occhi di tutti che lo sviluppo sfrenato del capitalismo sta mettendo a repentaglio la possibilità della vita sul pianeta. Quindi, se si vuole che la vita sia ancora possibile sulla Terra, allora si deve cominciare a pensare e poi a mettere in pratica il superamento dei rapporti di proprietà privata oggi esistenti, che si fondano sul dominio del capitale sul lavoro.

Dardot e Laval si rivolgono a tutti i movimenti di protesta e di rivolta a questo dominio, ma come è purtroppo abitudine in tali movimenti, fanno subito delle esclusioni. Ad esempio sono respinte le proposte di Naomi Klein e John Holloway, perché la prima ammetterebbe l’esistenza soltanto di piccole comunità, la seconda perché non mette in discussione «le forme di dominio del capitale sul lavoro, come del resto gli effetti dello Stato sulla società ed il modo di superarli» (p. 106). Senza dubbio le critiche a Klein e Holloway sono fondate, ma lo stile escludente lascia perplessi, perché le esclusioni sono sempre indebolimenti.

Dardot e Laval conducono un’interessante rilettura dei testi classici, a sostegno delle loro ricerche archeologiche, per dimostrare che l’appropriazione del comune e la sua trasformazione in proprietà privata non è un destino inevitabile della civilizzazione. Lo è stato per quella occidentale e poi si è esportato nel resto del mondo, ma «se il comune è da costituire, allora si dovrà costituire come inappropriabile e non come l’oggetto di un diritto di proprietà» (p. 185); per cui «ogni vero comune politico deve la propria esistenza a un’attività sostenuta e continua di messa in comune» (p. 187). In definitiva, può sorgere un’economia del comune che sarebbe fuori dalla logica del mercato, che avrebbe quindi un carattere sovversivo rispetto all’attualmente esistente (cfr. p. 395), perché «il comune è la nuova ragione politica che occorre sostituire alla ragione neoliberista» (p. 450) e ha una funzione: «Il comune è un principio, non è un principio come tutti gli altri. È un principio politico, o meglio ancora, è il principio politico» (p. 456). Fin qui i due autori francesi, suggestivi come lo sono sempre i francesi, e per questo capaci di suggerire riflessioni e ulteriori approfondimenti.

Concludo e completo il loro discorso integrandolo con la riflessione di Enrique Dussel, fondatore della Filosofia della Liberazione, che dopo aver redatto una Etica de la liberación e nel corso della redazione di una Politica de la liberación (due volumi sono già usciti e si attende il terzo e definitivo), ha scritto un libro che incrocia l’argomento del comune: 16 tesis de economía política. Interpretación filosófica (Mexico, Siglo XXI, 2014). Dussel riconosce la necessità di un nuovo inizio, di una nuova forma di economia che lui chiama semplicemente ecologia, che si fonderà sulla distribuzione dell’eccedente a chi ha bisogno di mezzi per vivere, distribuzione che sarà gestita da minoranze, visto che le maggioranze sono esacerbate dal capitalismo. Parto da una riflessione di Dussel che è in parallelo a una analoga di Dardot e Laval (cfr. p. 309): «Si dovrà valutare la permanenza nella futura economia di istituzioni che furono eliminate pretenziosamente in progetti di sistemi alternativi come quello del socialismo reale del XX secolo, per esempio, dal mercato e dalla concorrenza. Si dovrà giustificare nuovamente l’intervento regolatore della comunità, delle istituzioni sociali e dello Stato nei meccanismi di queste istituzioni come l’impresa, il mercato e la concorrenza, che dovranno acquisire fisionomie differenti da quelle del capitalismo o del socialismo reale del XX secolo» (E. Dussel, 16 tesis de economía política, cit., pp. 186-87). Quindi occorre recuperare dal socialismo reale ciò che poteva funzionare per la distribuzione dell’eccedente, prendere il controllo dello Stato (contro quanto pensa Holloway) e imporre un controllo alle istituzioni capitalistiche, cambiandone la natura al fine di favorire i meno favoriti, riequilibrando i rapporti tra uomo e natura e tra uomo e uomo. Naturalmente tutto ciò va fatto con strumenti democratici, cioè mediante partecipazione e rappresentanza: «L’economia, per essere tale, deve sviluppare la sua attività in quanto affermazione e crescita qualitativa della vita umana (materialmente), nella partecipazione libera e valida dei membri della comunità (formalmente) e rispondendo alle condizioni oggettive di efficienza (fattibilmente). A questi tre momenti si aggregherà successivamente la dimensione critica di ciascun principio» (ivi, p. 203). Il comune cede il posto alla comunità e diventa qualcosa di più concreto, perché si parla di esseri sociali che vivono insieme e che puntano al miglioramento della qualità della propria vita, ma dentro relazioni reciproche ispirate al principio della critica. Ciò che conta è che le istituzioni economiche devono essere subordinate alle esigenze della comunità (cfr. ivi, p. 210), degli esseri umani, che sono i soggetti attivi della propria opera di liberazione ed emancipazione. L’esistenza di queste istituzioni economiche comunitarie è possibile, alla condizione di gestirle democraticamente e di sostituire al salario la retribuzione, al plusvalore l’eccedente e al profitto l’eccedente totale (cfr. ivi, p. 269).

 

Dussel non ha difficoltà a richiamarsi a Marx (cfr. ivi, p. 238), ricordando che Marx voleva un’associazione di uomini liberi e autocoscienti con mezzi di produzione comunitari. Marx faceva distinzione, infatti, tra lavoro comunitario per la comunità e lavoro sociale per la società, sottoposto alle relazioni di produzione capitalistiche o socialistiche, che non erano comunitarie. Mi pare una riflessione più concreta, più legata a cose comuni, a luoghi comuni, a un progetto di comunità possibile, anche se non facile. Forse Dussel è avvantaggiato dal fatto di vivere in America latina, dove la comunità è ancora presente e forte, e non in una società avanzata come la nostra, dove il controllo del capitale è fortissimo e soffocante.