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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Benedetto Croce e Giovanni Gentile, Carteggio

 

 

 

Benedetto Croce, Giovanni Gentile

Carteggio vol.1
1896-1900

 

  • Torino, Aragno2014
    ISBN-13: 9788884196811  € 30




 

 

 

Storia e Filosofia dopo Spaventa: Croce e Gentile 

L’interessante e voluminoso Carteggio recentemente edito nell’aprile 2014 dall’Editore Aragno di Torino, che si propone il difficile compito di quantificare e di qualificare meglio al contempo l’Epistolario intercorso tra Croce e Gentile dal 1896 sino al 1924, anno in cui avviene la rottura definitiva della loro collaborazione culturale ed interpersonale, ha destato la riconsiderazione del flusso culturale da parte di due ricercatrici, Cinzia Cassani e Cecilia Castellani, che hanno esplorato in lungo e in largo il complesso mondo valoriale vissuto dai due maggiori filosofi del neoidealismo italiano.1 Il progetto è risultato, così, quello di suddividere i tempi della ricerca storica in quadrienni al fine di rintracciare, quanto più possibile, altro materiale che non è comparso nella edizione delle Lettere di Croce a Gentile del 1981, per la cura dello stesso Gennaro Sasso. La precisione del corpo redazionale delle note e i chiarimenti apposti, intesi come rinvio alle precedenti lettere nelle quali il significato contestuale deve essere inteso come termine di confronto con gli apparati epistolari posteriori, rendono la presente edizione degna di nota per un primo periodo quadriennale considerato che va dal 1896 al 1900 e, successivamente, come abbiamo già riferito, sempre per quattro anni successivi, sino al 1924. Il risultato della presente ricerca contiene la descrizione anticipata di un tragico evento che non può essere più ancora oggi considerato come confinato alla natura degli eventi di per sé maturati ed erroneamente intesi come se tutto fosse dovuto inevitabilmente accadere e come se per tali motivi nulla più si potesse fare per conciliare ciò che ormai li divideva nel rispettivo punto di vista. Neppure l’intervento di interposti amici poté esercitare un ruolo di riappacificazione tra i due contendenti che disputavano intorno al concetto più importante, quale era il filosofare distinto ed opposto della triade dello Spirito di contro all’elemento monistico e panlogistico di derivazione hegeliana e spaventiana relativo allo Spirito in quanto atto che si fa fatto e che, per tali rispetti si configura come atto puro. Per Gentile l’atto puro è il presupposto speculativo dello Spirito che trascorre nella storia intesa come filosofia la quale è, secondo la distinzione configurata, storia filosofica che si consolida attraverso il suo processo, per costituirsi come necessità dell’atto puro che diviene fatto esaustivamente implicato in quanto eternamente esplicato, contenente, pertanto, il rilievo spaventiano originario della mentalità che si distingue come atto e si distingue in esso puntualmente. Un passaggio obbligato, questo, auspicato già in precedenza sul finire del secolo XIX, prima ancora della pubblicazione di Teoria generale dello Spirito come atto puro, dedicato all’amico-corrispondente Croce, con il quale non era possibile più pervenire ad un accordo – neppure bonario – come riteneva Gentile, visto che l’atto puro non poteva né avrebbe potuto supportare le distinzioni e le opposizioni contenute nello Spirito che si fa arte, religione e filosofia, e che da ciascuna di queste è distinto. Tanto più che per Croce il conflitto è posto sul piano della storia filosofica, la cui unità non può costituirsi nel suo assoluto nucleo, che è, invece, il filosofismo o l’assoluta filosofia ridotta al rango di essere sempre storia filosofica per non costituirsi come momento in cui questa può intendersi come previsione e come preparazione dei futuri eventi nei quali intervengono autori ed interpreti per comprendere adeguatamente il regolare svolgimento degli stessi. Ci siamo, così, convinti che al di là dell’indice di non gradimento speculativo mostrato da Croce nei confronti della filosofia spaventiana e delle sue peculiari nonché prevalenti connotazioni risorgimentali di origine nazional-popolare, questi non manchi di stimolare sempre Gentile, discepolo esemplare di Spaventa, a proseguire nei suoi studi neo-hegeliani, sicuro di potere ricevere qualche utile indicazione dall’amico sulla riforma dell’hegelismo che aveva già in animo di compiere, soprattutto alla luce dei lunghi studi condotti sulla storiografia intesa come problema storico e filosofico. Rivedere, così, Hegel senza Spaventa, il Teologo-monaco, impregnato di dogmi e disusato a palesare stimoli critici nei confronti dell’antico Maestro, oltreché a diffondere la ritrovata unità endiadica tra il pensare e il pensato come esplicazione della categoria della mentalità, intesa pure come anticipatrice genetica dell’atto puro gentiliano,2 in un distico elegiaco che celebrava la connessione tra questi due momenti significativi mirabilmente astretti. Per Spaventa la scienza e la filosofia, secondo Croce, si costruiscono come sistema irreversibile unico e ultimo poiché il pensato non può più essere oggetto di ripensamenti ulteriori e il pensare ha, così, compiuto l’ultima operazione esaustiva poiché ha già tutto pensato, invece di continuare a ripensare, poiché tale è, invece, l’essenza critica del pensare, consistente nel ripensare ciò che una volta è stato già pensato. A ben rileggere, tuttavia, le osservazioni di Spaventa, rinvenute da Gentile in un manoscritto della fine del XIX secolo, per cortese concessione del Prof. Sebastiano Maturi, suo maestro, che riassumeva lo scritto del Nostro che si pubblicava su un giornale piemontese, “Il Costituzionale”, occorre precisare che la posizione di Spaventa relativamente al rapporto dicotomico tra il pensare e il pensato come esplicazione della scienza sembrava non assuefarsi al verbo hegeliano e che Spaventa mirasse più che altro ad accentuare nelle menti giovanili la dimensione dell’indefinito desunto dalla mobile attività dello sperimentare ogni peculiare interesse emergente dalla spontaneità con cui di solito gli autori creano forme e cognizioni nuove, che sono se non altro la nuova dimensione dello spirito. In realtà, secondo Croce, è proprio il ritorno dello Spirito in sé stesso che defrauda il tentativo operato da Spaventa rispetto all’impianto hegeliano, tant’è che lo stesso scrive:

Io penso che l’intuito filosofico, tal quale è necessario per costruire l’edifizio della scienza, non nasca immediatamente, ma che sia mestieri di così fatto procedimento, perché nelle menti giovani ed estranee affatto alla filosofia riesca applicabile e ricco di risultati. E qui incomincia veramente la scienza; Ottenuto il concetto dello spirito, conosciuti i suoi momenti e la sua forma, si è come al centro della creazione del mondo spirituale: da questo centro lo spirito si diffonde in una sfera infinita e rientra in se medesimo e si comprende come tale. Il risultato finale della scienza è che lo spirito si conosce come spirito.3

Il ritorno dello spirito in se stesso non è altro se non il raccoglimento hegeliano di esso sopra se stesso dopo avere distinto i suoi momenti e le sue forme mercé la disposizione di se medesimo che si esteriorizza interiorizzandosi, e viceversa, conforme pure all’intuito filosofico dei giovani cui inerisce la creazione in quanto spontaneità che deve germinare, così, in un crescendo dialettico inesaustivo, ciò che esso ritiene implicabile ed esplicabile e che non è pertanto riconducibile alla teoria crociana del filosofare che attende di costruire la scienza piuttosto con la pratica del metodo storico, invece di costituirsi come astratto compito del filosofare fine a se stesso. Il filosofare – e si badi bene – non la filosofia, per Croce, che ha presente il vocabolo kantiano contenuto nella Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura, è, invece, distinto da questa, la quale procede unicamente ad avvalorare il sistema in essa contenuto, mentre quello lo deve storicamente ricostruire arricchendolo di elementi storiografici desunti dalle contraddizioni o dalla negatività sortita dallo svolgimento suo, che non è mai ultimo né definitivo. Il sistema spaventiano, così instaurato, è privo della peculiare esplicazione critica del pensato in quanto non è il problema del pensare rispetto a tutto ciò che si può pensare con libertà; questa, infatti, è astretta al suo valore dicotomico cui è riconducibile, in quanto determina il nesso tra il pensare e il pensato che stanno tra loro reciprocamente ed intuitivamente, come costruttori del simbolo mutevole del concetto, mentre se il pensare fosse espressione della sua eterna libertà, potrebbe pensare l’altro da sé, mediandolo, e riconducendolo ad ulteriori riflessioni con le quali si eserciterebbe l’attività pensante che viene, invece, in tali casi, ricondotta alla sola attività riflessiva, che non è abbastanza riflettente. L’altro da sé, così, sarebbe stimato come diverso da sé, in quanto ritenuto identicamente altro da Spaventa, che probabilmente non ha presente la lezione platonica dell’identico e del diverso, costringendo, così, la diversità dell’altro ad essere diversità-diversa, ovvero identica, dell’altro. In realtà Spaventa coniuga con successo il risultato cui è pervenuto, tant’è che, seppure ha utilizzato qualche tentativo per sfuggire alla dicotomia dialettica instaurata tra il pensare ed il pensato, egli osserva a questo proposito, anche in riferimento al concetto del divenire che dovrà essere spiegato al pubblico degli uditori che lo hanno visto confutare in Hegel:

Questo è un modo grossolano di intendere il pensare, e quindi la logica. E lo stesso modo di intendere la identità dell’Essere e del Pensare, della realtà naturale e della realtà cosciente: identità, che è il pensare. Si dice: se il Pensare è identico all’Essere; dunque io che penso la penna, sono la penna, sono questa penna; penso il cappello, e sono il cappello, questo cappello. Ora è chiaro – meno male – che io non sono né la mia penna, né il mio cappello; dunque, si conclude con una certa aria di trionfo, appunto come quell’avvocato, quella identità è un assurdo, una contradizione.4

Rispetto alla costruzione del sistema o dei sistemi filosofici la storia della filosofia deve saper promuovere, in quanto azione diretta non semplificatrice esercitata dagli autori, l’unità sistematica desunta dal puro interno travaso delle fluidificazioni concettuali che esprimono l’identità e la differenza, garanti dialetticamente del divenire in quanto sviluppo degli stessi non compiuti esaustivamente, ma sempre in eterno movimento rapsodico, collegate e dispieganti la loro perenne continuità costruttiva. Una profonda simbiosi tra la Logica e la Metafisica, anima efficace di una costante collaborazione tra ciò che è dato e ciò che è posto, in un perdurante e permanente distinguo tra ciò che compete agli autori come costruttori del sistema e gli interpreti in quanto critici di essi. Croce, tuttavia, è indirizzato oltre questi, memore pure della lezione kantiana circa gli orientamenti contenuti nella storia filosofica che non può generare né sistemi né sistemazioni aventi il carattere della definitività e non, invece, quelli della provvisorietà. Il provvisorio, tuttavia, per bene intenderci, non è l’accidentale, ma ciò che non costituisce dicotomie astratte tra ciò che si pensa e ciò che è pensato, ma va oltre di esse e non rimane nelle stesse, come al contrario il dato-posto spaventiano, in quanto la sua direzione è prestabilita, ma non orientata liberamente oltre ogni esaustività metafisica, come quella del pensare connesso al pensato ultimo e definitivo. Nella lettera indirizzata a Gentile il 18 ottobre 1898, Croce così scrive:

A me è parso sempre quantunque non mi sia riuscito di formularlo sempre con la debita chiarezza o precisione che la filosofia non appartenga al novero delle scienze: che la massima parte di ciò che prima si chiamava filosofia sia stato o debba essere assorbito in scienze speciali. Può esitare il filosofare, per indicare un grado alto di elaborazione scientifica, ma non la filosofia come scienza. In ciò – ossia nell’affermazione che la filosofia non sia una scienza – mi pare d’essere d’accordo con voi. Ma come allora voi unificate filosofia e storia della filosofia?5

Che la filosofia non sia scienza, come ritiene Croce, ma una scienza speciale, deve intendersi del pensare non dicotomico, sebbene collegato all’esperienza che fonda, poiché ogni pensare deve ad essa volgere in quanto l’aiuta e la feconda – per così dire – in vista della determinazione del proprio orientamento al fine di individuare gli oggetti da pensare in ragione di ciò che ad esso riesce più congeniale, per costituirsi, infine, come piacere di pensare disinteressato, anche esteticamente inteso. Questa è, dunque, la scienza speciale non fenomenologicamente intesa, ma ermeneuticamente pensata in quanto s’incontra giustappunto con tutti gli autori e tutti i loro perseveranti interpreti; del resto una lettura più approfondita ed organica della lettera di Croce sollecita altresì il lettore ad assumere la completa consapevolezza del filosofare speciale, se non altro perché distingue i momenti relati di esso e non li estingue, poiché se fossero stati ridotti all’estinzione, sarebbe rimasta la sola filosofia accompagnata dalla sua inseparabile coscienza necessitata a costituirsi come la totale ed esaustiva connessione sistematica dell’astratta unità. La coscienza del filosofare, o la sua consapevolezza, è, dunque, tale, in quanto consiste nella capacità di interpretare il reale e, pertanto, acquista il significato di porsi dalla parte di tutti coloro che vogliono comprenderlo e profondarlo adeguatamente, tanto che questi sono in attesa di comprenderlo e di oggettivarlo, per realizzarsi come fine dell’interprete e di tutti gli interpreti, ma non definitivamente, come è capitato a Spaventa di rimanere imbrigliato nella teoria della distinzione-estinzione aporetica del pensare. Si tratta, inoltre, di una distinzione ulteriore tra la filosofia e la storia della filosofia, ovvero tra il sapere storico che deve permeare l’assunto filosofico, onde riportarlo continuamente alla luce e che non può, pertanto, contenere più estinzioni dicotomiche per le distinzioni primarie presupposte dalla categoria della mentalità, tutta spaventiana, conducente al nichilismo e al misticismo, fuori dagli orizzonti ermeneutici del sapere storico-narrativo chiamato a contribuire alla realizzazione dei destini orizzontali di autori ed interpreti che s’incontrano, diversificando, invece, il proprio punto di vista. La storia e la filosofia s’intrecciano, così, divenendo i depositari dell’interpretazione, che non è una classe speciale della scienza astratta, altrimenti si costituirebbe come una seconda classe, ma il tentativo suo concreto di penetrare per mezzo di autori ed interpreti con le proprie affinità elettive dentro il contesto filosofico che è sempre un testo storicamente individuabile e logicamente implicabile. Gentile non si lascia sfuggire l’occasione e solo un mese dopo, nella lettera inviata a Croce il 10 novembre 1898, risponde, dopo avere fatto proprio il formalismo kantiano, a lungo studiato, rivendicando alla filosofia (e non al filosofare) la cognizione che essa sia originariamente e metafisicamente lo spirito e che da essa decorre ogni spirituale determinazione e produzione al contempo in quanto sua attività esplicatrice e che in quanto atto o rivisitato concetto mentalistico non può che caratterizzarsi come atto decisivo che implica, perciò, la riduzione della filosofia alla storia, tanto che l’atto filosofico deve ridursi al solo fatto storico narrato in modo tale che esso venga esplicato, essendo stato implicato dalla storia. Si comprende, così, che Croce individuasse in Gentile la mancata fluidificazione ermeneutica tra l’atto ed il fatto, che rimangono, così, solo due veraci endiadi che stanno l’una nell’altra, come il filosofare storico e lo storicizzare filosofico, ridotti, in tal guisa, alla comprensione della prevalenza dell’uno sull’altro, senza la possibilità di mediare tra i medesimi, onde la vera complicazione emerge allorché bisogna determinare gli orizzonti e le finalità del processo che si ingenerano in essi senza che possano essere superati da autori ed interpreti capaci di mediazioni essenziali. Il rischio è l’assoluto filosofismo, incompatibile, pertanto, con la scienza speciale crociana, i cui interpreti hanno, invece, tratteggiato i limiti e i confini dell’autentica comprensione tra storia e filosofia. Le parole di Gentile, infatti, risultano sicuramente più eloquenti e veraci per comprendere l’assunto da lui esposto mercé un periodare che non lascia dubbi ulteriori intorno alla efficacia ed alla efficienza dell’atto puro, tanto da scrivere argutamente:

Ora io come unifico filosofia e storia della filosofia, senza toccare questa astrattezza, questo formalismo del contenuto trascendentale (devo aggiungere questa brutta parola, per evitare la “contradictio in adiecto”)? È questa la domanda che voi mi fate. Ed ecco cosa risponderei: se la filosofia è consapevolezza non è una forma fissa, stabile, definitiva, già trovata, per cui si possa dire: badate che c’è questa superiore consapevolezza, che dovete avere ecc. Anzi è continua formazione; e non ne voglio altra prova che la storia, sebbene tale sua essenza, possa agevolmente ricavarsi dal suo stesso concetto. Ora se codesta consapevolezza è formazione continua, è già essenzialmente storia.6

La riduzione della filosofia a storia è, invece, nonostante le precisazioni di Gentile relative alla non esaustività definitiva del loro processo, una esplicazione radicale e conclusiva dello stesso che è, in verità, senza alcuna contraddizione, il filosofismo storicizzato condotto alle sue ultime conseguenze nelle quali si disperde la speciale funzione ermeneutica tra autori ed interpreti che intendono, invece, le note varianti e variabili di un contesto storico-filosofico nel quale entrano di diritto e di fatto a far parte gli stessi che comprensibilmente lo debbano interpretare, essendone i lettori autentici, forieri latori dei propri punti di vista che aprono nella loro diversità i relativi orizzonti aperti ed estesi. Né possono, così, valere i richiami di Gentile a Croce circa un futuro complice intendimento della questione nella quale Gentile si è adeguatamente e consapevolmente espresso, per avere individuato nel monismo filosofico-storico dell’atto puro spiritualizzato la componente fondamentale del processo filosofico che si traduce nel fatto compiuto, conformemente al suo antico maestro Spaventa che non ha né risolto né superato l’endiadi dicotomica tra la distinzione e la estinzione in quanto atto spirituale della mentalità. La lontananza e la profonda diversità ermeneutica, ridotte al monismo assoluto, come quello hegeliano-spaventiamo operato da Gentile, nel quale permane altresì la connotazione sostanziale-causale di matrice spinoziana, intesa come elemento descrittivo della ipseità che si conforma alle configurazioni finite dei modi, sono, in realtà l’atto puro che, pur determinando il fatto o i fatti, non è in grado di penetrare neppure riflessivamente in essi dai quali, pertanto, rimane isolato e che non può quello assolutamente coniugarsi come scienza speciale. A questa, infatti, ineriscono, come abbiamo già precedentemente tentato di mostrare, l’oggettività del pensare autentico che sollecita, stimolando, l’affermazione della diversità dei punti di vista che ineriscono non figurativamente, ma dialetticamente, alla istituzione esplicativa dei relativi orizzonti estesi con cui ogni singolo autore ed interprete è chiamato problematicamente a individuarli nella loro legittima estensione. È opportuno, a questo punto, introdurre il parere di un autorevole studioso di problemi non del tutto filosofici, ma squisitamente pedagogici, per avere questi insegnato la Storia della Pedagogia all’Università di Salerno, il prof. Giuseppe Acone, che, affrontando la pedagogia gentiliana nel corso di un convegno di studi esplicitamente dedicato a Gentile, ebbe ad esprimersi in questo modo:

A me sembra che Gentile abbia voluto fornire la più rigorosa messa in filosofia dell’esigenza umana di pensare in termini assoluti (l’assoluto filosofico della mente pensante in atto, della riconduzione della realtà allo Spirito come atto che tutto crea pensando e nulla presuppone). Gentile fornisce la più estrema delle versioni della totalità/realtà en philosophe, della pensabilità del nesso vero/tutto, infinito/senso, unità/universalità. Di tale infinità spirituale che si autopensa e si autocrea egli dà una interpretazione in termini di educazione/autoeducazione, anzi di autoeducazione infinita, con l’iniziale maiuscola.7  

L’atto puro, così, risulta dispiegato in tutta la sua autorevolezza come principio organico di tutto il fare spirituale, meccanicamente predisposto a salvaguardare la libertà di coloro che pensano e ritengono di essere liberi conseguentemente, diversamente da Croce che ha, invece, enunciato il principio essenziale della libertà come fondamento del pensare e di tutti quelli che pensano, in quanto non potranno, cioè, pensare se non risultano né risulteranno liberi da ogni astratto determinismo metafisico. Questo è – beninteso – il pensare meccanico che si predispone ad essere libero, ma non fa liberi i suoi proseliti che si penano di pensare ogni cosa pur di sottolineare la condizione fondamentale di costituirsi come esseri liberi e poter conformarsi, così, ad un principio alto o supremo che è guida sicura, ma non garanzia certa di poter assicurare ad essi la libertà onde ritornare a pensare, in quanto puro ripensare, ciò che il pensare nella condizione perenne di libertà è in grado di fare sempre proseliti capaci di estendere gli orizzonti culturali implicanti stimoli sempre nuovi. È questo altresì un ritorno perpetuo e vivente alla antica libertà kantiana, che è, poi, sempre la medesima vivente ed operante nella storia universale umana in cui gli spiriti liberi si riconoscono ed osano sfidare il mondo per affermare la propria coesistenza e per respingere ancora una volta la convinzione dei soggetti cosmico-storici dominati hegelianamente dalla convinzione assoluta di essere i depositari ultimi dell’idea come definitiva esposizione della storia universale umana.

 

 

Note con rimando automatico al testo

1 B. Croce, G. Gentile, Carteggio (1896-1900), a cura di C. Cassani e C. Castellani, Introduzione di G. Sasso, Torino, Aragno, 2014. Per suggellare la verace amicizia instaurata da Croce con Gentile, colpito originariamente dalle eccezionali disposizioni al filosofare di quest’ultimo, e non ancora – si badi bene – alla filosofia intesa come storicizzazione assoluta del filosofare, Sasso scrive, osservando puntualmente nelle pagine introduttive del presente volume: «A sua volta da quale attitudine gentiliana Croce fu colpito? Che cosa lo indusse a entrare in un rapporto che di giorno in giorno, si rendeva più stretto e coinvolgente con quel promettente studente siciliano, che stava completando a Pisa i suoi studi universitari? Se la risposta a questa domanda la si ricerca nelle pagine nelle quali Croce se la pose e la formulò, e altro non si chiede, si troverà che in Gentile egli aveva apprezzato non solo l’ingegno e l’attitudine filosofica, ma anche la serietà della vita, la dedizione al dovere, la laboriosità coltivata in mezzo alle tante difficoltà che l’esistenza opponeva alla regolarità del suo ritmo, la limpidezza dell’amicizia: proprio le qualità che, dopo averlo persuaso a stringere con lui un impegno comune di tanta importanza, a un certo punto ai suoi occhi vennero meno provocando la sua amara delusione» (p. XIX). Nella Introduzione alle Lettere di Benedetto Croce del 1981 Sasso coglieva, precisandolo adeguatamente, il contrasto di Gentile con Croce, che risultava completamente diverso rispetto ai criteri individuati per lo svolgimento dello Spirito della storia filosofica che in Gentile diveniva filosofia assoluta dello Spirito dell’atto puro che si fa sempre atto in quanto suo fatto apoditticamente ad esso collegato, mentre Croce ribadiva con fede assoluta la teoria delle distinzioni in quanto momenti ideali e distinti dello Spirito che è arte, religione ed infine filosofia nella sua assolutezza, per sciogliersi, così di nuovo, e ricominciare il processo circolare dialetticamente, e non apoditticamente, oltreché dicotomicamente come è stato condotto dall’amico-avversario nella disputa nella quale l’elemento mistico dell’attivismo filosofico è stato descritto e conclamato nella sua perenne universalità storica. Nel precisare ancora meglio il ruolo di tale attivismo, Sasso rivendica a Gentile la matrice spaventiana della mentalità intesa come atto del pensare che diviene il pensato, tanto che vale la pena di sottolineare ciò che la mente può pensare e ciò che può per sempre liberamente pensare, in quanto puro fatto pensato, dipendente unicamente dal pensare che va oltre questo; tanto che il divenire non è adeguatamente qualificato come il cominciare che cessa, così come sottolinea Spaventa, ovvero ciò che non si può qualificare neppure come non-essere, non essendo neppure cominciato ad essere. Il pensare è, così, privato del suo divenire in quanto esso è un non-essere abnorme, essendo ridotto al nulla, così quello sta mirabilmente contenuto dentro di sé e non è in grado di trascendersi, ed in quanto ermeneuticamente considerato, va oltre il proprio orizzonte ed individua il divenite che è e rimane sempre col suo essere che il pensare non esaurisce mai nel poterlo pensare. «Così il Divenire stesso è il cominciare che cessa – scrive Spaventa –, e il cessare che comincia; il nascere che perisce, e il perire che nasce (di distinguersi che si estingue, e l’estinguersi che si distingue). Eterno perire, eterno nascere». Cfr. B. Spaventa, Le prime categorie della Logica di Hegel, in «Atti della Reale Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli», 1863 p. 135. Nella prima edizione delle Lettere di Benedetto Croce a Giovanni Gentile del 1981, Sasso così riassumeva il contrasto tra i due Autori, che degenerò in un momento particolare della loro amicizia, segnata dalla proficua collaborazione di Gentile a «La Critica» di Croce sin dal 1903, collaborazione che ora si dissolveva poiché Gentile, con una dedica speciale a Croce, presentava il volume Teoria generale dello Spirito come Atto Puro, il quale capovolgeva il ruolo della comprensione della dialettica hegeliana, individuando nella dottrina dell’atto la capacità autogenetica di rigenerarsi non più nello spazio e nel tempo, empiricamente ritenuti, ed idealmente concepiti, come forme di generatrici dello Spirito, ma come sua prosecuzione eterna in cui l’atto si fa sempre atto, fatto esaustivamente predicato. Scrive Sasso: «Il contrasto filosofico che, come si è detto, era fin dall’inizio implicito o non tanto nella divergenza delle “tesi specifiche, quanto piuttosto nel diverso atteggiamento assunti nei confronti della filosofia”, non poteva d’altra parte, e proprio per questo, rimanere a lungo nascosto. È la qualità stessa di quella amicizia, che viveva di consensi profondi, senza dubbio, ma anche di contrasti, e insomma (come Gentile scriverà il 1916, dedicando a Croce la Teoria generale dello spirito come atto puro) era una concordia discorde e non poteva non accadere che, anche nel Carteggio, i due filosofi amici si affrontassero in aperte dispute». Cfr. G. Sasso, Introduzione, in B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, Milano, Mondadori, 1981, p. XIII. E più avanti, per sottolineare ulteriormente il dissenso che si realizza soprattutto allorché si qualifica come vero ed autentico scontro dottrinario, Sasso osserva ancora: «Ma, come del resto sulle questioni dell’estetica, la disputa sul marxismo non incise in profondità; e l’occasione che, viceversa, condusse i due filosofi a misurare l’entità del dissidio che, al di sotto della concordia, si era venuto formando, fu costituita, nel 1907, dalla questione dell’unità o della distinzione, tra la filosofia della storia della filosofia che, in un saggio dedicato a Windelband, Gentile aveva con decisione risolta nel senso dell’unità». Ibid.

2 Cfr. B. Spaventa, Le prime Categorie della Logica di Hegel, cit., p. 154. Rispetto al ripensare come atto, egli scrive, infatti: «fare così che io possa dire: penso l’Essere; ma poi devo lasciar stare il pensare, e lasciar fare all’Essere. Che questo sia il pensare puro: questo beato ozio, questo dolce far niente». Ibid.

3 G. Gentile, Pensieri sull’insegnamento della Filosofia e Lettere Inedite di Bertrando Spaventa, in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», 1925, p. 94.

4 B. Spaventa, Le prime Categorie della Logica di Hegel, cit., p. 141.

5 B. Croce, G. Gentile, Carteggio, cit., p. 156 (lett. 71). A proposito della lezione sull’orientamento individuato in Kant come esplicazione della teoria degli orizzonti, si vedano le lezioni di Logica, nella quale egli esplica la teoria del punto di vista soggettivo o della soggettività del conoscere intesa come capacità di determinare l’orientamento o di orientarsi nel pensare. Cfr. I. Kant, Logica, a cura di Leonardo Amoroso, Bari, Laterza, 1984, p. 35 (VI): «Per quanto concerne poi in particolare l’orizzonte determinato teoreticamente o logicamente (e di questo solo possiamo qui occuparci), esso può venire considerato o da un punto di vista oggettivo o da un punto di vista soggettivo. In rapporto agli oggetti, l’orizzonte è o storico o razionale. Il primo è assai più ampio del secondo, anzi è incommensurabilmente grande, perché la nostra conoscenza storica non ha limiti. L’orizzonte razionale, invece, può essere fissato, cioè è per es. possibile determinare a quale specie di oggetti non può venire estesa la conoscenza matematica».

6 B. Croce, G. Gentile, Carteggio, cit., p. 171 (lett. 78).

7 G. Acone, Filosofia gentiliana. Tendenze della filosofia dell’educazione dell’Italia del dopoguerra e  alcune interpretazioni di R. Mazzetti, in Giovanni Gentile, 1° Convegno Internazionale di Studi: Giovanni Gentile e la pedagogia come scienza filosofica, (organizzato dall’A.S.S.I. in occasione del cinquantesimo anniversario della morte del filosofo a Montecatini Terme, Pistoia), Roma, BMW italiana, 1994, p. 124. «Questa infinita autocreazione dello spirito è il fondamento del nesso vita-morte; è il nesso del rapporto tra educazione come universalità dello spirito che si autocrea ed educazione dell’individuo che muore (e rivive solo nell’universalità infinita e immortale dello spirito). Apparentemente, il problema di Gentile è la vita; in realtà è la morte che campeggia come sottofondo del suo pensiero». Ivi, pp. 124-125. Le osservazioni di Acone costituiscono, così, una valutazione più adeguata e comprensibile dell’individuo che, anche dal punto di vista pedagogico, non si costituisce nella sua singolarità e nella sua normatività, di essere, cioè, l’autore del processo del divenire esplicativo dei propri peculiari interessi filosofici, in quanto proprie iniziative che per il filosofo di Castelvetrano debbono realizzarsi insieme a quelle degli altri, tali da formare un corpo unico, o l’universalità iperindividuale, solo latore riconosciuto della libertà e della infinità degli interessi non più selettivi, ma meccanicamente determinanti l’universalità del processo dialettico. Nel rileggere, infatti, le osservazioni che Gentile muove, in chiara e netta antitesi con Croce, relativamente al problema filosofico come necessità esatta della sua esplicazione, nonché del tentativo di configurare il diritto singolo degli autori e dei loro interpreti, notiamo quanto egli scrive a tal proposito, nel riaffermare ancora una volta la teoria dell’atto puro: «In questo pensiero c’è tuttavia il soggetto pensante, e c’è l’oggetto: chi pensa e ciò che esso pensa: due termini che, posti come sono dal pensiero, cioè dalla loro relazione, l’uno di fronte all’altro, sono perciò contrari, e pur legati tra loro inscindibilmente da formare una unità assoluta. E così. Pensiero, in cui il soggetto si realizza, e realizza la sua libertà, porta in se stesso la sua flagrante contraddizione. Io sono pensando, e io pensando sono libero. Ma io penso pensando l’oggetto che contrappongo a me stesso”. Cfr. G. Gentile, Discorsi di Religione, terza edizione riveduta, Firenze, Sansoni, 1934 (Collana scolastica di Testi filosofici fondata da Giovanni Gentile), p. 35. Sui rapporti tra Croce e Gentile, segnaliamo ed inoltre ricordiamo il significativo lavoro del nostro antico maestro, da un ventennio e più ormai scomparso, il Prof. Raffaello Franchini, intitolato Per la Storia dei Rapporti Croce-Gentile, nel quale, affrontando più appropriatamente il rapporto tra storia e filosofia concepita secondo il concetto di unità, così scrive: «La storicità crociana era un capovolgimento della visione hegeliana nella misura in cui questa poteva dirsi soltanto allineata con la tradizione speculativa; l’attualismo era panfilosofismo e insieme (come filosofia totalizzante) irrazionalismo. Che la sistemazione dovesse sostituire il sistema non andava giù al Gentile: nella definizione crociana della filosofia come “sistemazione provvisoria” vedeva una insanabile contraddizione in termini e così nelle altre celebri definizioni crociane come “metodologia della storia”, “unità di storia e filosofia”, delle quali non percepiva la coerenza dialettica e antimetafisica». R. Franchini, Per la Storia dei Rapporti Croce-Gentile, in Scritti in Onore diNicola Petruzzellis, Università degli Studi di Napoli, Facoltà di Lettere e Filosofia, Napoli, Giannini, 1981, p. 124.