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NUMERO  7 - 2020
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Alberto Simonetti, Il penultimo del pensiero

 

 

Alberto Simonetti

Il penultimo del pensiero.
Gilles Deleuze storico della filosofia

 

 

Mimesis, Milano-Udine, 2019

314 p., EAN: 9788857552736, € 24

 

 

 

 

 

 

 

 

 

All'inizio del 2019 è stato pubblicato presso Mimesis l'ultimo lavoro di Alberto Simonetti, Il penultimo del pensiero. Gilles Deleuze storico della filosofia. Si tratta di un'opera il cui intento principale è, come recita il sottotitolo, ripercorrere le tappe del percorso storiografico avviato da Deleuze: ogni capitolo è quindi rivolto all'analisi di una monografia che Deleuze ha dedicato a uno dei classici del pensiero occidentale, da Hume a Foucault. Se l'oggetto dello studio ci pare di assoluto interesse (e, nonostante l'imponente quantità di bibliografia sull'opera di Deleuze, i suoi lavori di carattere storico risultano apparentemente relativamente poco affrontati a livello monografico) non abbiamo potuto non constatare alcuni problemi strutturali che il volume di Simonetti sembra mostrare, e che sarà nostro obiettivo cercare di esplicitare in queste pagine.

Innanzitutto, Simonetti non pare mettere sufficientemente in luce le distorsioni consapevoli apportate da Deleuze nella lettura dei classici. Deleuze ha parlato almeno in una occasione del suo divertirsi a far partorire figli bastardi alla storia della filosofia; di come l'importante fosse mantenere le esatte parole del filosofo di turno – le parole, quelle dovevano essere sue – ma per stravolgerne totalmente il senso, snaturarlo, «arrivare alle spalle di un autore e fargli fare un figlio»1, incurvare la sua parola alla traiettoria deleuziana. Come vedremo, Simonetti sembra invece spingersi a ricercare, a volte, una certo carattere di obiettività storiografica in Deleuze. Bisogna intendersi: se per obiettività si vuol significare il riprendere la lettera del testo studiato allora, come appena detto, non vi è alcun problema; ma se vogliamo un Deleuze raffinato storiografo della filosofia, in grado di portare alla luce un senso più cogente, corretto (originario?) e nascosto nel pensiero dei classici della filosofia da lui affrontati, non possiamo che trovarci in disaccordo. Deleuze era certamente un raffinato pensatore, ma lo era innanzitutto a livello filosofico, e non storico – né aveva alcuna pretesa contraria. Non che le cose non possano andare di pari passo; ma la metodologia deleuziana non era interessata a una corretta, precisa, “veritieria” ricostruzione del pensiero altrui, quanto piuttosto alla delineazione e alla creazione dei propri concetti, anche utilizzando, trasfigurandole, le parole di filosofi classici. Simonetti si preoccupa piuttosto di mettere in luce quanto lo stesso Deleuze espone nelle sue diverse monografie: ovvero quanto c'è, in ogni opera, del pensiero deleuziano più originale. Ma riteniamo che non sia mostrata sufficientemente, nell'esposizione della storia filosofica in (e di) Deleuze, la consapevole maliziosità e capziosità messa in gioco dal filosofo parigino, se non rare volte e sempre piuttosto fuggevolmente.

Si ha come l'impressione che, talvolta, la storia impostata da Simonetti su Deleuze storico della filosofia assuma i caratteri di quelle tipologie storiografiche da Nietzsche denunciate come insufficienti: storia monumentale, storia antiquaria. Il linguaggio di Simonetti è spesso al limite del mimetico con il pensiero deleuziano – il che forse in una certa misura è inevitabile, e non necessariamente negativo. Ma quando il fare storia, invece che impegnarsi in un approfondimento critico, diventa una semplice riproposizione (Ripetizione del Medesimo quasi asettica) della filosofia di turno, non possono che emergere alcune problematicità. Proprio in apertura dello studio vengono citate le due categorie nietzschane, riprese anche da Deleuze, da cui sarebbe bene cercare di tenersi alla larga nel fare storia: «se la storia rimane invischiata in una lettura monumentale scade in rassegna amorfa, statistica e, nel contempo, se si fossilizza in codici inamovibili, si musealizza, non possiamo che definirla antiquaria» (p. 10). Il volume di Simonetti ci sembra non essere del tutto esente da questi difetti, connaturati a uno sforzo di imitazione che rischia di cadere in un fare storia al contempo monumentale e antiquaria: una fossilizzazione di codici di lettura che si traducono in rassegna amorfa e statica – anche sotto il segno della molteplicità, del divenire, dell'immanenza. Deleuze, nel corso della sua carriera di filosofo, ha saputo intrecciare e sviluppare un «approccio critico» (ivi.) alla storiografia classica, nel dialogo con gli autori classici del pensiero di volta in volta incontrati; ma è proprio questa criticità che sembra non essere messa sufficientemente in luce nel lavoro di Simonetti. Esemplificativa, a questo proposito, la totale assenza di riferimento a quel testo celeberrimo di metodologia deleuziana, già richiamato all'inizio, ovvero quelle pagine di Lettera a un critico severo in cui il filosofo parigino racconta di come per lui fare storia della filosofia abbia significato per lungo tempo «concepire la storia della filosofia come una specie di inculata o, che poi è lo stesso, di immacolata concezione. Mi immaginavo di arrivare alle spalle di un autore e fargli fare un figlio, che fosse suo e tuttavia fosse mostruoso. Che fosse davvero suo, era importantissimo, perché occorreva che l'autore dicesse effettivamente tutto ciò che gli facevo dire. Altrettanto necessario era però che il figlio fosse mostruoso, perché occorreva passare attraverso ogni tipo di decentramenti, slittamenti, rotture, emissioni segrete che mi hanno procurato non poco piacere»2. Paolo Godani, nel suo volume dedicato a Deleuze – e più volte richiamato da Simonetti – nota come nelle pagine del filosofo parigino si possa trovare una quadruplice referenzialità (critica e storica): «Nelle opere di Deleuze – che in effetti non ha mai smesso di inserire nei suoi libri interi brani di commento a testi e autori della tradizione – i “resoconti” storici della filosofia giocano un ruolo preciso […]. Il testo antico viene ripetuto e riprodotto in maniera tale che il suo inserimento nel testo attuale fa della ripetizione una differenza; viceversa, il testo attuale, che sta procedendo per conto proprio, si ripete nella stessa ripetizione del testo antico, si ridice con le parole del testo antico, ripetendosi e differenziandosi così in se stesso. Il risultato è quello di un duplice raddoppiamento (quello del testo antico nella sua ripetizione, quello del testo attuale nella sua riformulazione nei termini dell'antico) che dà infine luogo a quattro termini: il testo antico, la sua rilettura, il testo attuale, la sua riproposizione nella ripetizione del testo antico»3.

La mancata chiarificazione di questi assunti, centrali nella definizione della metodologia storica deleuziana, in nome di un generico richiamo alla creatività euristica di Deleuze, segna in parte l'opera di Simonetti. Forse sarebbe stato di maggiore interesse cercare di mostrare come e in cosa Deleuze curvasse, torcesse il pensiero del classico di turno, sino ad arrivare a fargli dire quel che lui voleva (pensiamo ad esempio al Leibniz dall'universo monadico senza Dio o armonia prestabilita). Ma anche di come, altre volte, lo sguardo deleuziano abbia permesso di andare al di là della lettera e della lettura classica, aprendo nuovi, rigorosi percorsi di indagine – il Foucault deleuziano ed il giudizio su di esso espresso da Fréderic Gros una volta pubblicati gli inediti foucaultiani: da mera finzione metafisica deleuziana a scapito di Foucault, a meravigliata constatazione di una sorta di indiscernibilità di formulazione tra i due autori, tanto Deleuze si era avvicinato al nucleo di pensiero dell'ultimo Foucault. Secondo quanto scrive, Simonetti si prefigge di perseguire una lettura «sintomale» dell'opera di Deleuze storico; ma lo fa, spesso, senza focalizzare appieno il lavoro deleuziano di storico «perverso». Così, per esempio, una volta stabilito che del kantismo Deleuze approva l'istanza critica ma non il risultato dogmatico (Soggetto e Tribunale), quel che ci viene raccontato del volume La filosofia critica di Kant (uscito nel 1963) è esclusivamente il Kant oramai piegato alle finalità di Deleuze, un Kant “in combutta” con l'empirismo – già a suo tempo trasfigurato – humeano, da cui si innerveranno le principali tesi dell'empirismo trascendentale di Deleuze. Risulta quindi difficile concordare con Simometti, quando parla del «rigoroso approccio con in classici» tenuto da Deleuze, il quale adempirebbe in questo modo «all'oggettività storiografica» (p. 274) accordatagli; ci sembra anzi che l'oggettività storiografica costituisca esattamente l'impostazione contraria per ogni corretta comprensione del lavoro di scavo e ribaltamento deleuziano della storia della filosofia. La letteralità del classico rimane, il senso del testo ne viene però stravolto. Tanto più se, come riconosce Simonetti, la cifra della filosofia deleuziana potrebbe comprendersi in una commistione di realismo e costruttivismo: come è detto ne La piega (lo studio di Deleuze su Leibniz), il mondo è per la monade, ma solo perché la monade è per il mondo. Non resta alcuno spazio per l'oggettivismo storiografico, o per poli di creazione e costituzione, poiché l'uno è l'altro, inestricabilmente. A Deleuze non interessa l'obiettività perché costituzione del problema e creazione del concetto sono un unico e medesimo processo. Non è importante quel che il filosofo analizzato dice, ma come funziona e come può funzionare per noi. Molto più proficuo, insomma, sarebbe stato mostrare come Deleuze induca ogni classico che incontra e a cui dedica una monografia (anche Foucault, in una certa misura) a una torsione del pensiero sino a portarlo letteralmente – e questo è importante – a fargli dire quel che lui voleva. Nell'Introduzione Simonetti specifica come, occuparsi di un autore classico faccia di Deleuze «colui che sfugge allo scontato implicito»; perciò «nell'esplicare i temi di quell'autore leggiamo la sua [di Deleuze] filosofia […]. [In questo risiede] ciò che potremmo definire metodo molecolare» (p. 16). Ma di questo stesso metodo manca una precisa puntualizzazione, e quel che ricaviamo dalle pagine del volume di Simonetti è essenzialmente quella già ricordata lettura mimeticamente “deleuziana” della storia della filosofia di Deleuze.

Per di più, e abbiamo già accennato anche questo, Simonetti sembra qualche volta condurre l'esposizione in un linguaggio sin troppo simile a quello deleuziano (cadendo nella trappola della storia antiquaria insomma). Ad esempio, nel capitolo dedicato all'incontro con Nietzsche, e alle due monografie (del 1961 e del 1965) su di lui pubblicate da Deleuze, troviamo frasi come «Anarchia incoronata. La filosofia deleuziana è incisa profondamente da questi frangenti concettuali e, non a caso, la preparazione della macchina da guerra (soggettivazione libera e creativa) passa per il rizoma (avulso da filogenesi, ramo troncato) e per il nomadismo (dinamismo intensivo)» (p. 174). Ovvero, il testo di Simonetti è intersecato da lunghi passaggi che non solo, ci sembra, non aiutano particolarmente la comprensione della storia della filosofia di Deleuze (in questo caso dell'asse Nietzsche-Deleuze), ma anzi la ripropongo in una vulgata di -ismi e parole-slogan (un po' come tende a fare, riteniamo, anche il postumanesimo) che potrebbero risultare fuorvianti. Simonetti stesso ha d'altra parte giustamente sostenuto come «l'architettura del pensiero scopre, con Deleuze, la futilità e la vanità puerile di coloro che pretendono di assolutizzarlo [il pensiero] sotto varie egide (anima, Dio, trascendentale, Stato, Essere), riconducendolo in gabbie che del ruolo spodestante e liberante del pensiero non hanno niente» (p. 60).4 Il volume di Simonetti sembra quasi porsi, invece, nel solco di quelle monografie impegnate a intonare un unico (e sempre uguale) canto della filosofia deleuziana, nei – e coi – termini proposti dallo stesso Deleuze. Insomma, spesso nella lettura del testo si ha come l'impressione che venga ridotto «lo spessore pensante a modello citazionistico da senso comune» (p. 286).

Anche la divisione del volume in due parti non ci è del tutto precipua: nella prima, intitolata La bottega del filosofo, sono raccolte le monografie su Hume, Kant, Bergson e Spinoza; la seconda, che va sotto il nome di L'officina del filosofo racchiude i lavori deleuziani dedicati a Nietzsche, Leibniz e Foucault, oltre al capitolo conclusivo, di carattere generale (e in cui si trovano alcune belle pagine in cui Simonetti delucida l'impossibilità di ogni raccordo tra una filosofia organicistica e finalistica, come quella hegeliana, e quella di Deleuze ). Nella prima sezione del libro sono compresi, dunque, i due autori da cui Deleuze prenderebbe le mosse per definire il proprio empirismo trascendentale (Hume e Kant), nonché quei filosofi che ne comporrebbero più profondamente l'ontologia (Bergson e Spinoza), sostanzialmente seguendo le proposte di Hardt, il quale nella sua opera (più volte citata da Simonetti) Deleuze. Un apprendistato in filosofia avvalora questa tesi precisando come sia però Spinoza la vera cartina di tornasole, il più profondo intercessore dell'ontologia deleuziana; nell'altra sezione verrebbero annoverati quei filosofi con cui – e attraverso cui – Deleuze ha, in un certo senso, creato, prodotto il nuovo, dialogato con il Fuori dei loro pensieri per portarne a genesi uno inedito. Scrive Simonetti nelle sue conclusioni: «Una bottega ed un'officina. L'apprendistato e i suoi mezzi, il montaggio metodologico lungo un lavorio di anni e anni, riemergente anche nel taglio più strettamente originale del pensiero di Deleuze; la fucina del pensiero che si costruisce, si costituisce senza mai compiersi, che prova concatenamenti tra “due reami”, lo scalpello della filosofia che plasma e interpreta» (pp. 290-291). Ma proprio in ragione della metodologia storica deleuziana più volte richiamata in queste pagine ci permettiamo di mettere in dubbio la validità di una simile distinzione. Quando nasce l'officina e quando la bottega? E come differenziarle? Se, con le parole di Simonetti volessimo definire la bottega del filosofo come «un vero e proprio laboratorio a vari regimi di produzione, a molteplici gradienti di intensità laddove costituzione del problema e creazione concettuale pertengono ad un'azione sostanzialmente unitaria» (p.18), che spazio resterebbe all'officina? In cosa la monografia su Bergson si distinguerebbe, metodologicamente, a quella dedicata a Foucault? Secondo Simonetti la differenza starebbe nel fatto che «“Pensare” è sempre un'operazione a cui si perviene (ricordiamo Foucault) e, per tale motivo, la “bottega” diviene “officina”, ovvero una fucina di sperimentazione sul materiale già levigato del passato ma del quale l'euristica deleuziana ci mostra la possibilità di funzione, di nesso cogente con altri emisferi d'intelligibilità» (p. 274). Stando così le cose non vediamo perché il capitolo dedicato a Foucault – un contemporaneo già classico e purtuttavia senza spazio di possibilità per un'opera di “levigazione del passato” – sia inserito nella seconda parte del volume, mentre l'opera su Bergson (definita da Deleuze nella stessa Lettera come prova «esemplare» dell'immacolata concezione storiografica) sia compresa nella prima.

Per quanto ci riguarda, non troviamo risoluzioni valide a questi nodi problematici, né giustificazioni sufficienti per la partizione seguita dal volume, perché a questo punto anche la distinzione proposta da Simonetti nell'Introduzione viene a cadere: non si potranno più unire in sintesi un polo ermeneutico, di problematizzazione (costituzione) e un «polo denominato costruzione [in cui] si associa la creazione del concetto, prassi filosofica per eccellenza» (p. 19). E non lo si potrà più fare perché i due poli saranno compenetrati (immanentemente?) al di là e al di qua di ogni possibile sintesi. Non ci sono affatto due poli, insomma. Lo stesso Simonetti sembra concordare con questa visione quando nota che in Deleuze l'importante è soprattutto sapere porre le giuste domande agli autori studiati: «L'abilità critico-storiografica di Deleuze si precisa nel porre delle domande ben mirate ai filosofi che interroga» (p. 71). Ma nell'impostazione di Simonetti il porre domande giuste sembra rispondere ai criteri di un polo prettamente costitutivo – da cui probabilmente la sua idea di una certa obiettività storiografica in Deleuze –, quando secondo noi già qui, nella logica di sviluppo di una problematizzazione, sono indiscernibili quegli elementi costitutivi, di creazione del concetto deleuziano. Porre le domande giuste significa già strutturare nuovi concetti, o per lo meno cominciare a individualizzarli5. Per questo, forse, in Deleuze si può parlare di una coincidenza, che lo stesso Simonetti non esita d'altra parte a riconoscere, tra realismo e costruttivismo.

Un ultimo accenno al titolo del volume: Il penultimo del pensiero. Dalla quarta di copertina apprendiamo come l'ultima parola sia «un affare di dominio e non interessa la filosofia. Al contrario, il penultimo, come concetto e categoria filosofica, racchiude in sé i tratti della creazione, del costante divenire del pensare, in perenne farsi». Eppure dall'analisi del libro sembra quasi che le categorie deleuziane si chiudano in sé, sotto l'egida del pluralismo, dell'immanente, del piano (dei mille piani), del rizoma, certo, ma coincidenti nella figura del cerchio (il circolo del Medesimo però, il ritorno dell'uguale sempre uguale), dell'assoluto concluso e concludente, così facendo assimilando e omologando la stessa storia della filosofia sotto il segno di Deleuze. Quasi che Leibniz, Hume, Kant, Nietzsche, Spinoza, Bergson e Foucault abbiano davvero scritto e sostenuto quel che Deleuze fa loro dire. Alcune volte indubbiamente sì; molto spesso, no. Ma non ci sembra essere stato messo sufficientemente in luce questo aspetto nel lavoro di Simonetti. E non basta sostenere che la prassi storiografica di Deleuze rispetto al pensiero dei classici costituisce «la chiave di volta di questa penultimità del pensiero, un penultimo riverberato in ogni conforto o approccio che Deleuze instaura, in funzione ricompositiva o creativa, deterritorializzata o riterritorializzata» (p. 89). In questo modo ci sembra quasi come se si fosse arrivati a dare, piuttosto, la parola fine alla storia della filosofia nello stesso segno del pensiero deleuziano – l'ultimo, quindi, e non il penultimo del pensiero. Come precisava Deleuze in un passaggio del suo libro di Bergson citato da Simonetti, «il maestro “dà” e l'allievo deve trovare la soluzione. Siamo così tenuti in una specie di schiavitù, poiché la vera libertà consiste in un potere di decisione e nella possibilità di costituire i problemi stessi»6.

Il libro di Simonetti, allora, può forse essere utile non tanto per approfondire lo studio del pensiero storico-filosofico deleuziano, quanto piuttosto per dare vita a una riconsiderazione critica di quel che significa fare storia della filosofia, e ancor di più del significato e dell'importanza di una storiografia filosofica della stessa storia (e, con questa, della storia della filosofia).

 

 

Note con rimando automatico al testo

1 G. Deleuze, Lettera a un critico severo, in Pourparler, Quodlibet, Macerata, 2000, p. 14.

2 G. Deleuze, Lettera a un critico severo, cit., pp. 14-15.

3 P. Godani, Deleuze, Carocci, Roma, 2016, pp. 26-27. Godani si riferisce “ai primi lavori autonomi di Deleuze”, Differenza e ripetizione e Logica del senso, ma ci pare che il metodo descritto si adatti perfettamente anche alle sue opere di storia della filosofia.

4 Per inciso, ci pare che a questo elenco oramai si possano spesso aggiungere termini come molteplicità, nomadismo, anarchia incoronata, biopotere, postmodernismo e simili.

5 Sulla sostanziale correttezza di questo approccio, individuato da Simonetti ma subito declinato ambiguamente, cfr. per esempio D. Lapoujade, Deleuze, les mouvements aberrants, Les Éditions de Minuit, Paris, 2014, secondo il quale la principale domanda che percorre l'opera deleuziana sarebbe “Quidi iuris?”.

6 G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, Einaudi, Torino, 2001, p. 9.