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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
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Damiano Bondi, La persona e l'occidente

 


 

 

Damiano Bondi 

La persona e l’occidente

Filosofia, religione e politica in Denis de Rougemont

 
 
Milano, Mimesis, 2014
EAN 9788857520551, € 16,00

 

 

  

Il libro di Damiano Bondi non ha solo il merito di introdurre sulla scena filosofica italiana il pensiero di un filosofo, Denis de Rougemont, che finora abbiamo conosciuto e frequentato soltanto come autore de L’amore e l’occidente1.

Il volume, infatti, ci offre la possibilità di riscoprire de Rougemont come pensatore dell’idea, del progetto, di Europa, del suo fondamento religioso-filosofico, della sua costitutiva crisi, del suo destino.

Avvicinandomi al testo proprio come se lo vedessimo per la prima volta in libreria, leggo dalla quarta di copertina,

Chi si trovasse a visitare i palazzi Europei di Strasburgo, in effetti, rimarrebbe stupito di imbattersi in una statua monumentale a lui dedicata. Il filosofo della passione celebrato come Padre dell’Europa?

Ecco che allora, ad un’analisi appena più approfondita, si verrebbe a scoprire che Rougemont non solo fu l’autore di uno dei volumi più citati del Novecento, ma anche il relatore della Commissione culturale del Congresso dell’Aia nel 1948, e addirittura il presidente della prima Tavola Rotonda del Consiglio d’Europa, nel 1952.


Prendo dunque le mosse dalla concezione rougemontiana di Europa, assumendola come il faro mediante cui illuminare alcune delle numerose vie che si aprono lungo la monografia di Bondi.

Compiendo questo percorso sulle tracce dell’Europa rougemontiana incontreremo il fondamento spirituale di Europa e lo scopriremo come un fenomeno che si smarrisce sin nella sua originaria manifestazione. Esso sorge, si annuncia, in un’essenziale condizione di perdita sviluppandosi dunque lungo la sua storia ‒ lungo la Storia ‒ come continuo tentativo di recuperarsi, di darsi un definitivo slancio, impulso.

Questa condizione di perpetua erranza di Europa, del suo spirito, è metaforizzata, già annunciata, da uno dei miti di fondativi della cultura occidentale, riportato da Bondi nell’apertura del V capitolo intitolato L’Occidente, «dal Mito al Fatto». Ci si riferisce al mito di Europa, principessa asiatica (figlia di Agenore re di Tiro) rapita, e trasportata fino a Creta da Zeus, che aveva assunto sembianze di un toro, e inseguita dai fratelli partiti alla ricerca della sorella perduta.


È stata l’Europa a scoprire il mondo, mentre nessun popolo ha scoperto l’Europa. Perché l’Europa è la terra dell’insoddisfazione, dell’implacabilità, del desiderio, dell’avventura: “ampio sguardo” è il suo etimo.
Nomen omen.

I miti fondativi della cultura occidentale, difatti, portano il marchio di questa “vocazione ecumenica” dell’Europa. Figlia di Agenore re di Tiro, l’asiatica Europa fu rapita da Zeus, il quale, sotto le sembianze di un toro, la trasportò sul dorso fino a Creta, cavalcando le onde. I fratelli d’Europa partirono alla ricerca della sorella perduta: Fenice (Phoenix) si diresse verso Ovest, attraverso la Libia, giunse a Cartagine, dove dette il suo nome ai Punici, per poi tornare nella Patria natìa ribattezzandola Fenicia; Cilice divenne l’eroe eponimo della Cilicia; Fineo giunse allo stretto dei Dardanelli e in Tracia, mentre Taso (che secondo alcune versioni era nipote, e non figlio, di Agenore) attraversò Olimpia e infine si stabilì su una fertile isola a cui dette il suo nome; Cadmo, infine, decise di interrogare l’Oracolo di Delfi, che gli consigliò di abbandonare la ricerca e di seguire invece una vacca finché essa non si fosse fermata. Li avrebbe dovuto fondare una città. Così Cadmo arrivò in Beozia e fondò la città di Tebe (pp. 115-116).

 

All’origine della costituzione storico-geografica del continente europeo c’è, dunque, la perdita dell’Europa stessa, del suo fondamento spirituale. Deprivati, sin dal momento fondativo, della radice europea ‒ così come i fratelli del mito sono derubati della sorella ‒ ci costringiamo, lungo tutta la nostra storia di Europei ‒ alla ricerca dell’idea di Europa, del suo spirito essenziale. In tal modo, tratteggiamo la storia dell’Europa come ricerca d’Europa.

«Cercare l’Europa è farla!», scrive Bondi citando de Rougemont da Vingt-huit siècles d’Europe: in altri termini, continuo a citare, «è la ricerca che la crea» (p. 116).

Prima di proseguire nell’analisi dell’opera, voglio porre l’accento su questa ricerca creativa. Perché è proprio tale capacità creatrice dell’erranza, che costituisce il tratto che differenzia il de Rougemont pensatore del destino d’Europa rispetto a quel pessimismo nichilista espresso da molti profeti dell’ineluttabile dissoluzione del nucleo spirituale europeo. Lo mette in evidenza l’autore citando de Rougemont da L’opportunità cristiana2, in cui il filosofo svizzero, parlando di disfattismo europeo, si riferisce a Spengler, Toynbee, Sorel, Sartre, «fino all’utopia masochista di Orwell»3.

Ora, se, ovviamente, non possiamo non appoggiarci alla dimensione mitico-narrativa per cogliere intuitivamente l’origine ‒ storica ‒ e il destino dell’Europa, è proprio con l’interruzione della miticità che questa stessa origine coincide. E, nella proposta rougemontiana, è solo il Cristianesimo a compiere quella rottura radicale con l’universo del mito inaugurando il tempo della storia, e dunque il tempo dell’Europa.

Nel tentativo di comprendere più in profondità questo punto penso a Jan Patočka, secondo il quale l’inizio della storia, intesa come storia dell’Europa, ha ‒ si ‒ un connotato decisamente greco (infatti coincide con la configurazione delle originarie poleis ateniesi) ma riceve definitivo slancio solo dal Cristianesimo che, nel suo originario evento sacrificale, offre l’impulso decisivo alla responsabilità, principio spirituale della storia europea affiorato sul terreno greco della polis.

Dunque quello europeo è lo spazio geografico sul quale, originariamente, irrompe, mediante il movimento di responsabilità, il tempo storico. Il Cristianesimo, storicizzando definitivamente il tempo, permette all’origine della storia europea di compiere lo scatto decisivo.

Ora, perché è proprio attraverso il Cristianesimo che il tempo assume indelebili connotati storici? Perché, come sappiamo e come Damiano Bondi riassume riferendosi a un passo di L’Aventure Occidentale de l’Homme4, il Cristianesimo si incardina nella testimonianza di un fatto storico unico e irripetibile ‒ imprevedibile e irreversibile ‒ che, in quanto tale, sospende e disattiva la ciclicità dello spazio mitico aprendo la crepa da cui il tempo storico possa fuoriuscire e fluire.

In tal senso, dunque, la testimonianza cristiana innesca quel processo di trasformazione della fissità, della reversibilità del dato, dello spazio, liberando dunque il tempo storico, il tempo che è regolato dall’azione negatrice della rigidità della materia, della natura. In questa prospettiva, rimando ovviamente a Hegel, Bergson, e anche ad Alexandre Kojève.

Ora, come de Rougemont sottolinea facendo riferimento, ad un tempo, sia a Paolo che a Kierkegaard, il Cristianesimo trova il suo luogo di rivelazione nella persona: quello cristiano è Dio che si manifesta come persona di fronte ad ogni singolo, ossia si appella a ciascuno nella sua singolarità, lasciando dunque che ognuno possa affermare, rivendicare, la propria differenza, la propria specificità di singola esistenza umana.

A sua volta, pertanto, il cristiano si afferma come persona nella risposta alla chiamata di un altro che presenta una differenza irrimediabilmente irriducibile all’identità di ciascun singolo a cui quell’altro stesso si rivolge, proprio perché fa appello a tutti e a ciascuno, e dunque a nessuno che possa pretendere di assimilarlo a sé.

Il fondamento spirituale della storia d’Europa appare dunque nello spazio aperto da una relazione personale che mette faccia a faccia con la differenza abissale dell’alterità. Si tratta di un fondamento già da sempre lacerato nel suo fondo, che dunque presta il fianco ‒ sin dalla sua originaria manifestazione ‒ allo smarrimento, al tradimento.

Ora, a partire dall’origine personale dell’Europa muovo alla crisi contemporanea e dunque alla risposta personalista alla crisi stessa.

Il movimento personalista, come l’autore spiega nel secondo capitolo, sorge all’inizio degli anni trenta, pochi anni dopo la crisi del 29’ innescata dal crollo della borsa di Wall Street.

Ora, quel crollo, l’esplosione di quella crisi economica era il sintomo, l’annuncio, di ben altra catastrofe, segno di un cedimento politico-spirituale.

In altre parole, tra la fine degli anni 20’ e l’inizio dei 30’, l’Occidente piomba in una crisi di civiltà che, agli occhi di coloro che di lì a poco si definiranno personalisti, costituisce l’effetto di una deriva comune all’individualismo capitalista e al colletivismo (sia esso di natura fascista, nazista, socialista).

Dal punto di vista dei padri fondatori del personalismo ‒ Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier su tutti ‒ entrambi i sistemi riducono l’uomo alla sua struttura individuale ‒ materiale, biologica ‒ ossia compiono un movimento di dilatazione dell’individuo a svantaggio della persona (e nel compiere questo processo entrambi portano a maturazione un germe che si era insediato nell’organismo della civiltà occidentale sin dalla Modernità, dall’epoca rinascimentale). In altre parole, più semplicemente, borghesia e collettivismo chiudono l’uomo nel suo nucleo materiale, economico, espellendo, o subordinando a questo, quella cifra spirituale che invece, in quanto tale, eccede lo spessore cosale non lasciandosi da esso assorbire. Ora, affetto da questa scissione tra materialità e trascendenza spirituale, l’essere umano non riesce ad affermarsi come persona ‒ che è inscindibile intreccio tra spirito e materia ‒ realizzandosi appunto come mero individuo schiacciato sulla sua zoé, sul suo sostrato vitale-animale. Ed è in questo modo che l’uomo può essere assimilato, misurato e manipolato dalla fisica sociale, dal dispositivo statuale.

Dunque, perdendo di vista la cifra personale dell’essere umano, l’asse borghese-collettivista getta nell’oblio il nucleo spirituale di Europa, portando a compimento quella dimenticanza inaugurata dall’individualismo rinascimentale, e dunque reiterando quel rapimento che segna quel mito a cui abbiamo fatto riferimento in apertura.

Ora, la risposta che l’ambiente culturale-filosofico al cui interno cresce e si forma de Rougemont oppone a questa svalutazione della persona un pensiero e dunque una rivoluzione personalista che invita sia la speculazione filosofica, sia la vita istituzionale ad incentrarsi, appunto, sulla persona.

Mi interessa qui approfondire la concezione rougemontiana di persona, perché è muovendo da qui che possiamo comprendere fino in fondo la riflessione, e l’azione, che de Rougemont dedica all’idea, al progetto, e dunque al destino dell’Europa.

Riassumendo dal terzo capitolo Logica interna e bisogno interiore, si potrebbe dire che la persona rougemontianasi differenzia da quella di Maritain e Mounier ‒ pur mantenendo con essa un inscindibile rapporto genetico ‒ nella misura in cui porta evidenti segni dell’agonia, dell’irrisolta contraddizione kierkegaardiana. Come quella di Kierkegaard, infatti, quella di de Rougemont è persona che, esponendosi all’infinità di Dio, può realizzarsi soltanto rinunciando ad affermarsi come identità pienamente definita, ma accettando ‒ piuttosto ‒ il suo stato di ineludibile finitezza, e dunque la sua condizione di contraddizione irrisolta, direi di atto incompiuto.

Ci sono buone ragioni per affermare che la persona concepita da de Rougemont ‒ caratterizzata da una genesi teologica ‒ si dà nella vocazione. Più precisamente, si manifesta nell’atto destinato ad un fine che coincide con la risposta alla vocazione che a sua volta giunge, originariamente, dall’irriducibile differenza divina, da un altro indeterminabile, inassimilabile.

Ora, la risposta alla chiamata che giunge da un altro incalcolabile, comporta, per chi risponde, il rischio tutto ciò che c’è di più proprio, senza previa assicurazione di una ricompensa, di un ritorno. Ci si afferma come singolo, proprio perché si rischia, senza fare troppi conti, in prima persona, da soli, senza il sostegno e la possibilità di identificarsi con nessun altro (come l’uomo kafkiano che attende davanti alla porta della Legge – Davanti alla Legge).

Sollecitati dagli stimoli dell’autore propongo possiamo comprendere il rischio come il filo rosso mediante cui de Rougemont intesse il suo sistema, la categoria con cui egli tiene insieme l’elemento filosofico-religioso, e dunque teoretico, con quello politico.

Cito da pagina 138 del quinto capitolo:


I
l kairós contemporaneo si configura allora come un appello urgente a riscoprire, nel nostro essere occidentali, i caratteri essenziali, ma ancor più esistenziali e dinamici, di una Christenheit sui generis, che non consiste nel crocifiggere presunti disvalori in nome di una qualsivoglia purezza dal retrogusto manicheo, bensì piuttosto nella vocazione ad assumere personalmente le diverse antinomie che ci circondano e ci forgiano, a rischiare personalmente di venirne crocifi ssi, sorretti dalla consapevolezza fondamentale di poter resuscitare come vere persone soltanto accettando di vivere appieno la nostra avventura umana, hic et nunc (p. 138).

 

E ora dalla rischiosità che contraddistingue la relazione personale nella vocazione dobbiamo tornare nuovamente a Europa. Per farlo leggiamo ancora l’autore dal quinto capitolo:

Per comprendere e risolvere la crisi che attraversa quella che Valéry chiamava la nostra «piccola penisola dell’Asia» non si tratta più di «analizzare il senso inevitabile della Storia, ma di fare la Storia.

Dobbiamo insomma riscoprire «la vocazione dell’Europa», che risiede innanzitutto in quella ricerca drammatica e rischiosa della «com-unione» fra le opposizioni, dell’equilibrio “cruciale” (p. 128).

Continuo a citare Damiano Bondi, che legge de Rougemont da La fine del pessimismo5:


Propongo all’intellighenzia un nuovo compito: quello di creare la libertà cercandola, accettando di considerare i suoi rischi. [...] Propongo una rinnovata idea del Progresso [...] che non sarà l’accrescimento dei nostri beni, né la soluzione dei nostri mali [...], ma l’accrescimento del rischio umano?


Ora, uno dei principali punti a favore di de Rougemont sta nel fatto che non si limita a scavare nel vuoto aperto dall’oblio del fondamento filsofico-teologico dell’Europa. Il pensatore svizzero piuttosto è uno di quei pochissimi, rari, filosofi in cui pensiero e azione, teoresi e prassi si fondono. Infatti, pur errando anch’egli alla ricerca di Europa rapita, ha agito concretamente per fare, costruire l’Europa.

Come abbiamo anticipato in apertura, de Rougemont è stato, seppur in molti (compreso chi scrive) lo avevano dimenticato, uno dei Padri dell’Unione Europea. Non fu solo relatore della Commissione culturale del Congresso dell’Aia nel 1948, e presidente della prima Tavola Rotonda del Consiglio d’Europa, nel 1952, ma prima ancora, nel 1946, sedette al tavolo dell’Unione dei federalisti europei.

Ora, quale idea d’Europa, e dunque quale Europa, all’alba della costituzione dell’Unione Europea de Rougemont iniziò a profilare, a plasmare? Quale assetto politico-istituzionale egli comincia a tracciare?

Ora, se ‒ come sostiene Damiano Bondi ‒ quello rougemontiano è un pensiero unitario, sistematico, possiamo rispondere alle questioni appena poste solo ripartendo dal luogo in cui il nucleo spirituale di Europa si manifesta, quello della relazione personale. Dobbiamo ripartire dalla persona.

A conferma della coerenza interna al suo pensiero de Rougemont immagina un assetto politico-istituzionale che incarni la rischiosità della risposta della persona rispetto alla vocazione, che dia corpo al rischio intrapreso dalla persona nel gesto di responsabilità per l’altro. In altre parole, la struttura istituzionale dell’Europa a venire avrebbe dovuto, agli occhi di de Rougemont, attualizzare quell’esercizio personale del rischio che rende possibile la singolarità e la libertà.

Si potrebbe dire che secondo il progetto di de Rougemont l’Europa avrebbe dovuto coltivare, tenere vivo un certo residuo di aneconomicità che desse all’uomo europeo quella capacità di interrompere, in modo intermittente, la ciclicità, la reversibilità della relazione economica per esporsi ogni volta di nuovo alla rischiosa esposizione all’orizzonte di specificità, differenze, eccedenze che costituiscono e nutrono l’anima della stessa Europa.

Ora, l’unica forma di governo in grado, secondo de Rougemont, di consegnare struttura e contenuto politici al concetto di vocazione, e dunque alla sua essenziale rischiosità, è il federalismo, concepito non come federazione di stati, bensì di regioni. Infatti, soltanto configurandosi come unione di autonomie la Federazione Europea avrebbe potuto salvaguardare e favorire la polifonia caratterizzante la storia e la cultura europee, tutelando quella differenza innanzi a cui l’individuo può trascendersi, riconoscendosi come persona.

Rougemont dubitava che si potesse raggiungere questo traguardo muovendo dalla sola unione economica del continente europeo: considerava la preminenza assegnata all’interesse economico-fiscale un mero riflusso di dottrine prima borghesi poi marxiste, e rivendicava invece il primato della cultura occidentale.

Sappiamo, tuttavia, com’è andata, e come va, la storia. Scrive infatti Bondi «la linea rougemontiana, storicamente, si è rivelata perdente: l’Europa degli Stati ha prevalso sull’Europa federata, e l’Unione economica è stata anteposta a quella culturale» (p. 77).

Cito ancora l’autore che cita de Rougemont da Libertà, Responsabilità, Amore6:


Lo stesso Monnet era «il classico esempio di uno che voleva creare l’Europa sull’economia», e che quando parlava con lui lo guardava «con un sorrisetto di condiscendenza, come se dicesse “ci sono dei tipi strambi che si occupano di cose come la cultura» (p.77).

 

L’Unione Europea si è edificata su fondamenta economiche. L’Unione che abitiamo oggi risulta dall’evoluzione di comunità ‒ CECA, CEE ‒ il cui tratto preponderante è quello economico.

Ora, è vero che il Trattato di Lisbona (13 dicembre 2007), da all’Unione una tonalità più politica, dando più vigore al principio democratico e alla tutela dei diritti fondamentali.

È vero altresì che proprio tra il 2007 e il 2008 ‒ quindi quasi (destinalmente) in coincidenza con il Trattato di Lisbona ‒ la diffusione della crisi dei mutui subprime dagli Stati Uniti all’Europa ha innescato quello che da molte voci oggi viene definito come processo di subordinazione della democrazia europea al potere, e alla debolezza, dei mercati finanziari. L’Europa giace, dunque, in uno stato di finanzializzazione e di potenziale dissoluzione delle politiche democratiche.

Da una crisi all’altra: da quella del 29’ a quella del 2008. Si tratta di due crolli dell’economia tecnicamente differenti. Entrambi però aprono, o illuminano, uno scenario in cui la relazione economico-individuale (e individualistica) prevale su quella personale.

L’Unione odierna affetta dalla crisi è una comunità regolata da rapporti prevalentemente fiscali, in cui il rischio è sempre calcolato, previsto, programmato.

Alla luce del precedente riferimento a Monnet e considerato il preminente carattere di economicità degli originari pilastri dell’Europa, si potrebbe allora concludere che la fase storica che attualmente viviamo non è, in realtà, dominata da uno sconvolgimento dell’Unione, dall’incombente minaccia di fallimento del progetto e del sogno originario. Piuttosto, è come se stessimo assistendo all’attualizzazione del piano iniziale, del progetto che ha avuto la meglio rispetto a quello federalista di de Rougemont: stiamo assistendo alla realizzazione di quello schiacciamento dell’Europa sull’economico avviato già dai progenitori dell’Unione.

Prendo la via della conclusione lasciando aperta una questione che rivolgo all’autore e ai lettori de La persona e l’occidente.

Nella situazione odierna sono in molti a denunciare e fotografare gli errori, le colpe dell’Europa, pensatori, politologi, artisti, esponenti politici, vecchi ed emergenti.

Ma quanti e quali sono in grado di cogliere nel rischio a cui invita de Rougemont la possibilità per tentare un vero cambio di prospettiva?

 

 

Note

1 D. de Rougemont, L’Amour et l’occident, Plon, Paris 1939; tr. it. l’Amore e l’Occidente, Bur, Milano 2006 (RCS 1977).

2 D. de Rougemont, The Christian Opportunity, Holt, Rinehart and Wiston, New York, 1963, tr. it. L’opportunità cristiana, Paoline, Alba, 1966.

3 Qui l’autore cita D. de Rougemont, L’opportunità cristiana, cit., p. 223.

4 D. de Rougemont, L’Aventure Occidentale de l’Homme, L’Age de l’Homme, Lausanne, 2002 (Albin Michel, Paris, 1957).

5 D. de Rougemont, La fine del pessimismo, in S. Locatelli, G. Huen de Florentiis, Denis de Rougemont. La vita e il pensiero, Ferro Edizioni, Milano 1965, p. 175.

6 D. de Rougemont, Libertà, responsabilità, amore, Edizioni Casagrande Bellinzona - Jaca Book, Bellinzona 1990.