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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
Gabriella Baptist,
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La guerra secondo Francisco Goya
di A. Bonavoglia
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Anna Romani, Il riflesso della finzione

 

 

 

Anna Romani 
(a cura di)

 

Il riflesso della finzione.

Saggi su filosofia e letteratura tra Settecento e Novecento

con un’introduzione di Elio Franzini e
Alfonso Maurizio Iacono

 

Pisa, ETS, 2015, pp. 85

ISBN 978-884674403-6, fuori commercio

Accessibile in rete in formato PDF 

 

 

 

 

 

Per tutti i saggi che compongono il piccolo volume stampato di recente per le Edizioni ETS circola l’idea che non si possa stabilire una differenza reale tra natura e artificio, tra ciò che è autentico e ciò che è contraffatto, tra realtà e immaginazione, tra il difuori per il quale si dispiega l’oggettivo e l’interiorità in cui ripiega su di sé il soggettivo. Ogni volta sono degli artisti, non delle filosofie dell’arte, ad essere interpellati dagli autori della raccolta, e ciò non sembra di importanza secondaria. Presumibilmente, è solo così che un’estetica si fa capace di cogliere il portato ontologico ed esistenziale delle pratiche della finzione, solo, cioè, trovando le ragioni per ridisegnare l’oggetto della propria disciplina, l’arte, in coloro che lo producono, gli artisti. La facultas fingendi che si è soliti attribuire loro spinge di per sé a superare ogni mediazione tra arte e natura che in formule ibride mantenga anche solo parzialmente i due termini distinti, o che finisca col confonderli in proporzioni sbagliate. Tutto ciò che si realizza cerca l’occhio accorto che sappia scorgervi, «di sbieco», il riflesso della finzione (cfr. pp. 63-74). L’arte, come concetto, è quella specie di finzione che falsifica la natura delle cose e ci proibisce di vedere quanto esse in verità fingano.

Alle introduzioni di Elio Franzini e di Alfonso Maurizio Iacono segue il saggio di Matteo Bensi su Giambattista Vico. Bensi ci mostra come per Vico i popoli dell’epoca postdiluviana – i primi nella periodizzazione dei popoli gentili fissata nella Scienza nuova – non si siano potuti rapportare alla natura se non fronteggiandola per mezzo di creazioni espressive: linguistiche, in primo luogo, ma al contempo sottoposte ad esigenze visive, iconiche, modellate dall’immaginazione; creazioni che nella fattispecie, citando Vico, «il fecero con la fantasia per ritratti». La confusione che vigeva, all’Epoca degli dei, tra segno linguistico e idea significata ha permesso un uso del linguaggio puramente gestuale, teatrale e in un certo senso «muto», come se ogni atto di parola fosse in sé pantomimico. Questo tipo di gestualità, che non è propriamente ostensiva, quanto, per l’appunto, imitativa, o meglio ancora responsiva nei riguardi della natura, può dare alla materia verbale del linguaggio i connotati dell’immagine, trasfigurando la parola affinché possa muoversi sullo stesso piano dei corpi, in quanto finge l’aspetto figurativo della loro presenza fisica. Bensi puntualizza inoltre come le creazioni espressive di questi popoli di epoca (e di lingua) divina siano «creazioni naturali», artifici di una «mente geroglifica» che tuttora è emblema, per la poesia, di quello spazio finzionale, e non per questo innaturale, dove possono unirsi e identificarsi «materia reale» e «materia immaginata» (p. 29).

Il saggio di Matteo Marcheschi, che abbozza l’idea di un «materialismo di immaginazione» (p. 41) dallo studio di Diderot, sembra continuare, senza interromperlo, il discorso di Bensi (merito della curatrice l’averli messi in successione). A dimostrazione che di un’unica e medesima materia si compone la totalità delle cose che esistono, l’organico come l’inorganico, la carne più molle come il marmo più duro, ne Il sogno did’Alembert, il «capolavoro» scultoreo di Étienne-Maurice Falconet viene polverizzato, unito alla terra a mo’ di impasto e trasformato in sostanza nutritiva per degli ortaggi1. Il problema che si pone Marcheschi è, allora, di capire quale sia il «capolavoro» in questione. Poiché, nell’ipotesi da lui abbracciata, se fosse il Pygmalion aux pieds de sa statue ad essere distrutto, il gruppo scultoreo che riproduce in marmo l’originale in avorio di una statua mai esistita, poiché solo affabulata dalle Metamorfosi di Ovidio, nel libro decimo, dove essa si anima per i favori della dea Venere una volta scolpita e subito amata dal re Pigmalione, statua che fin dal principio è stata quindi immaginata come immaginaria; se fosse quella l’opera di Falconet ridotta in briciole da Diderot, allora l’episodio del Sogno si caricherebbe di un significato metaforico coincidente con la fine di ogni metafora – in definitiva con la fine dell’arte –, perché la distruzione di Pigmalione e della sua statua animata (che il XVIII secolo ha chiamato da un certo punto in poi Galatea) non sarebbe più solo una metafora per dire che nella pietra ci sono vita e sensibilità in egual misura che nelle piante, bensì un modo per dar prova di una natura capace di artifici e di finzioni, di rappresentazioni e di immaginazioni alla stessa stregua di una mente geniale.

Anna Romani dedica a sua volta uno scritto al mito di Pigmalione, esaminandone però lo svolgimento nell’omonimo melodramma di Rousseau. Focalizzandosi su alcuni dettagli significativi della scène lyrique, Romani traccia le linee di una dialettica del riconoscimento che Pigmalione e la sua statua sperimenterebbero nel corso della loro vicenda. La dialettica è tuttavia irrisolta, perché se Galatea riconoscerà infine se stessa, riconoscendo l’artefice che l’ha creata, Pigmalione, per parte sua, non saprà riconoscere alla statua un essere-per-sé autonomo, e potrà quindi ritrovare se stesso, in lei, solo in quanto perduto e negato. Pigmalione è avaro, rinuncia all’amor proprio per amor proprio e porta la finzione melodrammatica un passo indietro rispetto al punto in cui sarebbe potuta divenire «vera» (p. 55), ossia realizzare quell’altro genere di finzione filosofica che prende il nome di «stato di natura».

Ma sarà mai giusto dire che la filosofia finga? E se sì, in che misura? Non significa forse snaturare il buon concetto di filosofia associandolo alla finzione? Nell’opera di Paul Valéry è possibile trovare questa serie di problemi, in particolare in uno scritto del 1939, Poesia e pensiero astratto. Danilo Manca analizza attentamente questo e altri luoghi nei quali il pensiero filosofico, rappresentato dal «logico», è messo alla prova subendo il confronto con il pensiero poetico, rappresentato dal ballerino-paroliere. In un primo momento, una differenza profonda sembra dividere i due tipi di pensiero, che sono poi due modi diversi di usare il linguaggio. La poesia è per Valéry decorazione, ornamento, a dispetto della filosofia che può essere maggiormente assimilabile alla costruzione di strumenti da impiegare all’interno di «abitudini mentali». Ma Manca fa emergere poi un aspetto di ciò che la filosofia è per Valéry, per il quale la finzione risulta appartenerle in modo essenziale e intrinseco, e tale aspetto è da ritrovare proprio nel suo procedere costruttivo, geometrico, quasi ingegneristico, dove il libero gioco e il più alto rispetto delle regole si avvalorano reciprocamente fino a confondersi. L’unica necessità che la filosofia può pretendere da se stessa è la consistenza interna dei suoi costrutti fittizi. Il non averlo riconosciuto costituisce per Valéry la grande ingenuità dei filosofi di tutti i tempi.

Inquieto alla stessa maniera di Pigmalione, l’Edouard di André Gide vive l’incrinarsi di un’interiorità specchiata che dovrebbe riflettere senza macchie e sfocature un mondo esterno limpido. Fabio Fossa contribuisce al volume mostrando come per Edouard, lo scrittore protagonista de I falsari, la forma letteraria della rappresentazione artistica risulti compromessa dal progressivo approfondirsi di questa incrinatura. Guardandovi attraverso, ciò che Fossa vi scorge – con i dovuti riferimenti a Nietzsche – è l’essenza metaforica, inventiva del linguaggio. Come può un romanzo riflettere la realtà quando questa stessa realtà, sulla quale la finzione modella le rappresentazioni che inscena, è a sua volta una finzione (del pensiero, del linguaggio, della natura)? Dalla riflessione sul significato e sulla possibilità del romanzo una sola massima sembra emergere per imporsi alle nostre vite: non saremmo mai certi di aver percorso un tratto pur minimo di realtà senza esser sprofondati per intero nell’emulazione e nella finzione. In fondo, è la realtà stessa che «innesca» tutto questo (p. 98), come scrive Marta Vero commentando l’idea novalisiana di romantisieren. E varrebbe la pena di aggiungere che a tal punto non possiamo fare a meno di interpretazioni, di immagini, di simboli, di geroglifici, che sarebbe più giusto trovare la loro scaturigine in una volontà di finzione non umana: niente di realmente nostro, in esse andrebbero viste le meta-metafore di una natura creatrice.

Tornando a Marta Vero, sua tesi è che ne I fiori blu di Queneau riecheggi qualcosa del simbolismo della blaue Blume nell’Enrico di Ofterdingen, anche se la critica letteraria è restia a riconoscere un legame sicuro tra i due romanzi. In certo qual modo, è come se il viaggio iniziatico di Enrico fosse ripreso e compiuto dai personaggi di Queneau, il Duca d’Auge e Cidrolin. Difficilmente si potrebbe distinguere quanto di reale o di irreale avvenga nello spazio, diremmo onirico, che essi abitano. Fatto sta che è proprio in questa loro esistenza sognante che va riconosciuto il significato della blaue Blume. La chiave per interpretare il fiore apparso in sogno a Enrico sta, in effetti, nel sogno stesso in cui gli appare. Il punto che egli avrebbe raggiunto, al termine del suo viaggio, sarebbe coinciso con quello occupato dal Duca e da Cidrolin al di fuori del mondo e della storia. Dalla cima di quel punto, Enrico non avrebbe più distinto in alcun modo realtà e finzione.

Sarebbe interessante far interagire con il confronto delineato da Marta Vero anche i fiori di cui scrive un altro poeta, non blu, ma verosimilmente di un celestino chiaro: «i fiori artici» di Rimbaud, perché di questi fiori Rimbaud scrive, subito dopo averli evocati, che «non esistono», e lo scrive tra parentesi, includendovi un punto, «(non esistono.)» 2. Ma sui motivi di questa puntualizzazione, dai quali non può essere esclusa la dissimulazione volontaria, perché si fa fatica a credere in un’autosconfessione pura e semplice, insomma su tutto ciò che essa potrebbe essere, ci sarebbe molto da dover dire.

 

Note

1 C’è un brano di Malaparte che avrebbe fatto il caso di Marcheschi: «Da ragazzo immaginavo che le statue fossero fatte come noi, e avessero le vene gonfie di sangue. Andavo a incidere con un temperino le braccia ai putti di Donatello, per farne uscire il sangue da quella pelle morbida e bianca». C. Malaparte, Confessione, in Sangue, Firenze, Vallecchi Editore, 1995, p. 39.

2 A. Rimbaud, Illuminazioni, in Poesie e prose, Milano, Mondadori, 2009, p. 333.