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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Primavera a Tunisi. La metamorfosi della Storia

 

La metamorfosi della Storia*

 

(cfr. l'introduzione di Gabriella Baptist)

1. Di sorpresa

 È arrivato di sorpresa. Nessuno se lo aspettava.
Perché d’un tratto un popolo decide di farla finita con l’oppressione? E con la paura? È facile trovare a posteriori le ragioni che hanno portato alla fine di un regime e di un modo di essere. Proprio queste ragioni dovremo spiegare. Sono evidenti. Ma l’enigma rimane: perché la fine è arrivata in quel momento? Senza alcun preavviso, la rivoluzione tunisina si è concretizzata venerdì 14 gennaio 2011, giorno in cui gli eventi sono precipitati. Quando il tempo s’imballa, allora si condensa e crea una rottura che riorienta la storia.

 È stato così anche un’altra volta sulla scena contemporanea di cui siamo stati testimoni. Vi ricorderete del 9 novembre 1989, la notte in cui è caduto il muro che divideva Berlino est e Berlino ovest. Una certa gioventù ha sfidato la paura e disfatto la barriera che sarà sbrecciata, infranta e demolita in una notte. E i suoi frammenti sono entrati nel mercato delle reliquie alla maniera di quei pezzi che si erano detti appartenere alla Bastiglia: non hanno forse circolato di mano in mano in un’altra epoca che ha offerto agli umani un’altra data simbolica, quella del 14 luglio 1789?

 In queste date si realizza all’improvviso ciò che alla vigilia sembrava impossibile. Un sistema percepito come immutabile crolla in un lampo.

 Il 14 luglio ha ingranato il processo che ha condotto a un regicidio, atto considerevole grazie al quale un gesto umano, solamente umano, annienta una figura investita dalla legittimazione divina. La monarchia muore, la Repubblica nasce sulla ghigliottina, a partire dall’ingranaggio di quel fendente che ha tagliato una testa coronata, precipitata in una tinozza che ha raccolto il sangue sprizzato a fiotti che aveva abitato il corpo sacro del re, perpetuatosi di secolo in secolo e che ora invece perisce all’istante senza resuscitare mai più.

 Il 9 novembre ha accelerato il crollo di un impero del quale ci si accontentava, anche se se ne percepivano le incrinature. A partire da questa data nel mondo sono cambiate le carte in tavola. I rapporti di forza si sono diversamente distribuiti. Alcuni teorici hanno restaurato la fine della storia, lei che non conosce alcuna fine. Fukuyama ha avuto il torto di ricorrere a questo concetto romantico che l’umanità non cessa di malmenare e di smentire.

 Hegel aveva visto la piena realizzazione dell’umano attraverso la fase storica di uno Stato che si era supposto dovesse realizzare la quintessenza del cristianesimo e in cui si sarebbe cristallizzata la libertà del soggetto nella sua forma più perfetta. E Fukuyama conferma questo stadio supremo raggiunto dall’umano grazie alla mediazione del cristianesimo, stadio in cui la democrazia conosce il suo compimento.

 Ma queste speculazioni non conducono affatto alla verità; non si fondano che su congetture.

 Il 14 gennaio è un evento la cui virtù è di confermare che la storia non si ferma. Il desiderio di libertà e l’appello alla democrazia sono sgorgati dal cuore di un popolo dell’islam formatosi nel riferimento a un’occidentalità considerata come un’acquisizione universale di cui gode ogni umano.

 La volontà popolare si è concentrata per affrettare la caduta di un dittatore che, avendo ceduto senza resistere, illustra il vecchio adagio del colosso dai piedi di argilla che attualizza l’immagine della tigre di carta, iscritta nella nostra memoria durante una giovinezza affascinata da un altro romanticismo venuto dalla Cina.

Ritratto di A. Meddeb

 Il 14 gennaio ci rivela che libertà e democrazia non sono assimilabili esclusivamente a una genesi cristiana. E se questa ipotesi si dimostrasse vera, noi allora ricorreremmo alle categorie del sufismo, secondo le quali la scena cristica si rianima all’interno della fede islamica. Quest’ultima conserva nelle sue quinte le anteriorità dalle quali deriva. Tra queste antecedenze contiamo il gesto cristico e l’ethos che lo colora.

 Ma preferiamo ritornare a una delle idee elementari dell’epoca dei Lumi. È un’epoca più illuminata, più onesta, più universale, meno dogmatica che il sistema romantico di Hegel. I Lumi ci dicono che la libertà, che è a fondamento della democrazia, è una ricerca umana che appartiene al diritto naturale. Le cose stanno in questi termini, anche se questa ricerca può essere intralciata, se non addirittura velata da certe credenze favorite e anche stimolate da altri.

 Come le altre date qui ricordate, il 14 gennaio costituirà una rottura. Un mondo, quello nutrito spiritualmente dalla cultura araba e dall’islam, scopre la libertà, dalla quale sembrava separato per sempre. E la libertà rivendicata dal soggetto trova la sua espressione politica nel desiderio democratico.

 Con questo avvicinarsi alla libertà da parte degli arabi e della gente dell’islam si propone un rilancio della storia per questo mondo e per il mondo. Questa avrà le sue altezze e le sue depressioni, i suoi flussi e riflussi, le sue secche e i suoi abissi, i momenti di piena e di magra, gli avanzamenti e le regressioni, le intemperie e i momenti di calma. Siamo imbarcati su un vascello che sarà talvolta sballottato dalla mareggiata, talvolta cullato appena dalla bonaccia. Lo scopo è di attendere il vento favorevole per giungere a un buon porto. Ma mai più nulla sarà come prima.

 

9. L’accordo del tempo

 Il 10 gennaio ho misurato il significato e la profondità dell’evento. Ero trascinato, mi sono sentito naturalmente beneficiario dell’energia in azione. Una vera e propria esaltazione si è impadronita di me. Ho deciso di accompagnare quanto ci veniva da Tunisi e che si annunciava come grandioso. Una forza storica, come se fosse trascendente, si era messa in movimento. Noi tiravamo l’estremità del filo a partire dal quale la trama della dittatura si sarebbe sfilacciata, per poi crollare come un mucchio di gomitoli disfatti.

 Oggi mi interrogo su questo risveglio tardivo. È dovuto alla distanza dell’espatrio? È dato dal fatto che per me l’orizzonte dell’essere è il mondo nella sua vastità? L’immensità che scruto respira forse il genio dei luoghi? Sommerge il culto della terra natale? Il desiderio cosmopolitico divora forse la nozione di patria? Quanto proviene dall’origine è magari relativizzato da uno sguardo più ampio? La prospettiva compromette la preoccupazione per il dettaglio? Sarò magari vittima di quello sguardo dall’alto che spesso assumo? La mia percezione è stata deformata dalla velocità del TGV che inghiotte i paesi e ne cancella il paesaggio? A partire da quale sito locale raggiungerò il globale?

 Le tradizioni esoteriche di cui sono impregnato mi insegnano la dialettica che proietta il macrocosmo nel microcosmo: l’uno è lo specchio dell’altro. Lo stesso vale per l’accordo delle temporalità. Coloro che appartengono alla società civile di Tunisi hanno vissuto esattamente con lo stesso ritmo l’adesione al dramma che si stava svolgendo. Hamadi Bousselmi, un ex insegnante, me lo conferma: «A partire dal 10 gennaio abbiamo creduto al movimento – mi dice –; la rivoluzione tunisina si è concretizzata in quattro giorni, dal 10 al 14 gennaio, la storia si è imbizzarrita; qualcosa di irreversibile si è ingranato; lo sentiamo nel profondo».

 Così parla Hamadi, dal fondo della via Impasse du Saint, dove si trova la sua casa nella medina di Tunisi, aperta ai giovani internauti pionieri dell’evento. In questa specie di modesto falansterio, mi sono ricordato di una frase del principe di Talleyrand: «Non mi sono mai affrettato e tuttavia sono sempre arrivato in tempo».

 La decisione di credere nell’evento e di accompagnarlo diventa naturale, evidente. La Tunisia rinasce in me, dopo una specie di ibernazione. Il sentimento di appartenenza non muore mai, restiamo abitati dalla scena dell’origine, quella in cui si barrica la costruzione del primo ricordo, tra fantasmi e tracce della memoria. E questa scena è a Tunisi. Là è il regno dell’esilio. Gli eventi hanno attivato il disgelo di un’origine congelata.

 La metafora del fuoco attizza questo processo di disgelo. Il rogo di Buazizi sbrina i nostri cuori. Resuscitiamo dalle sue ceneri. Questa rivoluzione detta dei gelsomini avrebbe potuto chiamarsi la rivoluzione della fenice. Tanto più che la fenice è corrente nella tradizione sufi. Ibn Arabi l’associa all’Occidente. ‘Anqâ’ al-maghrib, scrive. L’uccello mitico si consuma con il braciere del crepuscolo e accompagna il nostro allontanarci dal sole per abbandonare la luce del giorno e penetrare la tenebra della notte. La notte oscura porta nei suoi scintillii i chiarori che rinviano al ricordo del giorno, annunciandone il ritorno.

 La storia mantiene e ripete l’enigma. Ci sono stati tanti immolati nel fuoco. Un anno prima, giorno più giorno meno, un giovane si è cosparso di benzina dandosi fuoco sulla piazza centrale di Monastir, davanti all’edificio in cui alloggia il delegato che rappresenta lo Stato. Era un venditore di frittelle, vittima di complicazioni amministrative che stavano per fargli perdere la possibilità di guadagnarsi il pane. La stessa storia si ripete con Mohamed Buazizi. La prima volta la messa in scena del suicidio è confinata nella rubrica dei fatti di cronaca. Perché la seconda volta, a un anno di distanza, offre l’icona di una rivoluzione?

Manifestazione a Tunisi

 È l’enigma della storia. O forse le energie in campo dovevano subire un anno supplementare di sofferenza interiore perché la pazienza si esaurisse. «È molto semplicemente – correggerà Sofiane – la diffusione di Facebook tra gli utenti locali. L’evento ha avuto la sua cassa di risonanza su un supporto che autorizza la parola, lo scambio, la confidenza e che facilita la relazione interattiva. Il nuovo contenuto sostanziale che si è diffuso a partire da Sidi Bouzid ha dato peso ai nostri scambi. Una forma di sublimazione si è impadronita di noi».

 Tutto questo mi fa pensare a una frase di Victor Hugo che cito a memoria: nulla resiste a un’idea la cui ora è scoccata. Quando i cittadini non hanno più paura, i tiranni apparentemente meglio consolidati crollano. È la parte non controllata della storia. Quella che Bossuet attribuisce alla provvidenza, Hegel allo spirito, Braudel all’inconscio. L’idea è la stessa, il concetto che la designa varia a seconda del lessico dell’epoca.

 Così la rivoluzione tunisina ha avuto il suo simbolo, in mancanza di un leader. In Mohamed Buazizi abbiamo avuto il nostro Jan Palach, quel giovane cecoslovacco che in piazza san Venceslao si cosparse di benzina e si diede fuoco nel gennaio del 1969 per dire la sua disperazione dopo l’interruzione della primavera di Praga. È un atto che può essere paragonato alla tragedia del lutto. Si rinnova quarant’anni dopo nelle steppe dell’Africa, anche lì come atto tragico ed eroico. E questa volta è una delle leve della tragedia che ha funzionato. Il gesto di Buazizi ha realizzato la catarsi per tutto un popolo. Ha purificato una comunità. Ci ha permesso di sbarazzarci dei residui e degli altri coaguli che ritardavano la circolazione del sangue nelle nostre membra rattrappite. È stata una cura per le nostre coscienze colpevoli.

  

29. La prova democratica

 Rashid Ghannushi1 è rientrato nel suo paese il 30 gennaio 2011 dopo più di vent’anni di messa al bando. È stato accolto da qualche migliaio dei suoi sostenitori usciti dall’ombra dopo la fine della dittatura. Anche gli oppositori di Ghannushi erano presenti in aeroporto al suo arrivo.

Su Facebook ha circolato una bella immagine che mostrava una contro-manifestazione: si vedeva una ragazza con i capelli corti, in jeans e maglietta, che portava un cartello su cui era scritto: «La mia Tunisia è laica». Esprime un’opinione largamente diffusa nella società civile e che si manifestava su un altro cartello portato da un’altra donna vestita con eleganza: «Sì all’islam, no all’islamismo». Si può misurare l’ampiezza di questa adesione anti-islamista deducendola dalle decine di migliaia di internauti che si raccolgono su Facebook alla rubrica: «Ghannushi, vattene!».

 Dobbiamo ben considerare questa minaccia islamista per elaborare la strategia per limitarla. È questa minaccia che ha funzionato chiudendo nel loro silenzio gli intellettuali francesi altrimenti pronti a sollevarsi contro ogni attentato alla libertà e a raccogliersi intorno ad ogni affrancamento dalla servitù. Ma questa volta sono rimasti come sbalorditi, al punto da sparire dalla scena pubblica.

 Pensiamo che il mondo sia cambiato, che entriamo in un’altra fase. Quando l’integralismo era radicale, omicida, fatale, noi laici eravamo anche noi tutti radicali. È questo che ci ha condotto a sostenere o a lasciar fare le dittature.

 Abbiamo inoltre decostruito la loro ideologia totalitaria nei nostri libri. Abbiamo affrontato i loro ispiratori e gli esperti che si sono alleati con loro nei nostri duelli radiofonici, televisivi o accademici. Non ci siamo sottomessi alla loro egemonia. Ed è la nostra resistenza che li ha condotti a una maggiore moderazione.

 Il punto fondamentale è sapere se la loro richiesta di democrazia è una convinzione o un alibi, un principio o un sotterfugio. Sono sinceri o opportunisti in quanto dichiarano apertamente? Solo l’avvenire ce lo dirà.

 A proposito della solidarietà dei politologi con gli islamisti, Amina mi ricorda un’accesa discussione in cui, su una terrazza pensile di Cartagine, nell’estate del 1989, ci siamo confrontati con Bruno Étienne, che sosteneva fosse ineluttabile in tutta la regione il passaggio attraverso l’islamismo. «Io vi avrò messo in guardia» diceva in modo perentorio. «Non passeranno – rispondevamo noi – siamo in tanti a rifiutarli, passeranno allora sui nostri corpi».

 Venivamo da famiglie che erano degli alveari coranici e la tradizione islamica che ci ha nutrito non può essere compatibile con l’ideologia totalitaria proposta dall’islamismo.

 La cronaca ci mostra che gli islamisti non soltanto non sono passati, ma che la rivoluzione in corso che sta cambiando la storia è stata fatta senza di loro e al di fuori delle loro idee e dei loro riferimenti.

 Bruno Étienne ha formato due generazioni di ricercatori che hanno fatto qualche passo in più rispetto al loro maestro. Così hanno legittimato con la «scienza» un movimento che ha trasformato una tradizione religiosa in ideologia totalitaria, strumento di mobilitazione all’interno di una strategia di conquista politica. Sono curioso di sapere quali occhiali inforcano oggi per interpretare gli eventi del presente.

 Per il momento, la vigilanza esige da noi una veglia costante. Dobbiamo scorticare la parola degli islamisti e giudicarli dalle loro azioni.

 Quando Rashid Ghannushi afferma pubblicamente che Bourghiba è kâfir, miscredente, esprime un’opinione che sottintende il takfîr, la scomunica, che, secondo la loro legge, comporta la condanna a morte. Ecco un termine che occorre denunciare: non è conforme a un comportamento democratico né a un’imitazione del modello turco.

 Rashid Ghannushi sarà disposto a deporre una corona di fiori sul mausoleo di Bourghiba? Anche Erdoğan si è conformato al rituale che celebra ogni anno la memoria di Mustafa Kemal.

 Nonostante la responsabilità di Bourghiba nella perpetuazione della tirannia e della dittatura (che abbiamo denunciato più sopra), riteniamo che si dovrebbe istituire un rito che celebri il grand’uomo. È lui ad averci iniziato alla modernità e ad averci portato i benefici di uno status personale ispirato al diritto positivo, al passo con l’evoluzione dei costumi, lontano dall’arcaismo della sharia.

 Non si può esprimere l’accettazione dello status personale, considerarlo come un’acquisizione indiscutibile e congedare il suo ispiratore accusandolo di essere kâfir, come fa Ghannushi. Non soltanto nella logica integralista, ma anche in quella di un’interpretazione semplicemente letterale, è miscredente colui che esce dai confini indicati dalla sharia. Una via di Tunisi dedicata a MeddebE lo status personale del diritto tunisino è concepito al di fuori dell’ambito ristretto della legge divina. È importante rilevare tali contraddizioni ed esigere da chi le propone una risposta. Qui tiro uno dei fili attraverso i quali avviamo il dibattito democratico.

 Gli islamisti dovrebbero impegnarsi esplicitamente contro la teoria della Hakamiyya, elaborata da Sayyid Qutb e Mawdudi2 sulla base di una lettura abusiva di un versetto coranico (al-hukmu li’l-Lâh, «il giudizio è di Dio», II, 256), a partire dal quale attribuiscono il potere a Dio, facendo della politica e del diritto questioni divine, mentre sono affari umani.

 Queste palinodie, queste rinunce saranno una delle condizioni per la loro partecipazione sincera alla democrazia, che si muove nella sfera antropologica, al di fuori del riferimento teologico.

 Occorrerà anche ricordare agli islamisti che la caduta della dittatura che ha favorito il loro ritorno è il risultato di un suicidio sacrificale che non si conforma affatto alla legge islamica. È addirittura un segno della secolarizzazione delle varie società. La sua moltiplicazione nei paesi arabi non ha soltanto inquietato l’establishment politico, ma anche i predicatori, guardiani dell’ortoprassi, le cui preghiere e condanne sono rimaste lettera morta.

 Questo movimento rivoluzionario resta irrecuperabile da parte dell’islamismo. È stato mosso dal desiderio di libertà, di dignità, di giustizia in quanto elementi che appartengono al diritto naturale.

 È un movimento senza ideologia, senza leader che, grazie a internet, sta forse trasformando la politica e la storia. Così sembra imprendibile. Soprattutto non se ne può appropriare la repubblica islamica dell’Iran, come ha cercato di fare l’ayatollah Khamenei.

 Quest’ultimo, alla vigilia dell’11 febbraio3, ha espresso le sue felicitazioni ai popoli dell’Egitto e della Tunisia in un arabo classico perfetto. Ora non vi resta altro – così sostiene – che fondare delle repubbliche islamiche. Ma Khamenei finge d’ignorare che i movimenti tunisino ed egiziano si collocano evidentemente al fianco di coloro che sono insorti in Iran contro il sistema dittatoriale e totalitario della weleyat al-faqîh, questo «governo dei chierici» che la società civile rifiuta ricorrendo al diritto naturale e al confronto attraverso internet.

 Il processo è della stessa natura: semplicemente è riuscito in Tunisia il 14 gennaio 2011, in Egitto l’11 febbraio, laddove era fallito in Iran dopo il 9 giugno del 20094.

 La rivoluzione tunisina è un movimento giusto e lineare che non può essere rivendicato da un sistema così contorto come la rivoluzione islamica. Come dice il poeta Ibn Hindû, nato a Rayy (presso Teheran) e morto nel 1019:

Come raddrizzare l’ombra
Se il ramo è contorto?

 

 

(Traduzione dal francese di Gabriella Baptist)

 

Note con rimando automatico al testo

* A. Meddeb, Printemps de Tunis. La métamorphose de l’Histoire, Paris, Albin Michel, 2011, pp. 9-12, 38-42, 126-131. Ringrazio di cuore Amina Maya Meddeb per la generosa mediazione e Jean Mouttapa delle edizioni Albin Michel di Parigi per il permesso accordato alla traduzione in italiano di pagine scelte del testo che presentiamo. © Editions Albin Michel – Paris 2011.

1 Uomo politico tunisino vicino all’ideologia politica fondamentalista dei Fratelli musulmani e a capo del partito politico Ennahda (N.d.T.).

2 Il pachistano Abu al-A’la Mawdudi (1903-1979) e l’egiziano Sayyid Qutb (1906-1966) sono due punti di riferimento teorici del movimento islamista contemporaneo (N.d.T.).

3 Il riferimento è all’11 febbraio 2011, data delle dimissioni di Mubarak dopo le grandi manifestazioni popolari in Egitto (N.d.T).

4 Il riferimento è alle proteste e rivolte del giugno 2009, avvenute in Iran a seguito dei brogli elettorali che avevano assicurato la rielezione a presidente di Mahmud Ahmadinejad (N.d.T.).