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NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
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Hans Tuzzi, Nessuno rivede Itaca

 

 

 

Hans Tuzzi

Nessuno rivede Itaca

 

 

 

Bollati Boringhieri, Torino, 2020, pagg. 280, ISBN9788833934044, € 15,00

 

 

 

 

 

 

Dopo una polimorfa bibliografia di oltre trenta titoli, Hans Tuzzi torna in libreria in questa bisesta annata letteraria con il suo secondo romanzo, Nessuno rivede Itaca, che segue il suo precedente Vanagloria del 2013 nonché i cicli investigativi di Melis (2002-2019) e la trilogia di Vukcic (2014-2017), che romanzi lo sono pure, ma l’intento narrativo li annovera per esausta tassonomia nel genere “giallo” (Simenon chiamava “romanzi-romanzi” quelli che non avevano come protagonista Maigret, e furono le sue migliori cose).

Nell’ambito di una così ampia e tutt’altro che ignorata produzione, mi astengo dalla consuetudine, che si conviene agli esordienti, di leggere Nessuno rivede Itaca come “conferma” rispetto a Vanagloria, anche perché, se non bastasse altro, le due opere - in quanto a costruzione, ambientazione e tematica – divergono più di quanto non sia possibile sovrapporli. Sarà sufficiente dire che Vanagloria era un affresco corale ed espressionista di una Milano distopica, quasi stultifera navis alla deriva e senza la gloria di una tragedia in un mare di aperitivi. Nessuno rivede Itaca è invece un passo a due della memoria. Certo, poi, l’anima dell’autore, la sua Weltanschauung, la postura stilistica conferiscono ai due romanzi un’aria di famiglia.

Se nomina sunt omina, anche i titoli dei libri qualche volta ci dicono qualcosa. Questo Nessuno rivede Itaca ha una sua suggestione e una sua irrequieta negazione. Possiamo sentirvi un imperioso e ostile vaticinio, o immaginare di avere fra le mani un frammento di papiro con una sentenza di Eraclito l’oscuro, o anche, brancolando fra i libri letti, vedere la memoria apprendersi ratta a una poesia di Kavafis… Ma non basta. Il titolo è anche ambivalente. Chi è “Nessuno”? Lo pseudonimo (Outis) di Ulisse nell’episodio di Polifemo? E se così è, perché non dovrebbe ritornare a Itaca? Quale ulteriore avvenimento immaginario, nel già immaginato viaggio omerico, renderebbe impossibile il ritorno all’isola natia chiara nel sole?  O forse “Nessuno” è il pronome indefinito, ossimoro collettivo, che tutti ci designa in una individua e negativa sorte che ci nega il ritorno alla comune patria della gioventù invitta e immortale da cui partimmo per quella impresa che è in sé la vita, declinante - motus in fine velocior - verso le lunghe ombre della senescenza? A lettura avvenuta si saprà, e quel titolo si rivelerà, e questo molto importa, un incipit che riassume e condensa con icastico distacco il senso e il verso dell’intero libro.

Ora è legittimo chiedersi di cosa narri il libro e di quali esistenze si nutra. Non c’è una vera trama, non c’è uno svolgimento di fatti che tendono a un compimento o a un mutamento, anche se non mancano un’agnizione finale e una morte in diretta (meglio, in differita). I personaggi principali sono d’altronde due, Tommaso e Massimo, e nessuno dei due può più evolversi, dato che Massimo è morto e Tommaso guarda con scetticismo e rassegnata indolenza i suoi cinquant’anni. Alle due anime, che ricordano e si rammemorano a vicenda, bisogna aggiungerne una terza, Radoslav, presenza narrata e non narrante della vicenda, famulo di Massimo, che ne rievoca “lo splendore del corpo nudo … le sue cosce, porte bronzee sull’estasi”, e ci dichiara il suo legame sentimentale: “…quando mi accorsi di amarlo gli chiesi di imprimermi una cicatrice: non nell’anima, questa volta, ma nel corpo”. Sarà Radoslav a congiungere con un legame inaspettato, un seme ingravidante, le esistenze dei due narranti. Non sappiamo se e quale intenzione figurativa l’autore abbia riposto in questo personaggio, che sembra rappresentare, sineddoche di uno per i molti, l’aurorale vitalità di popoli che giungono per nemesi sulle rive dei colonizzatori e vi apportano l’eros della speranza e della fame di vita, senza arzigogoli di mediazioni concettose, mentre dell’Europa dei grandi ideali e degli spiriti eletti restano i cenci del buddismo d’importazione e le grottesche feste degli equinozi. Sì, Radoslav è un Dioniso d’oriente, felpato e discreto, che ubriaca di gioia il talamo di Massimo, e non solo.

Sullo sfondo si affollano figure minori, che hanno più che altro il ruolo ancillare di sostenere storicamente la memoria di Massimo e il presente di Tommaso (però, quelle pagine dedicate all’incontro di Massimo con un alto prelato vaticano, al loro colloquio infiorettato di ironia, allusioni e convenevoli è tutto da gustare…). Il vero protagonista di questa narrazione è il Tempo, declinato in quello che all’uomo è possibile esperire del tempo: la memoria e l’oblio, che è pur sempre memoria di ciò che sapevamo e che abbiamo dimenticato (“…allorché invece ricordo l’oblio, sono presenti e la memoria e l’oblio: la memoria, con cui ricordo; l’oblio, che ricordo” - è Agostino, nelle sue Confessioni; “Scrivere è dare udienza ai fantasmi”, opina Hans Tuzzi nella prima pagina del romanzo).

Il romanzo si compone di tre capitoli lungo i quali si alternano nel memoriale i due protagonisti: Tommaso scrive in tondo, in corsivo Massimo, che sparsamente convoca altre voci amiche in affettuosa udienza e testimonianza di sé. Li separa, Tommaso e Massimo, lo spazio di una generazione (Massimo è nato nel 1936, Tommaso trent’anni dopo); li unisce l’amicizia fra Massimo e il padre di Tommaso; condividono molti ricordi. Fra questi, il più grato per Tommaso, “La casa lontano da casa”, il titolo del capitolo con cui si apre il libro. Questa casa altra e lontana è una villa che siede sul Lago Maggiore, residenza della famiglia di Massimo. Fra il rigoglio della natura e le mollezze dello spirito lacustre, un Tommaso preadolescente si interroga sulle opacità e sull’incanto della giovinezza nascente e pone a Massimo una ferale domanda: “Perché non ti sposi?”. A riportare Tommaso a quei luoghi e a quell’incontro, a riaccendere alcune sue luci dell’età delle promesse, a incitarlo al ricordo è una busta che gli giunge inaspettata da uno studio notarile in ottemperanza alle ultime volontà di Massimo. Il plico contiene “Una scatola di cartone con molte buste e vecchie cartoline… e in una busta a parte, una chiavetta.” Un unico file intitolato Nessuno rivede Itaca, un romanzo inedito. Perché sì, Massimo è stato scrittore e letterato-viaggiatore, come ve ne furono un tempo che percorrevano l’Europa. Tommaso è un musicista di successo di matrice classica che si chiede perché proprio a lui quel legato. Assorto a ponderare la soglia dei suoi cinquant’anni, l’interrogativo lo scalfisce ma in apparenza non lo inquieta. Massimo reitera nel memoriale la domanda (“Ti sei chiesto perché proprio a te?”), che resta inevasa fino a quando, prima che venga scritta la parola fine, Tommaso capirà il senso di un’Itaca a cui a tutti noi è negato il ritorno, e saprà pure che l’esistenza dell’amico di famiglia è intrecciata alla sua vita privata in maniera imprevedibile. Non per questo Tommaso si riscatta dal ruolo che l’autore gli assegna di neghittoso ermeneuta della memoria di Massimo. La domanda che Tuzzi fa emergere tramite il recalcitrante Tommaso è questa: la memoria avrà un futuro?

“Perché non ti sposi?”. “Perché le donne non sopportano il fumo della pipa e del sigaro”. È una risposta come un’altra che si conviene dare a un ragazzino. Massimo non ha mai conosciuto il padre, è cresciuto in una famiglia di donne e di zii celibi, una famiglia matriarcale senza un maschio nocchiero: “un’infanzia infelice, Medea per madre”. Con gaudio dei (bis)nipotini di Freud, Massimo ci dirà poco dopo di “essere serenamente frocio, e assiduamente praticante”. E tuttavia il personaggio usa così spesso il pedale dell’omosessualità che non si può non immaginare sul suo volto una ruga di espressione. E se qualcosa di definitivo, o quasi, può dirsi, sulla minoranza “frocia” (o forse universalmente, trascendentalmente, in modo kantiano, intorno a tutte le minoranze) lo si trova esposto in un brano che è doveroso riportare, a futura memoria, verrebbe da dire: “E le minoranze, per quanto composte ciascuna da una maggioranza di brutte persone, sono sempre meno colpevoli, dinanzi agli individui e alla storia, della lurida massa dominante. Le minoranze, senza per questo essere masochiste, sanno quanto obbedire sia più fertile di comandare, quanto tacere sia più nutriente di urlare, quanto pensare necessiti della consapevole fragilità del filo cui è appesa la nostra vita. Tutte cose che il Potere ignora.” Ma c’è un obolo da versare al cerbero vessatorio benpensante: “La mia libertà voleva silenzio e ombra”. Se ho preferito usare l’espressione “minoranza frocia”, che può sembrare laida ai più, è per raccogliere il suggerimento dello stesso autore (nelle vesti di Massimo), che dà della sua lingua la migliore definizione: “alta e corporale”, e in più parti inattingibile nella sua lussureggiante varietà, con un gusto antiquario e araldico: bruire, sterpazzola, madieri, loico, ipallage, anastrofe, attante, sfulmini, algore, fritillaria, fescennino… e son pochi esempi. Ed è intenzione stilistica, esigenza, non belluria: “sì, difendo la lingua italiana”. Una scelta eremitica che rivendica la sua “aspirazione a scrivere in una lingua forse non morta ma imbalsamata, fuori dal tempo dei viventi eppure, come ogni mummia, abitata da una vita silente, misteriosa e inquietante”. Con la consapevolezza che questa lingua ha il fascino settario di chi fugge dall’ovvio, il carisma dell’errante che senza chiederlo ha una sequela: ”Da sempre mi sento votato a una scrittura che trova lettori proprio perché non li ricerca”. E la cognizione di un destino che si segue e che si subisce: “Allora non lo sapevo, ma sapevo di essere nato scrittore”, dirà Massimo nel suo fittiziamente inedito romanzo.

In luogo di fatti, catene di vicende, evoluzioni dei personaggi, luci sui caratteri, Tuzzi mette in scena nel suo teatro della memoria vertiginose escursioni nella cultura europea, che glossano brani di ricordi. Siedono nell’enciclopedica platea Stendhal e Carlo Gozzi, il Kronos Quartet e Bachofen, Corto Maltese e Winckelmann, il profeta Isaia e Paul Klee, Delacroix e Tocqueville, i confronti penieni fra homo sapiens e rinoceronte, lunghi brani in lingua latina, estese citazioni letterarie di opere inglesi e francesi, la differente conformazione fra uovo di gallina, piccione e anatra, digressioni filologiche sull’etimologia di certe piante medicinali dell’antica farmacopea, la minuziosa descrizione dello cerimonia di un esame di dottorato in Teologia all’università Gregoriana, le ipotesi sulle ultime parole pronunciate da Goethe prima di morire (Mehr Licht, “più luce”), un ricordo di Sigismondo Malatesta detto il Sodomizzatore, i musicisti dell’età elisabettiana Byrd e Tallis (e ci avrei aggiunto John Dowland, il mio prediletto). Ricorre spesso Venezia con alcuni quadri misconosciuti ospitati in chiese quasi obliate, una Venezia simbolica (l’acqua, elemento primigenio e materno, ontogenesi d’ogni memoria). Per chi ama il romanzo-saggio (ma Itaca è qualcosa “di meno”, in quanto non è monotematico, ma soprattutto qualcosa “di più”, in quanto forma della narrazione del Tempo), la lettura è una festa.

Consiglierei al lettore di non incorrere nella tentazione di compulsare repertori e dizionari, e di lasciarsi andare alla sinfonia delle citazioni e delle antichità linguistiche come se fossero (e lo sono) parte integrante della trama stessa della storia: Nessuno rivede Itaca è infatti un romanzo di parole e di idee che battono il tempo come silenziose lancette, e quindi va letto nella dimensione del vissuto. È lo stesso autore ad avvisarcene quando fa dire a Tommaso, a proposito di Massimo: “Mi rendo conto soltanto adesso che il problema dei lunghi tempi e dei vasti orizzonti infantili non cessò mai di ossessionare Massimo lungo tutto il fiume della vita. Per tutta la vita.” Il tema, la sostanza stessa del libro, è dunque la rimembranza, il rosario dei ricordi, da quelli fatali che segnano una via o un destino a quelli oziosi che siglano giornate di meravigliosa inutilità. “Sono i ricordi che ci tengono abbarbicati alla vita, eppure, miracolo, preparano il viatico alla morte.” Man mano che scorrono le pagine e il romanzo si avvia all’agnizione del commiato, Massimo attinge spesso ai sogni come materia di narrazione, e più che la ricerca di un passato (nessuno infatti torna a Itaca) sembra piuttosto ricercare un sacello a cui “consegnare” la memoria di una vita e il suo romanzo inedito. Tommaso ci appare allora come uno psicopompo riluttante, trasportatore designato a condurre la lingua e l’anima dell’amico scrittore alla tradizione dei posteri (ma ancora: davvero la memoria avrà un futuro, per lui, per tutti noi che non faremo ritorno a Itaca?).

C’è un sotto testo nella copertina che è un’ulteriore dichiarazione di poetica narrativa: “La sola vita che merita d’esser vissuta, o è eretica o non è”. La ritengo una auto-esegesi lapidaria. L’eresia è l’allontanamento dall’ortodossia, è una fede spuria. Ergo: se non si è fedeli a qualcosa non si può essere eretici. E Massimo si dichiara ateo: già fanciullo aveva smesso di credere. E quindi, cos’è mai questa eresia senza fede? È “il détour, la deviazione, lo scarto curioso, ozioso, inutile, apparentemente gratuito, che è poi il solo che ti ripaga di tutto. Sì, il détour. La diversione”. L’eresia va qui intesa come devianza e come erranza, la via abbandonata e non più percorsa, l’errante che lascia il sodalizio degli uomini (leggasi: quello della scrittura corrente) e ritenta il sentiero nascosto e non più calpestato, non solo perché “essere inutili è il modo più nobile di essere uomini”, ma anche perché “Scrittori e artisti non devono rassicurare, devono turbare la pace, mettere in discussione il mondo con tutti i sui pregiudizi. Tutti.” E ancora “No, oggi la vera pornografia è distrarre il lettore, considerato poco meno che un bambino, un ebefrenico o un analfabeta, distrarlo, dicevo, dalla sua tiepida lussuria con lo stile, la struttura, le soluzioni formali. Oggi va il déjà lu, e ogni pagina di un romanzo di successo deve essere ordinariamente prevedibile. Ci devono essere personaggi positivi, un lieto fine e naturalmente una morale ben dichiarata con scritte al neon: la maggior parte del pubblicato, oggi, è pattume d’attualità.” Ecco il potenziale “manifesto” di questo Itaca, manifesto che troverebbe ben pochi firmatari. Degli “uomini davvero potenti” dice: “costituiscono davvero un corpo estraneo, massiccio, inattaccabile. Un corpo chiuso dove, ovviamente (…) si conoscono tutti.” E ce n’è anche per la musica contemporanea colta, cerebrale, scritta da musicisti per altri pochi musicisti, detestata da una maggioranza silenziosa di frequentatori di concerti (ci ricordiamo tutti, no?, di Fracchia e la corazzata Potemkin). Tommaso, a quanto pare, è uno di questi autori, a lui è dedicata un’invettiva: “Voi siete sterili, e non è questione di gravitazione tonale: voi siete sterili perché volete credervi seri, perché ritenete che la musica nasca da uno sforzo del pensiero.” E sui giovani di oggi: “Noi intellettuali nati negli anni del vietato vietare li abbiam cresciuti (…) e svezzati senza mai chieder loro il minimo esercizio mentale (…) voi uomini di potere li avete lobotomizzati sfasciando la scuola pubblica (…) e una televisione che pur fra molti limiti seppe essere anche educativa, e avete spento così l’impulso più nobile dell’essere umano: l’anelito alla conoscenza, unica fonte di libertà.”

Qui ognuno saprà da che parte stare (perché Hans Tuzzi da una parte sta, eccome!), e lo si potrà seguire o voltargli le spalle. Così come appare contro-verso il confronto spesso evocato da Massimo fra presente e passato: compianto e accusa si inseguono, il ciceroniano o tempora o mores contrappone la purezza perduta di una società carognesca ma terragna e semplice (a cominciare dall’approccio “frocio” all’eros prezzolato di un orinatoio plebeo), all’oggi paludato delle cerimonie burocratiche del politicamente corretto. Ma qui, sul volto della nostalgia tuzziana, cala la celata nobiliari e viene nel contempo issata l’insegna popolare della rivolta, e non è concetto semplice da sbrogliare, come sempre accade quando si intrecciano nodi del passato con quelli del presente in una mente inquieta e onesta. Ma non sempre i buoni romanzi vanno capiti, talvolta solo ascoltati e risolti nella malìa della lingua.

Appunto, la lingua del romanzo. Dall’ira civile o dalla prosa repertoriale Tuzzi srotola spesso una liricità che prende forma e andamento di poesia. Questo un assaggio, un paradigma: “Città, musa d’asfalto e pioggia, luci di notturna solitudine: bacio fugace, la luna, e un corpo, lassù contro un vetro, lassù, da dove ero appena uscito, lassù, più della luna distante, più della luna estraneo testimone di pochi minuti di abbandono, insipido surrogato di felicità. Poi, Apollo. Il dio. Era lì, soltanto a me manifesto. Mi fissava, nel gran mare urbano, dallo scoglio di una panchina battuta dalle onde della folla: un dio dèmone, i capelli vivo groviglio di Gorgone gli occhi due fieri animali e i piedi, nudi e lerci, pronti al devoto omaggio di un bacio prima di artigliare il mondo.”

La ricerca della proporzione, la serenità e l’ariosità del periodo, una certa cantabilità anche in singulti scabrosi, l’astensione da proposizioni convulse, tutto conduce a definire apollinea la prosa del romanzo, indizio critico avvalorato dal suggerimento dell’autore stesso nella citazione di poc’anzi.

In un libro di memoria e sulla memoria, qual è Nessuno rivede Itaca, è lecito chiedersi quale confine l’autore abbia potuto tracciare fra l’esistenza raccontata e la sua propria? Sainte-Beuve (monumento della critica letteraria e accademico di Francia in pieno Ottocento) sosteneva che il miglior modo di comprendere l’opera di uno scrittore è quello di conoscerne la biografia. Marcel Proust pubblicò una confutazione di questa tesi (Contro Sainte-Beuve), finendo per dar ragione a Sainte-Beuve e smentendo di fatto sé stesso con la sua successiva Recherche. Non è questione metodologica facile da districare, tant’è che fior di studiosi si sono guadagnati pane e companatico esercitandosi sull’argomento. Hans Tuzzi ci fornisce un indizio elementare quando Tommaso dice che “il cognome di Massimo, breve e tronco, è davvero quello di un’antica famiglia di Venezia”. Breve e tronco come Bon? Adriano Bon, pseudonimo di Hans Tuzzi? Alter ego dunque di Massimo, autore del fittizio romanzo inedito che dà il titolo al nostro libro? Può darsi, ma teniamo presente che gli autori amano talvolta divertirsi con questi travestimenti e lo stesso Hans Tuzzi è recidivo, avendo pubblicato un libro di genere gotico (Città di mare con nebbia, Skira, 2015, peraltro molto bello e godibile) attribuendolo a tale Sandor Weltmann, nome sotto il quale si cela a sua volta in una scena dell’omonimo film del 1922 di Fritz Lang il “Dr. Mabuse”. Ricordiamoci d’altronde che Ulisse dice a Polifemo di chiamarsi “Nessuno”, che non rivela da subito la sua identità alla corte dei Feaci, che si traveste di necessità da mendicante al suo ritorno a Itaca per meglio imbandire la sua vendetta. Che Hans Tuzzi, alias Adrian Bon, abbia voluto specchiarsi in Massimo, è cosa che riguarda l’autore. Al lettore interessa sostanza e valore di un libro, se gli ha tenuto compagnia e se gli è stato caro. Lasciamo a ogni autore una stanza tutta per lui.

Alla fine al recensore toccano di solito responso e motivazione sull’elezione o reiezione del romanzo; il popolo dei trafiletti (“Non più di dieci-quindi righe”, impone il Redattore) fomenta in lui l’albagia dello scranno e lo incita a rispondere alla domanda: ma insomma, è un bel libro? vale la pena di leggerlo? Qui non si tratta tanto di pronunciarsi sulla bellezza del romanzo: ognuno vi troverà la bellezza che merita, o ne mancherà l'appuntamento. La domanda fondativa è piuttosto questa: che cos'è questo romanzo? E poi: cavare dalle pagine la risposta a un'altra questione, più legittima che impertinente: chi fuor li maggior tui?  Ovvero, detto in altri termini: quali antecedenti letterari possiamo accostare a Nessuno rivede Itaca? Confesso di non saper rispondere. Ma non basta: il libro ci sollecita e ci spinge a una domanda più radicale: cos'è il romanzo? Ecco, il grande merito di questo libro è riaprire questa domanda. Quanti altri romanzi oggi ne sono capaci? La nobiltà del libro - e qui si spiega perché il solo giudizio estetico non è pertinente, o meglio, riduttivo - risiede nel riproporre indirettamente l'interrogativo sulla natura della forma-romanzo mediante qualcosa che è comunque dentro un romanzo, sebbene diverso. Sosto su questo aggettivo. Uno Scrittore è, infatti, fra le altre cose, un oracolo inverso: pone domande che sapevamo esserci da sempre, ma che non sapevamo esprimere. È la voce dell’inafferrabile che è già stato pensato ma non è ancora stato scritto né tramandato. In quest’ottica, Nessuno rivede Itaca è inquietante e fascinoso. E per di più innocente: non vi sono tracce nel libro di un pensiero intenzionato a rendersi insolvente rispetto a una collocazione. L’originalità di Itaca, come di altri pochi romanzi che lasciano un segno, consiste nell’intuizione creativa, nell’esprit de finesse dell’autore. Itaca è una camera di meraviglie lessicali, un repertorio affettuoso di oggetti scomparsi dalla nostra visuale, una silloge di anime che riposano nella storia con indolente dignità, un repertorio enciclopedico di chi ha molto viaggiato e visto e compostamente conversa con il lettore. E poi, fra un brocardo e una citazione, s'inzacchera nella viltà dei corpi dove abitiamo e nei desideri che ci abitano. Se si potesse riassumere con poche parole Nessuno rivede Itaca direi: l’originalità della forma e l’eleganza del portamento narrativo. Per chi ha letto i libri di Hans Tuzzi che hanno preceduto questo suo ultimo, si può affermare che questo libro ne è l’esito inevitabile: molti degli elementi della scrittura qui presenti sono lo sviluppo di quanto in nuce era già contenuto in quelli, sebbene angustamente ristretti dentro le regole della narrativa di investigazione (vedi il ciclo del vice questore Melis). Lo si voglia o meno, Itaca suona come un'arringa contro l'ignavia e il minimalismo di molta scrittura che non ha più il coraggio di rischiare, rinserrata dentro le logiche corrive delle scuole di scrittura e del tempo del mercante.

Chissà se qualcuno si accorgerà della ferita di continuità che questo libro ha inferto alla narrativa italiana degli ultimi anni?

 

P.S. Ho citato nelle prime righe di questa scheda di lettura il poeta greco Constantinos Kavafis lasciando qualche puntino di sospensione... Kavafis ha dedicato a “Itaca” una splendida poesia. Si rivolge a tutti, immagina che tutti abbiamo una nostra Itaca a cui far ritorno, e ci invita a indugiare nel viaggio, ci augura “che i mattini d’estate siano tanti”, e la strada lunga, di non temere l’ira di Nettuno o gli inospiti Lestrigoni, “se non li porti dentro/se l’anima non te li mette contro”. E conclude: “Itaca ti ha dato il bel viaggio,/senza di lei mai ti saresti messo/in viaggio: che cos’altro ti aspetti? E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso/già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.”