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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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L'eone della violenza
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La guerra secondo Francisco Goya
di A. Bonavoglia
ed. ASTERIOS 

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Azioni Parallele

Sognare ad occhi aperti sapendo di sognare

 

La soglia e l’oltre

La soglia, il luogo inabitabile per eccellenza. Ma pur sempre un luogo, che sollecita una presenza, una testimonianza, una narrazione. Si può anche dire che ognuno di noi è una soglia, con il proprio andirivieni sofferto e gioioso, faticoso e lieve, tra i due poli che essa collega e, nel contempo, delimita, indicandone i pur labili confini: il dentro e il fuori, il mondo esteriore visibile e quello interiore invisibile. Dimensioni tra le quali intercorre una segreta connessione, poiché esse si richiamano e si rispecchiano a vicenda, innescando quel dinamismo trasformativo che, dietro la pressante azione delle multiformi epifanie immaginative dell’inconscio, permette il dispiegarsi del processo di individuazione, cioè il cammino dell’Io verso l’integrazione e l’unità. Questi e molti altri sono i temi con i quali il suggestivo libro di Carla Stroppa Sulla soglia di casa. Abitare tra sogno e realtà, pubblicato da Moretti & Vitali, interpella il lettore. Si tratta di un affascinante viaggio attraverso il quale l’autrice, psicoanalista junghiana, ci conduce nei territori del mito, della revêrie poetica, della pratica analitica e delle sue strette connessioni con quell’interrogazione di senso che costituisce il territorio dove la filosofia “è di casa”. Tutte queste molteplici direzioni di ricerca ruotano intorno all’immagine della casa, archetipo per eccellenza dell’appartenenza e dell’identità personale, in tutte le sue declinazioni, quelle luminose e armoniose come quelle oscure e perturbanti. In quanto archetipo la casa si presenta in prima istanza nei sogni, ed è proprio in riferimento ad essi e al loro trattamento analitico che Stroppa evidenzia la natura contraddittoria e ancipite di questo grande simbolo: ma proprio grazie a questa strutturale polisemia il simbolo permette di realizzare quell’interno finalismo della vita psichica che è l’integrazione di ogni singolo elemento in un’Unità onnicomprensiva, accessibile a livelli sempre più alti. Tuttavia “questa ‘unificazione’ non è una confusione; il simbolismo permette la circolazione, il passaggio, da un livello all’altro, da un modo all’altro, integrando tutti questi livelli e piani, ma senza fonderli. La tendenza a coincidere col Tutto dev’essere intesa come tendenza a integrare il ‘tutto’ in un sistema, a ridurre la molteplicità a ‘situazione’ unica, in modo da renderla allo stesso tempo più trasparente possibile”1.

 

La funzione terapeutica dei simboli

La casa, dunque, come microcosmo i cui elementi risuonano tra loro dentro una costellazione di senso che non è affare del lògos definire concettualmente, ma è missione dell’éros dischiudere e irradiare attraverso miti e immagini: “gli psicologi, Jung in primo luogo, hanno mostrato fino a qual punto i drammi del mondo moderno derivino da un profondo squilibrio della psiche, sia individuale che collettiva, squilibrio in buona parte provocato da una sempre più grande sterilizzazione dell’immaginazione […] Avere immaginazione è vedere il mondo nella sua totalità, giacché è potere e missione delle Immagini mostrare tutto ciò che rimane refrattario al concetto. Ci si spiega allora la disgrazia e la rovina di chi ‘è privo di immaginazione’: un tale individuo è tagliato fuori dalla realtà profonda della vita e della sua stessa anima”2. E infatti l’autrice ci mette dinanzi alla valenza terapeutica delle immagini e al loro potere ancestrale di attivare la “funzione trascendente”, ovvero quel processo di attrazione e di avvicinamento tra contenuti consci ed inconsci della psiche, grazie al quale diventa possibile entrare a contatto con l’Anima, riuscendo ad attingere con rinnovata energia alle sorgenti primigenie della Vita e dell’esistere, fonti occulte dalle quali zampilla il senso dell’Essere, vissuto da ogni individuo nell’alveo tracciato dalla memoria collettiva che tali immagini sedimenta e mantiene vive: “si tratta di percepire l’Anima del mondo, dentro la quale la nostra anima individuale respira, si dibatte, si lamenta, gioisce”3, disponendoci a quel “delirio”4 che Stroppa intende come “la fuoriuscita dal solco delle convenzioni teoriche e l’entrata nella rete apparentemente straniante dei grandi simboli che da sempre attraversano la psiche collettiva e le offrono il fondamento di cui l’Io ha bisogno per non impaludarsi nel dettaglio scambiato per il Tutto”5. É allora dalla scissione tra particolare e universale e dalla conseguente frammentazione della nostra vita psichica, generata da traumi ed esperienze dolorose, che derivano quelle condizioni patologiche che impediscono l’autorealizzazione e il pieno dispiegarsi dei talenti personali: ma, ricorda Stroppa, in un bellissimo passo che vale la pena di riportare per intero, “la focalizzazione sulla ferita personale sfuma in una visione più ampia quando l’Io raggiunge la percezione del valore transpersonale dell’umana fatica di vivere. È il momento in cui oltre i problemi relativi alla propria vita personale si intuisce l’eterna problematicità umana: l’inesausta tensione alla manifestazione di sé che è poi una declinazione individuale del Sé transpersonale. Si intuisce la continuità tra microcosmo e macrocosmo e questo cambia davvero la qualità del sentimento e del pensiero. Se ci si rende conto di essere uniti nell’umana condizione fatta di desiderio, angoscia, di continui tentativi ed errori per esserci, allora l’anima riemerge dal suo esilio e offre la sua pietas e la sua capacità di comprendere […] Proprio questa percezione dell’unità della condizione umana, sotto le infinite differenze individuali, traghetta la coscienza oltre il risentimento e la rivendicazione”6.

 

C’è casa e casa

Questo percorso di ricerca di sé attraverso il confronto con le proprie intime lacerazioni è delineato attraverso la narrazione, nella prima parte del libro, di alcune relazioni terapeutiche che Stroppa assume come paradigmatiche: la donna della “villa dei misteri”, quella della “casa del latte” e quella della “casa mostruosa”. Figure femminili, come si vede, accomunate da una sorda sofferenza esistenziale derivante da un rapporto disfunzionale con la figura materna, alle quali va aggiunto il ritratto dell’uomo della “casa esposta all’Ombra”, il cui nodo irrisolto riguarda, in parallelo, il rapporto con la figura paterna (sottolineo che si tratta solo di alcuni dei casi citati dall’autrice, nella fattispecie quelli sui quali ella si sofferma di più e con maggior pathos intellettuale ed umano). Si nota altresì come ognuna di queste storie personali sia costruita e ri-costruita proprio a partire da una diversa declinazione onirica dell’immagine della casa: da hortus conclusus, custode di un eterno femminino, numinoso e carico di Eros e bellezza, ad asettica “centrale” nella quale viene dispensato un nutrimento nauseabondo e sgradevole, passando per lo scenario distopico e mostruoso della casa “prigione” le cui siepi invadono man mano tutti gli spazi interni gettando in un’indicibile angoscia e rendendo impossibile qualunque fuga, fino alla triste e desolata dimora ombrosa e priva di calore affettivo, è sempre lo stesso dramma che viene messo in scena: quello della scissione e della mancanza di un corridoio di collegamento tra i poli della vita psichica.

 

Casa e identità

Esaminando attentamente tali percorsi, con tutto il corollario di sentieri che da essi si dipartono (il rapporto tra l’erotismo e il materno, la funzione simbolica del cibo, la spinta verso l’emancipazione e il riconoscimento, il riscatto dal vuoto affettivo originario attraverso un’astratta opzione etica di dedizione al prossimo, ecc.), viene spontaneo affermare che tutto il libro appare un’appassionata apologia delle “ragioni del cuore” pascaliane rispetto a quelle di un lógos unilaterale e raziocinante che, nel suo agire categorizzante e oggettivante, finisce per ignorare l’oltre, quell’ulteriorità di senso che si cela in ogni frammento di realtà: quando l’occhio dell’”immaginazione attiva” si apre diventa possibile soffermarsi sulla “soglia” per osservare l’inesauribile mitopoiesi del reale, quel gioco di rimandi e rispecchiamenti tra interno ed esterno che poeti, artisti, mistici e sognatori ad occhi aperti ben conoscono e che Stroppa non manca di dipingere con magistrali pennellate, che rivelano una grande sensibilità letteraria unita ad una poderosa acribia scientifica. A riannodare i molteplici fili che tessono questa complessa trama Stroppa così riassume: “la casa è una perfetta metafora dell’identità umana nel suo continuo farsi e disfarsi e nel suo continuo proiettarsi dentro l’inestinguibile sogno che ci sogna: sentirsi a casa propria, in sé stessi e nel mondo. È l’essenza del processo di individuazione su cui l’essere umano da sempre, con linguaggi e prospettive via via differenti, viaggiando di continuo per le strade del mondo o rimanendo fermo a casa sua, riflette”7, per poi proseguire subito dopo sull’onda di suggestioni lévinassiane: “nell’essenza della parola poetica si erge la casa dei nostri sogni perché essa, quando è necessitata da un mondo interiore che preme per esprimersi, è orientata dall’amicizia e dall’ospitalità, dall’apertura verso l’altro di cui, al di là di ogni necessaria differenziazione, abbiamo sempre nostalgia perché l’esistenza è, dall’inizio alla fine, costitutivamente ricerca dell’altro”8.

 

Le stratificazioni della casa e l’inconscio collettivo

Ma la casa è una realtà complessa e stratificata, fatta di spazi esposti alla luce e votati all’incontro col mondo, ma anche di zone in penombra, di porte che rimangono sempre chiuse o di scale che scendono inoltrandosi in angoli oscuri e misteriosi, per cui “dobbiamo dire che ha senso assumere la casa come uno strumento di analisi per l'anima umana”9, come afferma Bachelard, autore costantemente presente nel libro. Proprio intorno al significato da attribuire al carattere stratificato della psiche umana si è altresì consumato quel dissidio tra Freud e Jung, così gravido di enormi conseguenze nella storia della cultura e dell’immaginario collettivo contemporaneo: al pansessualismo naturalistico del maestro viennese, ultima propaggine del positivismo ottocentesco, Jung oppone un’immagine della psiche che tiene conto della Storia, della cultura, cioè di quella dimensione transpersonale che funge da sostegno e fondamento nell’evoluzione finalistica della personalità individuale. Se la casa di Freud appare una dimora isolata dalle altre, segnata dalla carenza ad essere e dalla coazione a ripetere, la casa di Jung si configura come un vero e proprio sito archeologico, dove molteplici livelli, storici e simbolici a un tempo, si sovrappongono, stabilendo insospettate connessioni tra epoche e luoghi lontani ed apparentemente privi di qualunque relazione: il celebre sogno di Jung10 nel quale appare una casa i cui livelli, man mano, vanno retrocedendo nei secoli in quanto ad arredamento ed ambientazione, fino a sfociare in una caverna dove si trovano resti di una civiltà primitiva, tra cui due teschi umani “evidentemente di epoca remota e mezzo distrutti”, venne interpretato da Freud come espressione di una forte pulsione di morte da parte di Jung verso la propria moglie e la propria cognata. Stroppa puntualizza come Jung, pur convinto dell’inadeguatezza dell’interpretazione del maestro, seppe stare al gioco, fingendo di accettare la tesi di Freud: “vuoi che reciti la parte di quello che scopre di avere desideri di morte inconfessati? Va bene, lo farò perché mi pare che in questo momento la scena lo richieda, ma non mi identificherò nella parte, perché recito sapendo di recitare e so anche che la mia idea di “verità” è differente, dunque a essa cercherò di attenermi. La casa del sogno per Jung rappresenta la personalità nella sua stratificata complessità. Il suo simbolismo è polisemico e si spinge oltre il romanzo familiare”11. È da qui che scaturisce la grandiosa intuizione junghiana dell’inconscio collettivo come memoria plurisecolare della specie, rappresentata dalla casa a più piani, “da quelli arcaici della caverna a quelli spirituali della torre […] In questa differente prospettiva i cocci e i teschi rinvenuti nella caverna non ancora esplorata, lungi dal riferirsi a desideri di morte, assumono piuttosto il significato di lasciti, resti appunto, della memoria plurisecolare della specie”12.

 

L’Ombra e la trasformazione

Quando le immagini archetipe, depositate nella memoria inconscia collettiva, irrompono sulla scena dell’Io cosciente, la mera contingenza del dato viene trascesa e nuovi significati vitali giungono a innervare il non-senso di un’esistenza consegnata troppo spesso all’alienazione e alla rabbia, spesso con il loro strascico di nichilismo (auto)distruttivo. Il finalismo del sogno permette di transitare sulla soglia e aprirsi verso lo spirituale e il simbolico, fermo restando che le resistenze dell’Io e la sua volontà di chiudersi in dinamiche regressive e protettive va preso molto sul serio, poiché il confronto con l’Ombra, preludio di ogni autentica trasformazione psichica ed esistenziale, è sempre estremamente doloroso in virtù dell’”immane potenza del negativo” e della “assoluta devastazione” cui esso può condurre13. Esemplificativi di tale pericolo sono i sogni in cui la casa si presenta sconquassata da eventi naturali particolarmente violenti, quali bufere, tempeste, terremoti, segnali eloquenti di un’alterazione psicoemotiva che può sfociare in una futura trasformazione creativa ed evolutiva o in una regressione psicotica. Certo, il dinamismo metamorfico dell’immagine della casa può assumere tipologie più soft, ma non per questo meno gravide di conseguenze per il processo di individuazione, come evidenziato dai sogni relativi al bisogno di cambiare casa o a quelli in cui si affaccia l’esigenza di abitare in una seconda casa in grado di compensare gli aspetti negativi e angosciosi della prima: in tutti i casi, è sempre la psiche inconscia, nella sua complessa topografia interna, che mette in scena se stessa per sollecitare ascolto e dialogo con l’Io cosciente14.

 

L’Angelo e il Possibile

Lasciate che io mi finga un angelo sino a quando le ali non mi spunteranno davvero”15: nessuna trasmutazione si realizza finché la finzione e la realtà non si incontrano sul terreno intermedio del mundus imaginalis16, ovvero “un mondo in cui lo spazio è la dimensione qualitativa di uno stato interiore, e le cui forme sostanziali, Forme di luce, non sono un’illusione oltre la quale occorra spingersi, per raggiungere, astraendo da forme e figure, una ‘smaterializzazione liberatrice’. Soltanto la perdita di questo mundus imaginalis può far credere che ‘smaterializzare’ le forme significhi abolirle: tutt’altro! Il mondo dei ‘corpi sottili’ racchiude il senso vero della non-materialità, in quanto restituisce forme e figure alla loro purezza archetipica: che cosa diventerebbe infatti un mondo senza volto, senza viso, cioè senza sguardo?”17: si tratta dunque di quel mondo invisibile e archetipico che solo la mediazione di un angelo può dischiudere orientando diversamente lo sguardo dell’anima e aprendola alla conoscenza immaginativa, che ne costituisce lo specifico organo di percezione (Corbin, in riferimento alla gnosi dello shi’ismo islamico, lo definisce anche “mondo soprasensibile, mondo dell’Anima o degli Angeli-Anime”18). Si tratta di un cambiamento di prospettiva repentino, un irrompere dell’invisibile nell’attimo, “l’istante straniante che interrompe la normale percezione delle cose e con le ali dell’angelo spinge la coscienza sull’incrocio dei tempi, là dove il presente assurge a una pienezza misteriosa, che dura appunto quanto il passaggio invisibile dell’angelo”19. Quest’irruzione dell’Angelo attiva un altro archetipo: quello del Possibile. E’ questo uno snodo decisivo del discorso di Stroppa, perché solo l’avvertimento di poter oltrepassare le proprie ferite identitarie e le proprie lacerazioni interiori traghetta l’essere umano al di là del suo isolamento e, ancora una volta, posizionandolo sulla soglia di casa, gli esibisce la vastità della storia collettiva con tutte le sue fatiche e i suoi dolori che le immagini originarie custodiscono e sulle quali la sua storia personale si radica: “si tratta dell’incontro tra l’anima individuale e l’anima del mondo. Il ‘punto di sventura’ della vita può divenire la soglia di un vero e proprio rovesciamento di prospettiva esistenziale che mentre apre all’oltre allenta la presa dell’angoscia dell’Io e gli fa apprezzare l’inesausto slancio dell’anima verso la caleidoscopica realtà del Possibile […] Nel gioco della vita si collocano tutte le declinazioni del Possibile20. Qui il discorso di Stroppa incrocia, dal punto di vista specifico della psicoanalisi, un tópos decisivo della filosofia dell’esistenza, ben esemplificato dalle parole di Kierkegaard: “la possibilità è l’unica cosa che salva. Quando uno sviene, si manda in cerca di acqua, acqua di Colonia, gocce di Hoffmann; ma quando qualcuno vuol disperarsi, bisogna dire: ‘trovate una possibilità, trovategli una possibilità!’. La possibilità è l’unico rimedio; dategli una possibilità, e il disperato riprende lena, si rianima, perché se l’uomo rimane senza possibilità è come se gli mancasse l’aria”21. Il sentore della possibilità è davvero in grado di strappare ad una condizione esistenziale divenuta prigioniera della propria inerzia e perciò incapace di ri-progettarsi e rimettersi in gioco creativamente, ma solo lo spuntare delle ali permette di trascendere il piano del semplice adattamento dell’Io al mondo esterno e di collocarsi “sulla soglia della casa dell’Angelo che altro non è che la casa dell’Anima”22.

 

L’Angelo melanconico

Senza lo spuntare delle ali però (o meglio, senza la consapevolezza di poterle usare per librarsi in volo), l’Angelo cade in quello stato di depressione e umbratile noia, mista ad inquietudine, che una lunga tradizione filosofica, medica e iconografica ha classificato con il termine di “melanconia”. Stroppa associa il tema della melanconia alle vicende di una sua paziente, dalla personalità fascinosa e attraente, colta e di bell’aspetto, ma continuamente lasciata dagli uomini di cui si innamora e, per questo, soggetta a cicliche cadute in stati depressivi profondi e invalidanti, caratterizzati da una totale perdita di autostima; si tratta di un’insegnante di filosofia, competente e preparata, da tutti stimata e apprezzata, ma nondimeno segnata da una ferita interiore segreta e lancinante23. Lo scenario psichico della donna appare riconducibile alla celebre incisione di Dürer “Melancholia I” (1514), dove compare un Angelo femmina, seduto nonostante le ali, circondato da strumenti di ogni genere che però non è in grado di utilizzare, dietro al quale campeggia una scala poggiata ad un edificio incompleto, mentre lontano, sullo sfondo, fiammeggia un grande arcobaleno, attraversato da raggi di luce con, al suo interno, il cartiglio recante il titolo dell’incisione. Quest’immagine da sempre è assurta a simbolo della stasi del processo creativo, vissuta con particolare drammaticità da quegli individui particolarmente dotati di talenti, che non riuscendo a metterli a frutto, sentono di essere inutili e di non arrecare alcun contributo alla vita: “non si tratta di una tristezza causata dal vuoto , ma semmai dal troppo pieno, o meglio da un vuoto di senso a dispetto di un pieno di potenzialità”24. Perciò non è azzardato affermare che “questo angelo femmina melanconico, perso sotto il peso delle sue stesse potenzialità inespresse o rese inutili dalla stanchezza, potrebbe rappresentare […] l’istanza centrale della psiche di un soggetto creativo destinato per dotazione naturale a dare un contributo significativo alla vita ma che per qualche ragione, intrinseca o estrinseca a lui, si è bloccato sulla soglia, incapace sia di allontanarsi dalla casa sia di entrarci davvero”25. In questo caso la soglia non costituisce il corridoio di collegamento tra l’individuo e il mondo, tra interno ed esterno, non incarna la potenza unificante di Eros che tutto connette facendo presagire di volta in volta l’oltre e il sovrappiù di senso: stavolta la soglia appare come elemento divisivo che segna un confine invalicabile, sul quale ci si può solo sedere tristi ed arrabbiati sentendosi impossibilitati a portare a compimento la propria natura. Questo avviene quando il sentimento del Possibile viene oscurato e la coscienza cade preda di quell’umor nero (“melanconia” appunto) che “blocca qualsiasi movimento della libido, congela il pathos della vita, dunque l’ideazione, l’azione, l’immaginazione”26; in tale disposizione lo sguardo nullificante che tutto vanifica finisce per gettare nel non-senso l’intera realtà del mondo interiore ed esteriore, proprio perché tale sguardo su nulla si sofferma, su nulla concentra le sue mire creative perché “guarda tutto senza vedere niente, conosce tutto senza riconoscersi in niente, e senza riconoscere però nient’altro al di fuori della propria assenza”27. Infatti, lo sguardo dell’Angelo non si posa su nessuno degli oggetti che lo circondano, ma è fisso sull’infinito vuoto che gli si staglia dinanzi e che cade fuori dell’incisione stessa: “l’incisione, per la sua struttura stessa, rinvia a qualcosa che le è esterno: verso un punto di fuga che essa non comprende. E la melanconia non guarda nient’altro se non questo punto di fuga assente: assenza di una fuga, fuga di una fuga. Essa investe di vanità gli enti che la affollano e la colmano, guardando semplicemente il punto di fuga […] Lo sguardo della melanconia vede gli enti in ciò per cui essi non sono: per la fuga del loro punto di fuga, essi le appaiono come se non fossero. Essi le appaiono, malgrado la greve calma che pervade tutta l’incisione, come ghermiti dalla vanità […] L’incisione fugge per la fuga insensibile dei suoi enti verso il loro punto di fuga. Il mondo fugge, con tutti i suoi enti, per la vanità. Il mondo fugge per la vanità così come l’ente trasuda di noia”28. Le parole di Marion esprimono davvero con minuziosa precisione lo stato d’animo della donna che soffre esattamente la perdita di senso e di investimento libidico su sé stessa e sul mondo: l’Angelo-Anima di Margherita (questo è il nome della paziente-filosofa) aveva visto le proprie ali tarpate da un’educazione improntata ad un modello fortemente patriarcale e ad un razionalismo gnoseologico ed etico che se, da un alto, le aveva permesso di sviluppare la sua predisposizione per la ricerca filosofica e la passione per l’avventura del pensiero, dall’altro non le aveva consentito di riconoscere e integrare i suoi talenti immaginativi e creativi, facendola crescere in un sentimento di disistima di sé come inevitabile contrappunto alla venerazione del padre-lógos e alla scarsa presenza della figura materna, succube anch’essa del totem maschile. Nonostante la facciata sociale rassicurante e apparentemente gratificante, Margherita viveva perciò “la malinconia dell’individuo creativo che non riesce ad esprimere la creatività proveniente dal suo sé e non si sente mai completamente soddisfatto di quello che esprime perché lo vive come lontano, a volte persino, abissalmente, dai suoi ideali, che non di rado rimangono inconsci”29; avrebbe voluto innervare il valore della conoscenza con quel pathos tipicamente femminile con il quale però non riusciva ad entrare a contatto a causa delle carenze di accudimento materno subite da bambina: “la parte più femminile di Margherita, il suo ‘corpo emozionale’ non prendeva parte alla vita se non durante gli innamoramenti, ma in forma distorta dalla sottomissione al maschile e in ogni caso rimaneva scissa dal pensiero che vagava solitario in astratte lontananze. Le delusioni e gli abbandoni d’amore la riconsegnavano alla vertigine del suo vuoto primario e alla sua struggente e invalidante malinconia”30.

 

L’Angelo purpureo

Anche se ha smarrito le chiavi che danno accesso alle stanze segrete dell’Anima (o meglio le ha vicino ma neppure le vede), l’Angelo melanconico è però inserito in un orizzonte dove, come si diceva, domina trionfante un grande arcobaleno: è il segno (ancora una volta sulla scia della coincidentia oppositorum) che la malattia è la condizione imprescindibile per la salute, che il dolore è necessario per il ricongiungimento con il proprio Sé, riannodando i poli scissi della vita psichica. In altre parole, è il dolore la soglia su cui ci si deve soffermare per lasciarsi alle spalle ogni dualismo e, secondo Panofsky, è nell’aver messo in scena questa superiore consapevolezza che consiste la grandezza dell’artista tedesco: “[Dürer] ha inteso la melanconia degli intellettuali come un destino indivisibile in cui le differenze tra temperamento melanconico, malattia e stato d’animo svaniscono nel nulla, e il dolore chiuso come l’entusiasmo creativo non sono che gli estremi di un’unica e medesima disposizione. La depressione della Melencolia I, che rivela sia l’oscuro destino che l’oscura sorgente del genio creativo, sta al di là di ogni contrapposizione tra salute e malattia”31. E anche Stroppa osserva che la presenza dell’arcobaleno, “simbolo per eccellenza di ricomposizione fra la terra e il cielo e per estensione simbolica fra tutti gli opposti della psiche e della vita”, allude “al possibile superamento della stasi creativa causato dalla depressione e al raggiungimento di un nuovo stato della mente. Ecco che l’archetipo del Possibile si staglia sullo sfondo dello scenario malinconico, ne è anzi parte integrante”32. La trasformazione viene innescata nel momento in cui la donna inizia a sognare “un angelo femmina con le ali di un colore rosso fiammeggiante. Appariva imponente e furtivo sulla soglia della sua casa, forse a volervi entrare o forse per invitare lei a uscirne”33. Il rosso intenso dell’Angelo rinvia ad una delle fasi cruciali del processo alchemico, quella della rubedo; com’è noto, Jung ha dedicato una parte cospicua della sua attività intellettuale allo studio dell’alchimia, nella quale ha rinvenuto tutt’altro che un bizzarro coacervo di vaneggiamenti prescientifici, bensì un grandioso scenario simbolico incentrato sulla “salvezza della materia” come necessario completamento della “salvezza dell’umanità” operata da Cristo. L’opus alchemicum, però, è per Jung, soprattutto una proiezione inconscia del processo di individuazione e di tutte le sue drammatiche traversie, perciò assume un significato anche psicologico (posto che nel mundus imaginalis la distinzione tra interno ed esterno tende ad assottigliarsi a motivo della natura sottile delle presenze che lo popolano); occorre dunque dare la parola allo stesso Jung che in modo particolarmente efficace riassume in questo passo, che occorre riportare per intero, le complesse fasi del processo alchemico: “La nerezza, nigredo, è lo stato iniziale: o preesistente come qualità della prima materia, del caos o della massa confusa, oppure provocato dalla decomposizione (solutio, separatio, divisio, putrefactio) degli elementi. Se, come talvolta accadeva, si partiva dallo stato di decomposizione, poi si procedeva a un’unione degli opposti sul modello dell'unione di maschile e femminile (il cosiddetto coniugium, matrimonium, coniunctio, coitus), seguita dalla morte del prodotto dell'unione (mortificatio, calcinatio, putrefactio) e corrispondente innerimento. Dalla nigredo si poteva passare mediante lavaggio (ablutio, baptisma) o direttamente all'imbianchimento, oppure l'anima fuggita dal corpo al momento della morte era unita nuovamente al corpo morto per vivificarlo, oppure ancora i molti colori (omnes colores, cauda pavonis)servivano di passaggio a un colore unico, il bianco, contenente tutti i colori. Con ciò era raggiunta la prima meta principale del processo, ossia l'albedo, tinctura alba, terraalba foliata,lapis albus ecc., meta che certi autori decantavano in modo tale quasi si trattasse della meta definitiva. Era lo stato argenteo o lunare, che pero doveva essere ancora innalzato allo stato solare. L'albedo è, in certo qual modo, l'alba; ma soltanto la rubedoè il sorger del sole. Il passaggio alla rubedo è costituito dall'ingiallimento (citrinitas), il quale, come ho già detto, venne più avanti soppresso. Aumentando l'intensità del fuoco fino al suo grado massimo, la rubedosorge direttamente dall'albedo. Il bianco e il rosso denotano la Regina e il Re, che anche in questa fase possono celebrare le loro nuptiae chymicae34. Ecco una compiuta immagine della coincidentia oppositorum: l’unione nuziale tra maschile e femminile come meta cui mirano la psiche individuale e quella collettiva, e che si esprime come ritrovamento di sé, come ritorno a casa dall’esilio della non conoscenza del dolore, un autentico risveglio cui innumerevoli tradizioni esoteriche e mistico-religiose fanno riferimento oltre ad altrettanto innumerevoli creazioni artistiche e letterarie (e qui i nomi di Proust35, Benjamin, Hillman, Gibran punteggiano qua e là le sempre più intense pagine di Stroppa). A tale integrazione, ovvero a tale epifania dell’Angelo purpureo, annunciatore del lapis philosophorum, del Sé unificato, aspira anche l’intera nostra epoca, apparentemente condannata al frammento, alla traccia, alla residualità di senso, impoverita nella sua capacità di vedere l’oltre e di dare corpo alle immagini interiori a motivo dell’oblio della dimensione spirituale, ma proprio per questo nostalgica di quella “terra del cuore” dalla quale il disincanto e il nichilismo dell’efficienza tecnoscientifica sembrano averla separata per sempre: “Dio è morto! Dio resta morto! Noi lo abbiamo ucciso”36, esclama l’uomo folle nietzschiano, ma è anche vero che nelle profondità della psiche collettiva il sentimento della sacralità dell’essere e della vita non si spegne mai, perché esso coincide con la inesauribile disposizione a produrre immagini e narrazioni mitiche e a farsi attraversare dalla potenza dei simboli. E uno dei miti che meglio alludono a questo insopprimibile bisogno dell’uomo di mettersi alla ricerca dell’oltre e di affrontare anche i pericoli connessi a tale impresa è la leggenda di Parsifal e del Re Pescatore, nella quale si narra che il Re, unico detentore del segreto del Graal, soffre di una malattia misteriosa che nessun medico riesce a curare e tutto intorno a lui va in rovina: il palazzo, le torri, i giardini languono, gli animali non si riproducono, gli alberi non danno più i frutti; solo la domanda che gli pone Parsifal: “Dov’è il Graal?” ha il potere di mutare completamente la scena, tanto da far levare il Re dal suo letto, da far scorrere nuovamente l’acqua nei fiumi e nelle fontane, da far rinascere la vegetazione e produrre il prodigioso restauro del palazzo: “le poche parole pronunciate da Parsifal erano bastate per rigenerare la Natura tutta. Quelle poche parole, tuttavia, costituivano la questione centrale, l’unico problema che poteva interessare non soltanto il Re Pescatore, ma l’intero Cosmo: dove si trovava il reale per eccellenza, il sacro, il Centro della vita e la fonte dell’immortalità? Dove si trovava il Sacro Graal? Nessuno, prima di Parsifal, aveva pensato a formulare questa domanda centrale, e il mondo periva a causa di tale indifferenza metafisica e religiosa, a causa di tale mancanza di immaginazione e assenza del desiderio del reale”37. Ancora una volta: bisogna avere il coraggio di interrogare la nigredo, di metterla in questione, e porsi in pellegrinaggio verso il Possibile, seguendo le indicazioni dell’Angelo, pur rimanendo dentro il finito e il limite che ci caratterizzano in quanto esseri umani, perché solo la ricerca del senso cura le ferite del corpo e dell’anima: l’utopia dei filosofi presocratici come Parmenide, Empedocle e Pitagora, ci ricorda Stroppa, era quella di curarli entrambi, consapevoli com’erano della loro originaria unità: “l’idea fondante della loro filosofia era che per rinascere bisogna essere capaci di ‘morire’ alle vecchie certezze. L’amore per la conoscenza, ovvero la filosofia, non si accontenta delle idee, ma vuole entrare nella concretezza della cura dell’anima e del corpo. I presocratici erano filosofi guaritori”38.

 

Psicoanalisi e sciamanesimo

E il tema della guarigione permette di incrociare la pratica analitica con la più antica pratica terapeutica del mondo: lo sciamanesimo, fenomeno alla cui analisi Stroppa dedica le pagine conclusive del suo lavoro. L’autrice, ancora una volta seguendo il filo conduttore dell’immagine della casa, discute alcuni casi di pazienti che seguivano anche pratiche di tipo sciamanico (molto interessante il racconto del sogno della “casa dello sciamano”39), vòlte ad alterare gli stati di coscienza per consentire l’esperienza del viaggio extracorporeo con conseguente ritrovamento di quella condizione evocante l’infanzia perduta del mondo, la partecipation mystique con lo stato originario e paradisiaco dell’essere, “il tempo in cui l’illusione e il trasalimento di esserci nella scena mirabolante del mondo bastavano a se stessi”40. Aprendosi con sensibilità ed equilibrio al valore terapeutico di tali pratiche, che la scienza ufficiale ha posto fuori gioco con il trionfo del modello razionalistico occidentale su scala planetaria, Stroppa nota come talora la trance sciamanica sia in grado di attingere livelli psichici ancora più profondi rispetto a quelli che emergono nei sogni o nelle rêveries di altro genere: “talvolta il viaggio sciamanico ripercorso in analisi consente di aprire varchi su tratti della psiche che non sarebbero mai stati raggiunti diversamente, neppure coi sogni che del resto in molti casi i pazienti non ricordano neppure”41. Ma ciò che più preme all’autrice è collocare il moderno “revival” dello sciamanesimo nel più ampio fenomeno sociologicamente riscontrabile della riscoperta della sfera dell’arcaico e del primitivo, come testimoniato dalla diffusione delle medicine naturali alternative, dei trattamenti olistici e, più in generale, dal dilagare dell’animalismo e di altre mode molto attuali (quali i tatuaggi, i piercing o i tribalismi urbani delle più disparate specie), dalle quali trapela quell’inconfessata “nostalgia delle origini” (per riprendere il titolo di un altro libro di Eliade) fin troppo repressa dallo stile di vita occidentale, improntato al materialismo e all’immanentismo più desolante. La serietà con cui Stroppa osserva tutto ciò va ricondotta nuovamente al tema centrale del libro: la riconciliazione dell’Io con la sua Anima, attraverso l’attivazione di modalità conoscitive e comunicative irriducibili al lógos, quali l’intuizione mimetico-analogica o quella medianica, alla base di fenomeni quali sincronismo, precognizione, telepatia o psicocinesi. Del resto, si tratta di canali che gli artisti ben conoscono, tanto da poter considerare i grandi scrittori, i grandi musicisti, o grandi poeti, i grandi poeti, come una sorta di “post-sciamani”: “non possiamo non ammettere che ogni artista creativo per esplicitare la sua visione e darle una forma riconoscibile necessita di entrare in uno stato di trance attenuata, una sorta di viaggio sciamanico che gli consenta di vedere oltre il mero contingente”42. Se infatti la ragione separa e divide, l’intuizione (facoltà erotica per eccellenza) riunisce e connette, permettendo di sperimentare l’universale sympatheía di tutte le cose: “i grandi creativi, mediante le loro antenne medianiche, per una sorta di predisposizione e di condanna profetica, colgono sempre il cuore dei problemi della storia e dell’animo umano e riescono a trasmetterlo con la bellezza e l’incanto della narrazione che, snodandosi sempre tra la percezione sottile della realtà e il volo dell’immaginazione, resiste, sia pure su una strada parallela, al disincanto della mente, e a un certo punto si imbatte nell’incrocio giusto, dove sorge la casa in cui la mente e il cuore possono abitare assieme e lumeggiare medianicamente l’oltre”43. Approdare all’unità avvertendo nel profondo “il sentimento di essere a casa, di appartenere a qualcuno e a qualcosa che ci scalda il cuore e che ci dà una vera ragione per la quale fare le cose concrete, le cose giuste da fare ogni giorno”44: questa è la direzione suggestiva che ci indica l’autrice. In ultima analisi, è l’invito a mantenersi nel paradosso della reciproca implicazione di visibile e invisibile, dicibile e indicibile, quella soglia che solo lo sguardo rappresentativo-simbolico della poesia e della fantasia immaginativa sa da sempre come abitare.

 

Con tutti gli occhi la creatura vede
l’aperto. Solo i nostri occhi sono
come volti all’indietro e attorno ad essa,
trappole, poste tutto intorno
al suo libero uscire. Ciò che fuori è,
noi lo sappiamo soltanto dal volto
dell’animale; perché già l’infante
noi lo giriamo e lo forziamo a vedere
all’indietro costruzioni, non l’aperto,
così grave nel volto animale. Libero da morte.
La morte la vediamo solo noi. Il libero animale
Ha sempre la sua fine dietro a sé,
e Dio davanti. E quando va, va in eterno
come le fonti”45

 

 

 Note con rimando automatico al testo

 

1 M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino, 1988, p. 470

2 M. Eliade, Immagini e simboli, Jaca Book, Milano, 2015, p. 22

3 C. Stroppa, Sulla soglia di casa. Abitare tra sogno e realtà, Moretti & Vitali, Bergamo, 2019, p. 20

4 A proposito del “delirio”, che disloca su un piano di esperienza e di comprensione “altro” rispetto all’ordinario, non possono non tornare alla mente le parole di Platone dedicate all’ἐνθουσιασμός poetico, per molti versi affine alla “funzione trascendente” junghiana più volte ricordata dall’autrice: “Oὕτω δὲ καὶ ἡ Μοῦσα ἐνθέους μὲν ποιεῖ αὐτή, διὰ δὲ τῶν ἐνθέων τούτων ἄλλων ἐνθουσιαζόντων ὁρμαθὸς ἐξαρτᾶται” (Platone, Ione, 533e, in Tutte le opere, vol. 2, Laterza, Bari, p. 70: “Così anche la Musa forma gli ispirati, e attraverso questi si costituisce una catena di altri, invasi da divina ispirazione”)

5 C. Stroppa, cit., p. 21

6 C. Stroppa, cit., p. 22

7 C. Stroppa, cit., p. 92

8 ibidem

9G. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari, 2011, p. 28, il quale di seguito aggiunge: “Non solo i nostri ricordi, ma anche le nostre dimenticanze sono ‘alloggiate’, il nostro inconscio è ‘alloggiato’, la nostra anima è una dimora e, ricordandoci delle ‘case’ e delle ‘camere’, noi impariamo a ‘dimorare’ in noi stessi. Le immagini della casa (ce ne accorgiamo fin da questo momento) procedono nei due sensi; esse sono in noi così come noi siamo in esse”

10 Cfr. C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, Rizzoli, Milano, 2018, pp. 200-1

11 C. Stroppa, cit., p. 107

12 ibidem

13 Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano, 1995, p. 87: “Lo Spirito conquista la propria verità solo a condizione di ritrovare sé stesso nella disgregazione assoluta. Lo Spirito è questa potenza, ma non nel senso del positivo che distoglie lo sguardo dal negativo, come quando ci sbarazziamo in fretta di qualcosa dicendo che non è o che è falso, per passare subito a qualcos’altro. Lo Spirito è invece questa potenza quando guarda in faccia il negativo e soggiorna presso di esso. Tale soggiorno è il potere magico che converte il negativo nell’essere”. Nessun dubbio sulle tangenze tra Hegel e Jung, accomunati dall’inesausta tensione verso la coincidentia oppositorum, come ben messo in luce da M. Eliade, Spezzare il tetto della casa. La creatività e i suoi simboli, Jaca Book, Milano, 1988, pp. 36-7: “la reintegrazione dei contrari, la coincidentia oppositorum, è la chiave di volta del sistema di Jung […] Ma questo sforzo verso l’unità attraverso l’integrazione degli opposti, lo si riscontra in Hegel, sia pure su di un piano completamente diverso. Ci si può anche chiedere se il paragone tra Hegel e Jung non debba essere spinto ancora più lontano. Hegel segue la Storia e il suo grande sforzo ha per obiettivo la riconciliazione dell’uomo con il proprio destino storico. Jung scopre l’inconscio collettivo – cioè tutto ciò che precede la storia personale dell’essere umano – e si applica a decifrarne le strutture e la ‘dialettica’, allo scopo di facilitare la riconciliazione dell’uomo con la parte inconscia della sua vita psichica e di condurlo verso la reintegrazione della sua personalità”

14 Cfr. C. Stroppa, cit., pp. 130-45

15 C. Stroppa, cit., p. 152

16 Cfr. H. Corbin, L’immagine del tempio, Boringhieri, Torino, 1983, pp. 67-8: “si tratta dell’idea di un mondo intermedio tra quello sensibile e quello intelligibile […] regno dei corpi sottili […] limite ‘dove gli Spiriti assumono un corpo e i corpi divengono Spiriti’”

17 H. Corbin, cit., p. 70

18 H. Corbin, cit., p. 73

19 C. Stroppa, cit., p. 153

20 C. Stroppa, cit., pp. 157-8

21 S. Kierkegaard, La malattia mortale, in Opere, Sansoni, Firenze, 1988, p. 639

22 C. Stroppa, cit., p. 159

23 Cfr. C. Stroppa, cit., pp. 165-7

24 C. Stroppa, cit., p. 168

25 C. Stroppa, cit., p. 170

26 C. Stroppa, cit., p. 172

27 J. L. Marion, Dio senza essere, Jaca Book, Milano, 2008, p. 167

28 J. L. Marion, cit., pp. 168-9

29 C. Stroppa, cit., p. 184

30 C. Stroppa, cit., pp. 193-4

31 R. Klibansky - E. Panofsky - F. Saxl, Saturno e la melanconia, Einaudi, Torino, 1983, p. 327

32 C. Stroppa, cit., p. 175

33 C. Stroppa, cit., p. 195

34 C. G. Jung, Psicologia e alchimia, Boringhieri, Torino, pp. 242-3

35 In particolare, una delle figure letterarie più emblematiche di tale reintegrazione è il ritrovamento del Tempo perduto in occasione della “matinée” dai principi di Guermantes che chiude la Recherche proustiana, quando un semplice risuonare di campanello evoca nell’autore la consapevolezza della non-transitorietà del tempo vissuto: “provavo un senso di stanchezza e di sgomento nel sentire che tutto quel tempo, così lungo, non solo era stato ininterrottamente vissuto, pensato, secreto da me, che era la mia vita, che era me stesso, ma che per di più dovevo tenerlo in ogni minuto attaccato a me, che esso mi sorreggeva, appollaiato sul suo apice vertiginoso, e che non potevo muovermi senza spostarlo. Il giorno in cui avevo udito il suono della scampanellata nel giardino di Combray, così lontano, eppure così profondamente interiore, era un punto di riferimento in quella enorme dimensione che non sapevo di avere. Ero còlto da vertigine nel vedere sotto di me, e tuttavia in me, quasi io avessi molte miglia di profondità, tanti anni” (M. Proust, Il tempo ritrovato, in Alla ricerca del tempo perduto, vol. VII.2, Einaudi, Torino, 1991, pp. 390-1)

36 F. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere, Adelphi, Milano, 1965, vol V.2, p. 130

37 M. Eliade, Immagini e simboli, cit., pp. 53-4

38 C. Stroppa, cit., p. 234

39 Vedasi C. Stroppa, cit., p. 240

40 C. Stroppa, cit., p. 244

41 C. Stroppa, cit., p. 247

42 C. Stroppa, cit., p. 252

43 C. Stroppa, cit., p. 254

44 C. Stroppa, cit., p. 256

45 R. M. Rilke, Ottava elegia, vv. 1-14, in Elegie duinesi, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 55