Il valore dell'empatia nell'etica della cura

  • Stampa

  

Critica del sentimentalismo morale all'astrattismo della giustizia

La cura, sin dagli albori del pensiero filosofico, è stata sottaciuta per la maggior parte del tempo e dalla grande maggioranza degli autori, poiché riconosciuta come prerogativa esclusiva del mondo femminile. Non mancano di certo nella storia alcune trattazioni, tutt’altro che sistematiche, quali, ad esempio, quelle di Virgilio e Seneca in cui la cura viene letta come idea a doppio volto come “condizione onerosa e ansiogena e come sollecita attenzione alla tradizione della cura delle anime di socratica origine”1, oppure nella riflessione di Kierkegaard che la oppone alla lesiva astrattezza della filosofia; ma per una vera e propria trattazione bisogna guardare al pensiero di Rousseau. Alla base del suo pensiero la differenza dei sessi non sancisce una banale differenza di forza prorompente e identificativa, ma indica l’opposizione di due sfere e modi di agire, la sfera pubblica di competenza maschile e una sfera privata governata dal femminile. Alle donne viene per la prima volta conferito un vero e proprio dominio, divenendo un effettivo soggetto, a patto però che venga sancita la loro esclusione dall’agire pubblico e razionale, identificandole passivamente con la canonica immagine materna. Alla sfera privata viene conferita una nuova legittimità, “al prezzo di una netta separazione gerarchica tra le due sfere dell’agire”2, assumendo la figura femminile come soggetto di cura per eccellenza, il cui ambito di azione è l’intimità, attraverso il ponderato governo dei sentimenti e la dedizione all’altro. Così facendo si vengono a definire da un lato il soggetto autonomo e razionale maschile che agisce nell’ambito della socialità pubblica e, dall’altro, un soggetto dipendente confinato nel privato con una “semplice” funzione sussidiaria, determinando la cura come “risvolto umbrantile” di un soggetto sovrano e libero da ogni dipendenza. Agli inizi del Novecento, il concetto di “moralità femminile”, ovvero l’insieme di idee quali l’amore materno, il valore di cura assistenziale, il coltivare le relazioni di pace, veniva posto come alternativa dal pensiero femminista alla condotta maschile, dedita in maniera esclusiva alla guerra e al guadagno, tanto che si è arrivati a pensare che se le donne fossero al potere non ci sarebbe più guerra3. In realtà, come chiarisce Tronto, non è neppure chiaro se la maggiore sensibilità morale delle donne derivi dal sesso femminile, dall’essere madri o madri potenziali, ma ciò non toglie che una tale ideologia porterebbe a spostare l’ago della bilancia in favore di una normatività che la stessa Tronto critica dato che verrebbe necessariamente scissa da un determinato contesto, poichè ”le femministe ignorano le circostanze politiche dei loro argomenti morali a loro rischio e pericolo”4.

Solo con la pubblicazione di In a different voice da parte di Carol Gilligan la cura viene riabilitata e non fagocitata da una ontologia scissionista assunta come prospettiva morale. Se l’agire dei soggetti maschili è dettato da “preoccupazioni” riguardanti i rapporti politici tra i soggetti, l’obiettivo centrale diviene quello di porre la cura non come condizione d’esistenza della donna, bensì quello di una integrazione fra le due prospettive sociali, detronizzando l’egemonia del soggetto autonomo pubblico in vista di una rimozione della cura da funzioni sussidiarie e oblative. La destituzione di un ideale di soggetto sovrano spinge l’essere umano a prendere coscienza della propria naturale fragilità che la parabola dell’individualismo moderno ha finito per obnubilare ma che, una volta riabilitata, spinge gli individui a riconoscere la propria insufficienza e dipendenza dall’altro. Ma per superare la visione dicotomica priorità dell’io e priorità dell’altro riconoscendo la comune vulnerabilità si pone la necessità di dare e ricevereattenzione ed empatia, generando un Sé “disposto a mettersi in gioco, a lasciarsi alterare e contaminare dall’altro da Sé”5.

 

 Il sorgere del sentimento empatico

Ogni rapporto sociale che possa definirsi autentico ha il suo inizio nel momento della domanda, attraverso cui è possibile percepire la richiesta dell’altro, il suo bisogno o un suo desiderio: esattamente come il paradigma del dono6, anche l’etica della cura abbisogna di un momento iniziale il cui approccio si potrebbe definire come attenzione all’altro, allo scopo di comprendere le altrui necessità in modo da aprirsi all’alterità, ampliando il nostro orizzonte esperienziale tramite un processo di immedesimazione in vista di cui la relazione è resa a-portata-di, un domandare che rende la relazionalità consapevole della propria libertà. Quest’ultima consiste in una totale assenza di meccanicismo poiché la possibilità di scelta relazionale, possibilità che si esplicita proprio grazie al domandare che permette all’individuo di comprendere la nuda vulnerabilità dell’altro. L’umano è capace di porsi la domanda perché il suo rapporto con l’alterità si accende come momento prettamente fenomenologico su cui si sviluppa un meccanismo pluridimensionale che rende conto della complessità umana nei processi di apprensione. L’esperienza di questo “contatto” con il mondo come esperienza empatica è ciò che ci permette di vedere l’altro nella sua realtà come componente della nostra esperienza empirica a cui, però, si aggiunge la chiassosa e intricata realtà dell’umano, facendo sì che l’empatia stessa non possa esistere sotto il tetto di una definizione univoca. Seppur dotata di origini più antiche di quanto il senso comune supponga7, l’empatia soggiorna sempre presso l’aleatorio e l’indefinito, una chimera di cui a tratti si dubita dell’esistenza, a tratti se ne rivendica il primato.

Sin dalla sua prima pubblicazione nel 1739, il Trattato sulla natura umana di David Hume costruiva una prima sistematizzazione della “nostra propensione a provare simpatia per gli altri, e a ricevere per comunicazione le inclinazioni e i sentimenti altrui”8, in cui il tratto saliente è la simpatia, termine che ha ben poco a che vedere con la corrente accezione ma facilmente accostabile all’empatia in senso classico. Quest’ultima rappresenta la nostra capacità di cogliere le passioni altrui, grazie ai loro segni espressivi, per poi assumerle a nostre vivide esperienze attraverso l’immaginazione, in forza di quella che viene chiamata una “rassomiglianza” comune fra umani. Dividendo fra una simpatia diretta e una indiretta, Hume definisce l’umano come un essere capace di immedesimazione nell’altro – e per l’altro – arrivando ad usare, per il primo caso, il termine contagio in cui diventa difficile distinguere il Sé dall’altro ma che, invece, risulta una capacità essenziale per istituire un’autentica dimensione morale della simpatia riflessiva9. A conclusioni simili giunge anche Adam Smith, lo stesso ideatore della Causa della ricchezza delle nazioni, che, come cultore della straordinaria profondità umana, definisce la simpatia come un sentimento di partecipazione all’esperienza e alle affezioni altrui, demolendo il luogo comune utilitarista dell’egoismo dominante e avallando l’idea di un essere umano che si interessi alla sorte altrui10. Come per Hume, l’immedesimazione avviene sempre grazie ad un progetto immaginativo per mezzo del quale bisogna supporre sé stessi in presenza di uno spettatore immaginario, il quale valuterà imparzialmente l’appropriazione di una passione nel contesto sociale; questa simpatia riflessiva palleggia tra gli interlocutori rispetto allo spettatore, cercando di accaparrarsi la stima di quest’ultimo come individui che vivono correttamente11. Nonostante le non indifferenti discrepanze, entrambe sono audaci ricostruzioni ma che funamboleggiano su due errori fondamentali. Innanzitutto, i due autori pongono come fondamento della simpatia l’essere umano come naturalmente relazionale, affidando alla simpatia stessa un ruolo di sostegno nelle relazioni. In più viene sostenuta la ferrea idea di un contatto diretto tra atto simpatico e atto morale, originando l’etica delle relazioni da un processo di immedesimazione che autonomamente non potremmo mai definire totalmente corretto né sufficientemente esaustivo per costruire l’agognata società giusta.

Uno dei capitoli più fecondi della storia dell’empatia è stato incentrato sugli studi fenomenologici, in cui autori come Edmund Husserl e Max Scheler, grazie ad un approccio interdisciplinare, hanno elaborato la riflessione in direzione del momento genetico dei vissuti di coscienza ma, senza dubbio, è a Edith Stein che bisogna guardare per una ambiziosa trattazione basata sull’esperienza soggettiva12. Con la pubblicazione nel 1917 de Il problema dell’empatia, l’allieva di Husserl analizza la problematica a partire dalla datità dell’altro che, facendo parte della Lebenswelt (il mondo della vita), risulta parte integrante della quotidianità di ogni individuo, trattandosi di un naturale riferimento intenzionale degli atti di coscienza. La scoperta dell’altro diviene la problematica centrale, un fenomeno stratificato in cui risulta necessario approfondire il modo in cui il soggetto vive tale esperienza, un soggetto psicofisico, un Io che sente, pensa e desidera e che fa parte del mondo, mantenendo comunque la sua autonomia13. Il sentire (percepire) l’alterità come attività empatica, perciò, si complica a causa di una pluralità di qualità percettive, emotive, comunicative e cognitive, generando un modo di percepire che sconvolge la percezione stessa del mondo altrui in cui si è coinvolti: “l’empatia – secondo Stein – è un movimento in cui l’io abbandona il recinto della propria vita interiore e va presso l’altro, in un luogo che oltrepassa i confini della propria esperienza”14.

A causa di svariati eventi di diversa natura quali i conflitti mondiali, l’ascesa del dominante pensiero heideggeriano e gli incessanti sviluppi della tecnica, le diverse riflessioni sull’empatia hanno subito una drastica e distruttiva battuta d’arresto, facendo cadere nel dimenticatoio diversi decenni di riflessione sui rapporti umani con e nel mondo. Nuova vita venne data a queste ricerche fra gli anni ’80 e ’90, quando un gruppo di ricercatori dell’università di Pavia capitanati da Giacomo Rizzolatti si dedicò allo studio della corteccia premotoria, con lo scopo di studiare, attraverso degli elettrodi, i neuroni specializzati nel controllo motorio della mano di un macaco. Come molte grandi scoperte, anche quella dei neuroni specchio avviene per serendipity: mentre un membro del team era propenso a prendere una banana dal cesto preparato per l’esperimento, alcuni neuroni della scimmia, intenta ad osservare, si attivarono e se in un primo momento gli sperimentatori pensarono ad un errore delle apparecchiature, ben presto divenne chiaro che si trattava di un evento reale, sorpassando l’idea che tali neuroni fossero destinati ad esclusive funzioni motorie. Una serie di test proseguiti fino al 1995, dimostrano l’esistenza anche nell’uomo di determinati meccanismi neuronali, identificando anche le precise regioni cerebrali in cui stazionano questi complessi elettrici; il meccanismo di mirroring, perciò, è innanzitutto la capacità quasi “neurologicamente programmata” di cogliere gesti, sensazioni ed emozioni a cui l’uomo partecipa non in maniera mentalistica e fredda ma coinvolgendo tutto il corpo per mezzo di un processo intuitivo e non logico. L’empatia come capacità di rapportarsi e comprendere gli altri deriva da e unisce una multidisciplinarità di ambiti, rendendo incosciente il coinvolgimento totale dell’individuo in una onnicomprensività di processi che ancora oggi sono poco chiari.

Per quanto questa breve ricostruzione storica basti per definire la non linearità di questo fenomeno, negli ultimi trent’anni l’interesse per l’empatia è cresciuto nella speranza che essa possa essere il nucleo tematico nelle relazioni sociali, legandosi a ideali come altruismo e generosità. Eppure è abbastanza chiaro che l’empatia è una costellazione molto più fitta di quanto supposto finora, soprattutto in riferimento alla neuroscienze che hanno ancor di più intricato il lavoro invece di semplificarlo, cercando delle variabili empatiche che possano essere dovute a singolari differenze prettamente individuali legate allo stato d’animo, alla motivazione e alla sensibilità, all’interno di una architettura neurale in cui la creazione e la modulazione delle risposte empatiche si modificano nel corso del vissuto15. In termini più semplici, le neuroscienze contemporanee hanno rivelato determinati fattori che senza dubbio influenzano la nostra azione empatica nel corso della vita, ma risultano comunque fattori incalcolabili e inidentificabili: l’umano non è un computer in cui tutto può entrare in un database ben definito ed essere sempre a portata della nostra memoria, non siamo in grado di comprendere quanto il nostro vissuto ci influenzi, non comprendiamo cosa eserciti maggiore influenza sulla nostra psiche, né possiamo applicare “tranquillamente” statistiche all’essere umano quasi fossimo tutti modelli standard generati con uno stampo. Per poter dare una definizione apparentemente univoca dell’empatia è necessario in primo luogo cessare di concederle uno statuto sostanziale con una attribuzione teorica sostenuta solo da parziali fattori d’osservazione, per cominciare a pensarla come azione e, in secondo luogo, data la pluralità di esperienze, sarebbe epistemologicamente corretto allontanarne l’idealizzazione per poter parlare di empatie “in cui contesti e le cui differenti manifestazioni portano alla scoperta scarti, limiti […] che restituiscono una versione più relativistica e radicale della grande scommessa delle relazioni con gli altri”16. L’empatia non è un sentimento con una matrice etica bensì un sentimento sociale che si oggettiva non nell’affidamento alla morale, ma in una sensibilità basilare propria dell’essere umano e correlata alla capacità di agire con cui sperimentiamo l’esistenza di altri differenti da noi. Sulla scia di Laura Boella la si potrebbe definire come una risposta che mette in contatto ciò che sta fuori di noi, allo stesso modo di alberi e case, un atto con il quale conosciamo noi stessi e gli altri, impegnandoci nel mondo in quanto esseri che si muovono, che agiscono e patiscono, per scoprire facce della realtà che dipendono dall’esistenza dell’alterità17. Quali esseri che agiscono nel mondo, siamo sicuramente accomunati dalla nostra vulnerabilità ma che, come individui, ci differenziamo nell’esperienza del mondo che è propriamente singolare: l’empatia è ciò che più permette di riconoscere la nostra nudità di umani, quindi i nostri bisogni, come agiamo, viviamo e ci formiamo per mascherare la fragilità allo scopo di garantirci protezione e sopravvivenza.

Si è a più riprese definito l’empatia come un sentimento prosociale18, un sentire che si pone a favore della socialità, che la fonda e la sostiene appiattendola come un sentimento schiettamente positivo e costruttivo. Sarebbe più consono e realistico, invece, definirla come pre-sociale, con cui si indica una possibilità orientativa per mezzo di cui si dirige l’esistenza. In una prima accezione il termine indica un’antecedenza cronologica rispetto al legame sociale: senza il contatto empatico non sarebbe possibile istituire una qualsiasi relazione poiché i due mondi che entrano in contatto non si potrebbero mai integrare, restando piantati sulla propria individualità, impedendo non solo la comunicazione con l’altro, ma anche l’allargamento dell’orizzonte della lebenswelt, realizzando una chiusura ermetica dei confini del soggettivismo individualistico. In seconda battuta, la pre-socialità sta ad indicare come l’empatia prescinda dai legami già instaurati e si inserisca nell’universo umano come capacità di essere in contatto anche con chi non “appartiene” direttamente ai nostri campi d’esperienza19; è palese che il più delle volte sia più facile entrare in sintonia con chi ci è più vicino e di cui conosciamo maggiormente storia ed esperienza, ma questa non è una clausola imprescindibile. Arnold Gehlen, ponendo la moralità come un processo che si cristallizza con la condivisione, pone un forte accento sulla capacità umana di comprendere la naturale difficoltà di conservarsi in vita: il processo empatico che ci permette di sentire come l’altro non risulta un processo chiuso e finalizzato, ma ci permette di avviare un procedimento autocoscienziale che ci invita a porre quesiti come “come mi sentirei io in quelle condizioni? Cosa farei al suo posto?”. La presa di coscienza delle radici fattuali della nostra fragilità è l’elemento connaturato in virtù del quale possiamo comprendere l’altro come simile a noi, deficitario e bisognoso, debole e cosciente della sua debolezza. Proprio in ciò consiste la libertà della relazione, dalla scelta o “capacità” di sentire vicino l’altro, seppur nella sua unicità in cui la domanda assume la connotazione ontologica di modo di esplicitare ciò che è oscurato. L’empatia, perciò, assume lo stesso significato della domanda come momento sia esterno che interno alla relazione sociale20: non solo la sua posizione fluttuante concede senso all’intero circolo del rapporto di cura ma, trattandosi di un sentimento assolutamente non morale, rappresenta la scintilla che accende la dinamica relazionale. La moralità, perciò, possiede origini non morali che derivano in ultima istanza da radici biologiche: l’empatia e i neuroni specchio, le basi antropobiologiche in forza delle quali nascono i quattro sentimenti arcaici di comunità21, dimostrano l’empatia così intesa come una capacità spiccatamente umana per mezzo di cui è possibile costruire la società così come esiste oggi.

L’empatia come sorgente di moralità si serve del processo immaginativo per riuscire a correggere automatismi e parzialità in forza dei quali si dirige la nostra esistenza come individui. Lo spostamento verso l’etica, infatti, richiede un ulteriore passaggio, ovvero quello dell’azione e dell’impegno con cui si intende una prassi concreta22, ovvero la risposta del momento zero alle richieste e ai bisogni dell’alterità; la risposta come presa di coscienza ha la possibilità di generare dei sentimenti morali come forme eticamente motivanti, una serie di “sentimenti virtuosi e disinteressati, o meglio, virtuosi in quanto disinteressati; e che vanno dunque distinti dalle passioni genericamente intese, le quali includono anche aspetti distruttivi, egoistici o perlomeno ambivalenti”23. L’agire morale, perciò, si palesa come una dinamica che ha la sua oggettivazione in ciò che di più umano esiste, ovvero nella possibilità di agire non in senso istintuale ma come un insieme di trasformazioni che coinvolgono dimensioni pratiche, biologiche e cognitivo-coscienziali: l’origine del legame sociale si basa sulla sfera mentale con cui l’umanità lascia cadere i propri d’orizzonte per aprirsi all’alterità che si costruisce con un vero e proprio processo di invasione24.

 

 Giustizia e cura emotiva

Non basta rivalutare il ruolo dell’empatia per ristabilire il valore dell’etica della cura. Il sociale è costituito da diversi modelli di approccio con cui si approvvigionano diversi regimi d’azione basati sui paradigmi egemoni su cui gli individui basano il loro agire e le loro risposte alle sfide quotidiane: nel mondo contemporaneo, in diretta connessione con il modello egemone rawlsiano25, la morale dominante di kantiana memoria prescrive un individuo isolato, indipendente e autosufficiente, agente sulla base del self-interest, una morale universalistica e inflessibilmente astratta, istituita su concetti quali giustizia e uguaglianza come palliativo e giustificazione per l’azione individualistica. La cura necessita, innanzitutto, una rivalutazione e un cambio di prospettiva rispetto alle valutazioni dettate dai parametri egemoni: pensare l’individuo come razionale e autoreferenziale, in linea di massima non risulta né corretto né scorretto ma semplicemente parziale, poiché confina in un piano suppletivo la relazionalità, ormai interpretata come sintomo di debolezza e incapacità di adattamento. Fuor di dubbio, il primo approccio a questa tematica è stato fornito da Gilligan che, dimostrando l’insufficienza del paradigma corrente maschile, propone una soluzione etero-diretta che s’incentrerebbe per lo più su di un principio di cura che riprende l’approccio della donna alle relazioni26. Anche questa prospettiva fagocitativa, che presuppone un’egemonia metodologica, è stata fortemente criticata da Joan Tronto che, per necessità di una contestualizzazione contro i processi astrattivi, parla dei tre confini morali, il primo tra vita morale e vita politica, il secondo confine del “punto di vista morale” con cui si deve necessariamente individuare un punto di vista distante e disinteressato che venga valutato in base alla nostra comprensione e, infine, il confine tra sfera pubblica e sfera privata27: in questo modo la cura viene qualificata come una prassi politica dotata di un contesto e di un senso in grado di potenziarne l’efficacia e la praticità. La prospettiva dell’integrazione tra i due paradigmi non istituisce una mutua esclusione o la necessità di un surclassamento, non si tratta di contestare la legittimità del criterio “maschile” dell’equità, né di sostituirlo con quello “femminile” della responsabilità ma di mostrarne la reciproca necessità, poiché la divisione tra i due approcci è in primo luogo totalmente artificiale e, in più, perché l’accoglienza di una sola delle due ideologie dipende dalle sfide che è in grado di sostenere, evitando di costruire una morale che prescinda dal contesto: “se l’etica della giustizia si fa carico della difesa dell’uguaglianza (contro l’oppressione e le disuguaglianze), l’etica della cura si fa carico della tutela delle relazioni (contro l’abbandono e il danneggiamento che ne deriva per la persona)”28. Si esplicita, perciò, sia la dipendenza e la vulnerabilità umana come fattore che si può definire ontologico, sia l’importanza della dimensione affettiva nelle relazioni umane, rivelando il problema delle motivazioni dell’agire etico e la centralità delle emozioni nella scelta.

Se la cura prescrive la necessità dell’empatia, nonché il concetto di immedesimazione, le emozioni non vanno più considerate come criteri meramente pulsionali delegittimate dal fattore irrazionale dell’umano ma rappresentano una chiave per la comprensione del nostro Sé e dell’alterità: riprendendo il filo conduttore costruito da John Elster, “le emozioni non sono ‘sabbia nel meccanismo della razionalità’ ma forze motivazionali che presuppongono credenze e giudizi e che orientano il nostro agire e le nostre scelte, sia sul piano individuale che sociale”29. Non appena la cura penetra integralmente il tessuto sociale, ciò che va in prima istanza ripensato non è solo l’individuo nella sua relazione ma anche gli ideali dominanti, primo fra tutti quello della giustizia che cessa di esistere nel suo etere metafisico per venire “macchiato” dalla presenza del fattore emotivo. Martha Nussbaum rivaluta la dimensione affettiva della giustizia in un serrato confronto con le teorie di Rawls, del quale pur accettando la validità del modello, gli oppone un’integrazione, data la necessità di risolvere i problemi da essa generati, che fanno capo ad una asimmetria insormontabile tra poteri e capacità degli esseri viventi30: smontando il modello contrattualistico, infatti, viene elaborata la teoria delle capacità che, presupponendo un ampliamento della teoria liberale dei diritti e basandosi su quelle che sono state definite le capabilità di matrice convivialista, sostiene la possibilità di riconoscere anche la realtà della dipendenza e del bisogno dell’umano, giustificando l’inclusione degli individui in società a cui va necessariamente garantito il diritto inalienabile in quanto esseri viventi. Riportando l’uguaglianza su un terreno estremamente pratico, le emozioni rendono conto del riconoscimento dell’umana condizione di bisogno e dipendenza e le relazioni reciproche. Ma in che modo? O, meglio ancora, quali sono le motivazioni che inducono alla ricerca di giustizia? E quale ruolo posso avere in questa ricerca le emozioni? In primo luogo, come già dimostrato, si deve rinunciare al paradigma dell’egoismo dominante, fioriera di aberrazioni e riduzioni che dimostrano che il vantaggio reciproco non è sufficiente per spiegare le cooperazioni e, in secondo luogo, riscoprendo il valore degli affetti e delle relazioni come componenti antropologiche dell’essere umano.

Un esempio riassuntivo quanto chiaro è quello della compassione, un sentimento31 morale che insorge nel momento in cui siamo testimoni della lesione della dignità di un individuo e della violazione dei suoi diritti, portandoci alla domanda di giustizia nei suoi confronti. La compassione, definita da Nussbaum “una dolorosa emozione occasionata dalla consapevolezza della immeritata disgrazia di un’altra persona”32, assume una connotazione singolare, trattandosi di una capacità di espandere i confini del Sé proprio come l’amore; per essere certi che si tratti effettivamente di compassione, l’osservatore deve possedere tre requisiti basilari, un giudizio di serietà della sofferenza altrui, la valutazione della natura non meritata della sofferenza e, infine, il giudizio eudaimonistico secondo cui l’osservatore conserva sempre il suo Sé individuale rispetto all’altro ma riconosce quest’ultimo come parte del complesso dei suoi interessi33. Cum-patire, condividere la sofferenza, si presenta come un tratto specificatamente umano, un sentire che permette il riconoscimento della comune nudità: l’orizzontalità del cum (con) prescrive l’inevitabilità della condizione umana segnata dall’indelebile presenza non solo della vulnerabilità ma anche della possibilità e talvolta necessità di non potersi esonerare dalla socialità, intesa non come semplice legame sociale sancito e protetto dalle istituzioni, ma come possibilità di essere-in-comune grazie alla capacità di comprendere l’altro tramite una trasmissione di informazioni che non sia di matrice genetica come negli animali. Il senso comune potrebbe rilanciare un nuovo interesse per le emozioni, rivalutandone l’importanza e la necessità per ergere su di esse un intero sistema per le prestazioni sociali ma questo non deve far dimenticare i limiti intrinseci alle stesse passioni, che possono essere di natura distruttiva e fuorviante. Mandeville denuncia alla compassione la partecipazione alle disgrazie altrui da cui deriva il disagio alla vista della sofferenza, Nietzsche vi vede il depotenziamento della natura umana nella partecipazione alla sofferenza, o ancora Weil che si attiene ferreamente alla sua distinzione dalla pietà che implica una relazione fusionale tra individui, ingenerando addirittura nell’odio ma è ad Hannah Arendt che bisogna guardare per una riflessione più attenta. In Sulla rivoluzione l’autrice non nega l’importanza di tale sentimento nella comprensione dell’altro, né tantomeno esorcizza la capacità umana di comprensione dell’altro, ma ne denuncia l’ingresso nella sfera pubblica, trasformandosi in politica della pietà non solo perché trasforma l’altro in un oggetto indistinto e senza volto, cioè gli “infelici” del popolo, ma anche perché tale sentimento glorifica la sofferenza altrui che lo stesso sentimento vuole abolire: “senza la presenza della sfortuna, la pietà non potrebbe esistere e quindi ha bisogno dell’esistenza degli infelici, allo stesso modo come la sete di potere ha bisogno dell’esistenza dei deboli”34. A tal proposito la filosofa le oppone la solidarietà non come sentimento ma come principio che guida l’azione; certamente divengono evidenti i limiti della compassione da questo punto di vista ma ciò non legittima ogni sospetto verso ogni tipo di sentimento nella sfera pubblica. Ciò che si reputa necessario è quella che Nussbaum definisce educazione alla compassione per la quale vanno utilizzati strumenti istituzionali e mediatici per stimolare adeguatamente la capacità empatica ed immaginativa come fondamento della compassione35, una rivalutazione che risulta particolarmente cogente di fronte alle sfide odierne.

Il merito della prospettiva del sentimentalismo morale è quello di dare un inaspettato scossone alle teorie della giustizia oggi in voga, concedendo attenzione non all’individuazione delle disuguaglianze partendo da un modello astratto e artificialmente perfetto, ma ripiantandole nel concreto, riconoscendo ai sentimenti una funzione eticamente attiva che spinge la domanda di giustizia a partire dalla “percezione dell’ingiustizia, sia che questa ci riguardi personalmente, sia che riguardi altri più o meno prossimi”36. Tenuta ferma l’idea che la logica dell’homo oeconomicus risulta pur sempre di matrice sentimentalistica, poiché l’egoismo è inevitabilmente e per definizione un sentimento morale di relazione, risulta ormai chiaro che esistono una pluralità di moventi per l’agire umano, tanti quanti sono i sentimenti che testimoniano la natura dell’umano come essere sociale37, quali bontà, generosità, senso civico, sentimenti disinteressati nati dalla relazione empatica. Da ciò si origina il riconoscimento come normatività sociale, fondendo insieme i precetti etico-morali degli individui: il riconoscimento rappresenta la pretesa normativa implicita nel domandare della cura, rendendoci capaci di una pluralità di atti derivanti dai sentimenti, in virtù dei quali nasce la relazionalità, di qualsiasi natura essa possa essere: “è solo quando la violazione delle attese normative genera un sentimento […] che possiamo parlare di ‘esperienza dell’ingiustizia’”38.

Ora, se è vero che ogni identità prendente un riconoscimento, è altrettanto vero che non tutte le identità ne sono degne, e questo implica che per interrogarsi sulla loro legittimità è necessario sottoporre al vaglio critico l’intera prospettiva dei sentimenti morali, in particolare sulle motivazioni affettive che spingono alla domanda di giustizia, soprattutto per quel che concerne una impellente distinzione tra invidia e indignazione, per le quali si può parlare di domanda legittima e domanda illegittima. Si è sostenuto nella maggior parte dei casi39 che l’invidia si nasconda dietro istanze nobili ed emancipative, un insieme di impotenza, rancore e spirito di vendetta, una posizione in larga parte condivisibile le cui radici, però, rappresentano una vera e propria impasse per la giustizia. A conferma della sua rilevanza, John Rawls, in una analisi inaspettatamente approfondita, la definisce come una passione in grado di dare origine a condotte autolesioniste che possono portarci a rinunciare ai nostri stessi vantaggi pur di non accordare benefici e privilegi agli altri40, una definizione certamente corretta ma che non coinvolge le motivazioni all’origine della domanda di giustizia. Invidia, risentimento, vendetta potrebbero “essere ab origine, e nostro malgrado, le passioni che stanno a fondamento di queste motivazioni”41, una visione piuttosto miope perché intaccata da una forte parzialità e da una palese e pungente ricerca di egoismo scellerato. Ancor più interessante, però, è l’elaborazione rawlsiana di una differenza specifica tra risentimento e indignazione: “sono sentimenti morali. Il risentimento è la nostra reazione alle offese e ai danni che i torti degli altri ci infliggono; l’indignazione è la nostra reazione alle offese che i torti degli altri infliggono a terzi”42. Si potrebbe obiettare con Pulcini che l’indignazione non insorge solo alla vista dell’ingiustizia subita da altri ma anche a quella subita in prima persona e, in secondo luogo, non viene colto il carattere regressivo del risentimento come derivazione dell’invidia. Il risentimento si origina dal sentimento di impossibilità di realizzazione di cui l’individuo ha una ben chiara consapevolezza, cioè quando siamo coscienti del nostro diritto a determinati “beni” (siano essi materiali o immateriali) ma siamo impossibilitati ad averli, situazione a cui reagiamo covando rancore reiterato nel tempo che ci intossica la personalità43. Questa reazione ad una offesa, vera o presunta che sia, si nutre principalmente del fattore del confronto con l’altro, una percezione di inferiorità di noi stessi da cui non possiamo fuggire, una passione “triste” che ci consuma instancabilmente con sfoghi distruttivi. Proprio per questo può essere distinta dall’indignazione, definita da Cartesio come l’invidia “giusta”, una passione che subentra nel momento in cui si è spettatori di successi altrui chiaramente infondati e immeritati, una passione timotica oggettivata nell’ira e che nella storia ha alimentato movimenti emancipativi contro l’ingiustizia44. Si tratta di un sentimento dotato del carattere della mesotès aristotelica45, in cui è certamente presente una reazione ma che non ricade negli eccessi sterili e distruttivi. L’analisi qui presentata istituisce la necessità di riconoscere quali passioni, di volta in volta, siano all’origine delle lotte sociali, più o meno generalizzate, per distinguerle da quelle che sono costruite su legittime domande di giustizia, poiché “la qualità del conflitto e le sue potenzialità emancipative […] dipendono dalle passioni che le animano”46.

La risposta ai bisogni altrui, il momento di percezione della necessità di cura, non resta circoscritto alle dinamiche strettamente mentali ma, coinvolgendo le emozioni che orientano il nostro agire e dando nuova vita ai nostri stimoli, coinvolge l’intero essere umano, dalla politica alla psiche, dalla morale all’economia e alla sociologia, una vera concezione che ad oggi si ha tutto il diritto di definire sulla matrice gehleniana come antropobiologica. L’invisibile filo conduttore che collega l’umanità non è un costrutto artificiale ma è la scintilla divina della cura, non un atteggiamento ma un modo d’essere, di esistere, che pertiene propriamente all’umano.

 

 


Note con rimando automatico al testo

1 E. Pulcini, Per una filosofia della cura, in La società degli individui, n. 38, 2010, in part. cit. p. 1332.

2 Ibidem cit.

3 Cfr. J. Tronto, Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura, a cura di A. Fracchi, trad. it. N. Riva, Diabasis Edizioni, 2013 Parma, in part. pp. 20-22.

4 Ivi, cit. p. 22.

5 E. Pulcini, Cura di sé cura dell’altro, in Revue du M.A.U.S.S., n. 39 2012, cit. p. 58, Trad. it. mia.

6 Su questo tema si confronti A. Caillé, Anti-utilitarismo e paradigma del dono. Le scienze sociali in questione, a cura di F. Fistetti, Diogene, 2016 Campobasso, in part. pp. 28-30.

7 È comune pensare che l’empatia sia un dato rigorosamente scientifico, creato e sviluppato “in laboratorio” e che possa essere dimostrato esclusivamente per via scientifica.

8 D. Hume, Trattato sulla natura umana, in Opere filosofiche I, a cura di E. Lecaldano, trad. it. A. Carlini e E. Mistretta Laterza, Roma-Bari 1987, cit. p. 332.

9 Cfr. E. Pulcini, Tra cura e giustizia, Bollati Boringhieri, 2020 Torino, p. 21.

10Cfr. A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, Istituto dell’enciclopedia italiana, Roma 1991, in part. p. 3.

11 Cfr. E. Pulcini, Patologie del riconoscimento. Riconoscere che cosa? in Quaderni di teoria sociale, n. 8, 2008.

12 Trattandosi di una dissertazione di dottorato, L’opera di Stein non ha “pretese fondative”, rendendola non uno scritto secondario ma piuttosto uno scritto di nuovo stampo che permette di porre nuove domande e nuove prospettive.

13 Cfr. L. Boella, Empatie. L’esperienza empatica nella società del conflitto, Cortina editore, Milano 2018, in part. pp. 98-99.

14 Ivi, cit. p. 101.

15 Cfr. ivi pp. 29-31.

16 Ivi, cit. p. 116.

17 Cfr. ivi p. 117.

18 Cfr. E. Pulcini, Tra cura e giustizia ma anche L. Boella, Empatie.

19 In questo caso ci si sta riferendo all’altro distante nello spazio e nel tempo, ovvero a chi è geograficamente lontano e alle generazioni future.

20 Cfr. A. Caillé, Anti-utilitarismo e paradigma del dono, p. 28.

21 Ci si sta riferendo alle quattro regolamentazioni sociali elaborate da Gehlen all’interno dell’opera che rappresenta una svolta storica del suo pensiero, ovvero Morale e ipermorale, ovvero reciprocità, ethos della cura dei più piccoli, ethos della cura della famiglia (o stirpe) e la creazione di sistemi di regolamentazione della socialità.

22 Cfr. E. Pulcini in Tra cura e giustizia, p. 30.

23 Ivi, cit. p. 27.

24 Per una interpretazione sociale dell’empatia si consideri anche M. Betzler, Ripensare l’importanza morale dell’empatia, in Cura ed emozioni. Un’alleanza complessa, a cura di E. Pulcini e S. Bourgault, Il Mulino, Bologna 2018.

25 J. Rawls in Una teoria della giustizia, espone il modello contrattualistico come irriducibile, necessario e pertinente alla società neoliberale, fornendo una base ideologica a sentimenti quali egoismo, narcisismo e autonomia per costruire un ideale di umano totalmente accentrato sui propri bisogni.

26 A ben guardare, infatti, la prospettiva di Gilligan ricade nell’errore contestato alla stessa società patriarcale, rendendo non solo insoddisfacente dal punto di vista psicologico ma anche quello della traducibilità del sociale la problematica della cura che resta confinata nel privato. Su questo tema si consideri E. Pulcini, Tra cura e giustizia, pp. 35-36.

27 Cfr. J. Tronto, Confini morali, pp. 24-29.

28 E. Pulcini, Tra cura e giustizia, cit. p. 35.

29 E. Pulcini in Cura ed emozioni, cit. p. 26.

30 Cfr. M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, a cura di C. Faralli, Il Mulino, Bologna 2007.

31 In questo contesto, come suggerisce Pulcini, è oggettivamente conveniente e corretto utilizzare passioni ed emozioni come sinonimi, per quanto siano proprio le passioni ad incidere sensibilmente sui nostri processi cognitivi, sulle nostre relazioni e sui nostri comportamenti.

32 M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, a cura di G. Giorgini, trad. it. R. Scognamiglio, 2004 Bologna, cit. p. 362.

33 Ivi, cit. p. 366.

34 H. Arendt, Sulla rivoluzione, Einaudi, trad. it. M. Magrini, 2009 Torino, cit. p. 94.

35 Cfr. M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, p. 507.

36 E. Pulcini, Tra cura e giustizia, cit. p. 55.

37 Cfr. ivi p. 56.

38 Ivi cit. p. 58.

39 Il riferimento qui è ai teorici contrattualisti come Friederich von Hayeck e Helmut Schoeck.

40 Cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, trad. it. U. Santini, Feltrinelli, Milano 2019, in part. p. 496-498.

41 E. Pulcini, Tra cura e giustizia, cit. p. 61.

42 J. Rawls, La giustizia come equità. Saggi 1951-1969, Liguori, Napoli 1995, in part. p. 163, in E. Pulcini, Tra cura e giustizia, cit. p. 62.

43 Cfr. E. Pulcini, Tra cura e giustizia, p. 63.

44 Sul tema dei movimenti emancipativi si confronti H. Arendt, La disobbedienza civile.

45 Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, Libro VII, 11108-b1, 7.

46 E. Pulcini, Tra cura e giustizia, cit. p. 67.