In dialogo con Plotino

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Schiarimenti filosofici

  
Presunto busto di Plotino e il suo ritratto nella raffaellesca  Scuola di Atene  

  

§1. Il pensiero non è autofondato: la differenza tra cominciamento e inizio (Principio)

Che cosa si intende per cominciamento? Che differenza cʼè tra cominciamento e inizio? Se Plotino potesse rispondermi, asserirebbe senzʼaltro che il mio cominciamento personale non coincide affatto con lʼinizio assoluto, con ciò che è a Principio. Lʼinizio è già sempre iniziato, da sempre pensato e autopensato, e ora, proprio ora, ricomincia a pensarsi anche con me.

Il cominciamento è un da capo: è ripensare di nuovo ciò che è sempre già iniziato. Iniziato nelle pratiche discorsive e nei pensieri sterminati di altre vite passate che mi hanno preceduto nel tempo, e che però si incontrano nellʼattuale presenza vivente di me che penso.

Plotino, ispirato da Socrate e Platone, è stato il primo a disfarsi dellʼarrogante pretesa che il pensare sia un inizio assoluto. Egli con estrema umiltà ritiene che la coappartenenza di pensiero ed essere non sia primigenia, né si connota come traguardo ultimo della ricerca metafisica del senso, ma inerisce appunto allʼambito secondo del Nous, quale sfera noetica delle puntualità eidetiche, da cui sgorgano intuizioni che si articolano in connessioni di idee, evidenze irrecusabili, primi cominciamenti, intenzionalità teleologiche che spingono ad esempio la ricerca scientifica ad aggiornarsi e a progredire, piuttosto che arenarsi in una tautologica ed insensata superlegge che esiga di spiegare definitivamente come siamo fatti.

Il pensiero dunque lungi dal reggersi in se stesso è invero preceduto da un fondamento incondizionato sovracategoriale che lo presuppone, e seguito da un orizzonte di infinita ricomprensione sempre travalicante ogni tentativo di afferramento concettuale definitivo e irrevocabile. Percorrendo questa genuina e antiidolatrica pista di ricerca, il cominciamento è colto non come la trasparenza a sé del puro pensare, ma come lʼoscura prepersonale e ultrapersonale presenza-assenza dellʼUno, che nel suo profilo di negatività si autopone come origine e limite di ogni conoscenza, come luminosità e adombramento dellʼumano pensare.

LʼUno affida a ognuno di noi la responsabilità dei pensieri che elaboriamo, sicché si afferma negandosi e si nega affermandosi; egli cioè si lascia incontrare, ma non si lascia possedere (affirmatio negati); rimane trascendente, ma pure ci sprona a trascendere il limitato insieme a lui, evitando che possiamo insignorirci nella precarietà delle poche certezze raggiunte (negatio affirmati). Molte cose insomma non capiamo e ci dominano, eppure su quel poco che ci è concesso cogliere o esplicitare, tutto ciò che possiamo proferire ha valore ipotetico congetturale, mai assoluto.

Questo è il grande insegnamento del mite Plotino che rende tuttora fertile il terreno della philosophia perennis: se nessuna strategia della ragione finita può contenere la verità dellʼUno, ciascuna filosofia, sia metafisica sia naturalistica, deve da un lato deporre la propria insensata volontà di dominio e di possesso esclusivo, ma dallʼaltro mantenersi aperta alla varietà delle evidenze originarie fenomeniche, in cui lʼUno cʼè e non cʼè, si manifesta occultandosi e si occulta manifestandosi.

 

§2. Le ipostasi che pensano e ciò che è al di là

Nelle splendide Enneadi1, i protagonisti con un denso valore ipostatico sono tre: lʼUno, il Nous e lʼAnima. LʼUno è la sorgente ultrapensante che traspare come ápeiron (senza limite), áneidon (senza essenza), ámorphon (senza forma), ovvero come la semplicità assoluta coincidente con la più alta e intensiva autoconcentrazione di un pensare che è se stesso prima ancora della sua deiscenza nel pensante e nel pensato. Il Nous che discende da quello opera come dialettica di pensiero ed essere, nella guisa dellʼ‘Uno-che-pensa’ e dellʼ‘Uno-che-è’, dove il rapporto tra intelligibile pensato e intellettibile pensante, noetòn e noeròn, si configura come un’identità a un tempo relazionale e intenzionale: identità relazionale, perché l’essere è, al livello della seconda ipostasi, sempre essere del pensiero e il pensiero sempre pensiero dell’essere; ma anche identità intenzionale, perché è solo l’atto del pensare che conferisce vita al Nous, la sua peculiare e concreta vita pensante.

Ad un livello inferiore è situata lʼAnima, quale intreccio di sensibile ed intelligibile, di tempo ed eterno, in cui si dipana lʼoperare umano: la prassi, che trae il suo potere energetico e la sua misura nello sforzo inesausto di conformarsi al Nous. Tanto più lʼAnima attiva i processi di accordo con lʼipostasi noetica, tanto più si avvicina al vero; quanto più si indebolisce nel suo potere di trascendenza, tanto più si lascia guidare dagli impulsi corporei.

AllʼUno, accennavamo pocʼanzi, non si addice perciò pensiero o autoriferimento riflessivo in senso proprio, poiché il necessario legame del pensiero col pensato introdurrebbe nellʼUno una dualità. Il pensiero dellʼUno è per così dire pronoousa noesis, un pensiero senza differenza, immanente e senza un oggetto. O ancora hypernoesis, pensiero pre-pensante, o non pensiero, che precede atemporalmente ciò che nel Nous si dà come identità del pensante e del pensato, in cui il da pensarsi deve essere inteso come lʼessere delle idee che appartiene direttamente al Nous, ovela molteplicità delle medesime idee viene condotta in unità in sé differenziata mediante il pensiero che il Nous ha di se stesso. Pensare se stesso (identità) o pensare le idee (differenza) è dunque un unico atto immediato.

Si potrebbe ancora definire il Nous come lʼarchetipo del Pensiero o Pensiero assoluto orientato stabilmente verso lʼUno, giacché danzandovi intorno non cessa mai di vederlo, ma anzi più lo guarda più gli assomiglia, più si muove vorticosamente verso di lui, più si acquieta nella stasi della pace eterna, dellʼeterno riposo nella pienezza della simultaneità: hesychia.

Diversamente dal Nous che è da sempre e per sempre consapevole di tutti i suoi pensieri, in quanto è pienamente in atto ognuno di essi e si raggiunge in tutti e ciascuno, nellʼanima si gioca una dialettica interna di saputo e non saputo a causa dello scarto tra ciò che vive immediatamente e la mediazione riflessiva di siffatti vissuti.

Essa, partendo dalle informazioni o dalle tracce provenienti dal mondo empirico, e servendosi del Nous che è a lei immanente, pensa, ossia diviene consapevole di ciò che inconsapevolmente ha sempre saputo. Tuttavia, se per lʼAnima è impossibile non percepire, può certamente decidere di non servirsi del Nous, conducendo una vita agita, piatta e orizzontale, senza alcuna tensione anagogica verso le alture del senso. Se invece si lascia guidare dalla luce ultraluminosa del Nous sarà in grado di sperimentare un istinto primigenio capace di dischiuderle ciò che prima ignorava, sebbene percepiva.

Insomma, nellʼAnima pensare equivale a ricordare, ovvero dischiudere un a priori rimasto latente; il che significa esplicitare un contenuto che implicitamente abitava già nel suo intimo e che la sapienza del Nous ha portato a chiarezza e distinzione. Eʼ in effetti questo il significato pregnante e raffinato della reminiscenza.

Per intendere meglio come lʼattività gnoseologica dellʼAnima si squaderni dialetticamente in due opposti e complementari registri, quello della percezione e quello dellʼintellezione, può essere risolutivo ricorrere ad un esempio, anche se scelto sulla base di un gusto personale.

Immaginiamoci nel bel mezzo di unʼindagine poliziesca di Montalbano, il protagonista della squadra mobile di Vigata, suscitato dalla feconda mente di Andrea Camilleri. Come accade in tutti gli episodi, il commissario si ritrova gettato immediatamente in una situazione di fatto che allʼinizio non padroneggia e che riesce ad interpretare solo oscuramente, in modo vago ed indeterminato. Il suo è un colpo dʼocchio preventivo e prudente: una prensione originaria sulla cosa stessa – potremmo definirla.
Ha appena rinvenuto un cadavere, ma a causa della sua compromissione non ha ancora identificato né a chi appartenga, né chi sia il colpevole. Eppure, avverte una qualche sensazione circa il come possano essere andate le cose, giacché non si limita semplicemente a percepire, ma anzi ritornando riflessivamente su ciò che è accaduto e sollevando quellʼimmediatezza percepita, esplicita ciò che nella scena del crimine lo interpella davvero. Egli insomma ricostruisce la possibile successione dellʼevento delittuoso non solo connettendo dinamicamente le varie informazioni che ha raccolto da sé e dalla scientifica, ma fiutando con innato istinto lʼapax, lʼimpronta tra le impronte, quella rivelativa che non ha visto nessun altro: altro che evidentemente si è fermato alla superficie, accontentandosi solo di ciò che la percezione ambiguamente gli suggeriva.
Decentrando di consueto il mero darsi delle cose, Montalbano è sempre in grado di partecipare dello sguardo non prospettico del Nous, intuendo la retta pista di ricerca e comprendendo ciò che inconsapevolmente pre-comprendeva già. Eʼ come se Montalbano vedesse la verità prima ancora di vederla, la comprendesse prima ancora di comprenderla; infatti, accordando il proprio pensiero e la propria azione col piano noetico, il Nous può emergere dentro di lui come lʼistinto che gli sussurra: non è questa la strada, guarda meglio; vai avanti, ma non così!
Soltanto alla fine, una volta saputo come si sono dispiegati gli eventi e risolto il caso, il commissario porta con sé quella strana sensazione di averlo in fondo già sempre saputo, sebbene non tematicamente.

 

§ 3. Lʼantico dilemma greco: in che modo dallʼUno i molti?

Le classiche metafore della sorgente zampillante, della sovrabbondanza eccedente e dellʼirraggiamento benevolo, concernenti lʼautodispiegamento dellʼUno, non forniscono alcuna peculiare spiegazione. Esse lavorano piuttosto al modo del mito che ci introduce con indubbio fascino nel vivo della questione per poi togliersi dando la parola alla dialetticità del Logos.

Ebbene, come può lʼUno, che è al di là di tutto, porre i molti? La sua assoluta negatività e trascendenza renderebbe infatti inconcepibile la possibilità che lʼUno sia molti; eppure, se prestiamo attenzione, la esige, perché solo ciò che non è ogni ente o è al di sopra di esso può considerarsi la sua origine e il suo principio assoluto. Ma Plotino non si ferma qui, ci dice di più e con una saggezza che qualifica il suo stile intrepido e ardimentoso di fare filosofia:

 

ma come lʼUno è principio di tutte le cose? Forse in quanto le conserva e fa si che ciascuna sia unità? Certamente, e anche perché le ha tratte allʼesistenza. Come? Poiché le possedeva già. Ma così lʼUno sarebbe molteplicità. Le possedeva già ma non distinte: esse sono distinte solo in un secondo momento, nel Verbo dellʼIntelligenza, dove ormai sono in atto: lʼuno invece era la potenza di tutte le cose2.

  

Se lʼUno si limitasse a trarre allʼesistenza i molti che possiede già, sarebbe molteplicità; ma i molti sono indistinti nellʼUno e distinti solo in un secondo momento nel Nous, paese dei possibili e spazio degli apriori dove si attuano.

LʼUno, dunque, in quanto potentia possibilitas, ha in sé ogni altro come non ancora esistentificato, come non ancora differente, come non ancora opposto, ossia come unità implicativa che tende poi a dispiegarsi come distinta indistinzione nel pléroma, ove ogni idea è se stessa (distinta) e ogni altra (indistinta):

 

Lassù tutto è trasparente […] ognuno è manifesto ad ogni altro nel suo intimo, poiché la luce è manifesta alla luce. […] Ognuno porta in sé tutto e in ogni altro vede tutto: perciò ogni cosa è tutto e ciascuno è tutto e lo splendore è infinito. […] Eppure ogni singolo essere è diverso e, nello stesso tempo, tutte le cose appaiono in esso3.

 

Nel cosmo del pure essenze, Tutto è in tutto in modo peculiare a ciascuno, benché una tale forma di relazionalità sui generis, conservi nel singolo punto eidetico una dynamis ad esso particolare.

Il tutto ovvero la totalità dellʼessere è così primo generato; esso è pienezza, identità ed essere: è Pensiero. In questa intima koinonia di essere e pensiero si squaderna la molteplicità degli intelligibili: le idee, in cui ogni punto coincide con il centro, il diametro e la circonferenza del Nous (sphairon apeiron). Nelle idee è infine racchiuso lʼavanprogetto del mondo, la trama della psyché panton, che dimensionalizzandosi si lascia partecipare dalle singole anime, concretizzandosi in ognuna di esse.

Dobbiamo specificare però che nella processione dallʼUno al Nous non cʼè caduta, in quanto questʼultimo è la massima forma di unità possibile dopo lʼUno; il Nous è lʼUno che riflette su di sé e che attraverso tale autoriflessione si pensa come Sapienza autooriginaria, ovvero come puro sapere che non ha da sapersi, perché si sa ab initio. La caduta è invece da rintracciare nella terza ipostasi, poiché il mondo dellʼAnima non avrebbe dovuto esserci: è un mistero insoluto che ci spinge a non sottrarre lo sguardo dal Nous, a non lasciarci trascinare sempre più in giù dallʼinerzia della materia, ma anzi a riflettere sempre di nuovo sul Fondamento: lì difatti si cela il nostro nome eidetico e la nostra essenza primordiale.

  

§ 4. Lʼincontro con lʼUno e la fuga di solo a Solo

Basterà un semplice contatto interiore. Ma durante il contatto non si avrà affatto né la possibilità né il bisogno di parlare: solo più tardi si potrà ragionarci sopra. Ma in quellʼistante bisogna credere di aver visto, quando lʼanima coglie improvvisamente la luce. Poiché questa luce proviene da Lui o meglio è Lui stesso. In quellʼistante bisogna credere che Egli sia presente. […]. Questo è il vero fine dellʼAnima: toccare quella luce e contemplarla mediante quella stessa luce […] con quella stessa con la quale si vede. Poiché la luce dalla quale è illuminata è la luce che essa deve contemplare. […]
Ma come può avvenire questo? 
Elimina ogni cosa4.

 

Con queste folgoranti parole, seppur foderate di semplicità, Plotino ci racconta lʼhenosis, indiamento che travalica non solo la successione temporale ma anche il principio di contraddizione, allorché la luce grazie alla quale lʼAnima vede è la stessa che essa contempla. Visione dellʼUno come visione della luce significa allora toglimento della differenza nella luce assoluta stessa. Vuol dire che il Principio della Luce, sorgente della possibilità della visione, è il Fine della visione.

Proprio attraverso un simile autoabbandono nellʼammaliante limpida oscurità della Luce, lʼanima potrà pervenire alla più alta forma possibile di identità, poiché vedendo lʼUno lʼanima si vede uno sia nellʼUno sia in se stessa o nellʼUno in se stesso.

E in effetti, a pensarci bene, afele pánta (elimina ogni cosa) cosʼaltro potrebbe significare se non unʼaudace sforzo di aphaeresis, di semplificazione, o meglio di singolarizzazione? Il ritorno allʼUno, lʼepistrophè, è infatti una phyge monou pros monon (fuga di solo a Solo): un processo di risalita estremamente individuale ed individuante che si fonda primariamente nel compimento del singolo Io: tanto più sarò Io, quanto più sarò simile a Dio: unità indeclinabile sovraessenziale: 

Lʼanima [nel suo percorso ascensivo] giunge non ad un altro ma a se stessa; e cosi poiché non è in un altro, non può essere in nulla ma solo in se stessa; ma essere in sé sola [..] vuol dire in Lui; e il contemplante diventa non essenza ma al di là dellʼessenza, poiché si unisce a Lui. Se uno si vede già trasformato in Lui, egli possiede dunque in sé unʼimmagine di Lui e se passa da sé, che è copia, allʼoriginale, ha imboccato finalmente il termine del suo viaggio5. 


Plotino, beninteso, ci sta mostrando la sua esperienza dʼunità, non ci sta affatto dimostrando lʼesistenza di Dio. Non ha questa vana pretesa. Egli è come se guardandoti negli occhi ti dicesse: non posso convincerti che Dio esiste, ma se ti fai interno a te stesso, trovi un indizio. Quellʼindizio è lʼindivisibile unità dellʼAnima: una traccia dellʼUno che è intuitivamente afferrabile da ognuno di noi come lʼunicità dello stile: stile quale nota distintiva di ogni essere umano; stile, quale timbro enigmatico che accompagna ogni gesto, emozione e azione; stile, ancora, come irripetibilità dello sguardo: ogni anima difatti è uno sguardo di Dio inedito ed insostituibile sulla propria creazione, cui Dio stesso non rinuncerebbe mai.

 

 

 

Note con rimando automatico al testo

1 Cito lʼopera (dʼora in poi abbreviata Enn.) nella traduzione italiana curata da Giuseppe Faggin, pubblicata dalla Bompiani in un unico volume, nell'anno 2000. La traduzione è stata condotta sul testo greco stabilito da P. Henry-H. R. Schwyzer in Plotini Opera, Oxford, 3 voll., 1964-1982 (la cosidetta editio minor che in più punti supporta l'editio maior, Paris-Bruxelles, 1951-1973). Oltre alle pagine della traduzione di Faggin, menzionerò anche l'indicazione del numero dell'Enneade, del trattato e , quando occorre, dei righi, sempre sulla base della suddetta editio minor.

2 Enn. V 3, 15 p. 849.

3 Enn. V 8, 4 . p. 911

4 Enn. V 3, 17 p. 855

5 Enn. VI 9, 11 p. 1363