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NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
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Il sogno di Giacobbe: sacramentum crucis, axis mundi

 

 

1.

Al ciclo dei racconti patriarcali1 appartiene anche la storia di Giacobbe, figlio di Isacco, narrata nel libro della Genesi2: chiaramente spartita in tre sequenze, essa si incentra sulla disputa per la primogenitura in competizione col fratello gemello Esaù, sull’allontanamento dalla casa paterna e il rifugio presso Labano, fratello della madre Rebecca e, infine, sulla riconciliazione tra i due fratelli; il transito narrativo da un quadro all’altro della storia è marcato da un incontro teofanico con Jhwh: dapprima lo ἱερὸς λόγος del somnium del protagonista (28, 10-22), quindi la lotta con l’angelo/Dio (32, 23-33).

Durante una sosta notturna lungo il percorso da Beèr-Shèba a Ḥarràn, Giacobbe s’addormenta e sogna:

 

12 Fece questo sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo, e i messaggeri divini vi salivano e vi scendevano.

13 Ed ecco Jhwh, standogli davanti, gli disse: «Io sono Jhwh, il Dio di Abramo, tuo padre, e il Dio di Isacco. Il paese dove sei coricato lo darò a te e alla tua discendenza».3

 

Attraverso la visione onirica, la contemplatio/θεώρησις, Jhwh si rivela, mostra la sua presenza, disponendo la persona al servizio del suo disegno di salvezza; in questo caso è Giacobbe a ricevere la conferma della predilezione e della protezione di Jhwh4.

Il somnium trova poi domiciliazione in un ambito spaziale stigmatizzato infine dalla nuova toponomastica giacobita:

 

16 Giacobbe si destò dal sonno. «Ma allora in questo luogo c’è Jhwh» disse «e io non lo sapevo». 17 Con timore religioso, proseguì: «Quanto è tremendo questo luogo! Questa è davvero la casa di Dio, questa è la porta del cielo!». 18 Alla mattina presto, Giacobbe si alzò, prese la pietra che aveva usato come guanciale, la eresse a stele e versò olio sulla sommità. 19 Chiamò quel luogo Betel, mentre prima di allora la città si chiamava Luz.

 

Nel giro di pochi versetti è ripetuto per sei volte il sostantivo māqôm/«luogo», solitamente impiegato per marcare la sacralità di un luogo (santuario, tempio, «casa» di Dio). Infatti, anche dopo la lotta notturna:

 

31 Giacobbe chiamò quel luogo Penuel: «Perché ho visto Dio faccia a faccia e ho avuto salva la vita».

 

Se in entrambe le circostanze il suffisso -el dei due toponimi vuole rimarcare la presenza dell’Iddio/El, che propriamente significa “Colui che è potente”, dapprima localizzato in una bêt/casa (“casa di Dio”) ascritta a luogo cultuale mediante l’unzione con l’olio, poi definendone la persistenza locativa mediante il prefisso pe(“davanti a Dio”), appare rilevante nel primo caso che la trama del racconto si dispiega come scoperta di un luogo sacro, inizialmente sconosciuto infine consacrato sia con l’unzione, sia con l’erezione di una stele mediante l’uso della pietra ch’era servita come guanciale5.

L’episodio esplicita una dimensione verticale attraverso l’uso del verbo che significa “stare” (nṣb): la scala sta appoggiata sulla terra (v. 12), Jhwh sta davanti; il termine che significa “stele” contiene la stessa radice del verbo: l’uso prevalente del vocabolo maṣṣēbâ/stele, legato in senso generale alla sfera del sacro, significa nello specifico “un ricordo tangibile della presenza o di un’esperienza di YHWH”6. Dalla condizione orizzontale del sonno, Giacobbe si desta al risveglio innalzando la stele/totem (v. 18), sembrando questa dare forma concreta all’evanescenza della scala sognata7.

Raffaello, Scala di Giacobbe nelle Logge vaticane

 

2.

e nostra scala infino ad essa varca,

onde così dal viso ti s’invola. 69

Infin là su vide il patriarca

Iacobbe porger la superna parte,

quando li apparve d’angeli sì carca. 72

 

Il passaggio dal cielo di Saturno all’ultima spera (v. 62), ovverosia all’Empireo, il luogo proprio della beatitudine data dalla visio Dei, avviene, nel Paradiso dantesco (canto XXII), per il tramite di una scala che sembra non avere fine, poiché lo sguardo dell’uomo non è in grado di raggiungere il limite di uno spazio che ha i tratti sovrumani dell’immensità, come denunciano i verbi accuratamente prescelti dal poeta per tentare di esprimere l’ineffabilità della beatitudine una volta lasciato l’universo materiale e temporale: varca e s’invola; ed è proprio Benedetto da Norcia, comunemente ritenuto – e certamente da Dante – il padre del monachesimo occidentale, ad attivare il raffronto analogico con la scala di Giacobbe:

 

5 Unde, fratres, si summae humilitatis volumus culmen attingere et ad exaltationem illam caelestem ad quam per praesentis vitae humilitatem ascenditur volumus velociter pervenire, 6 actibus nostris ascendentibus scala illa erigenda est quae in somnio Iacob apparuit, per quam ei descendentes et ascendentes angeli monstrabantur. 7 Non aliud sine dubio descensus ille et ascensus a nobis intelligitur nisi exaltatione descendere et humilitate ascendere.

8 Scala vero ipsa erecta nostra vita est in saeculo, quae humiliato corde a Domino erigatur ad caelum.

9 Latera enim eius scalae dicimus nostrum esse corpus et animam, in qua latera diversos gradus humilitatis vel disciplinae evocatio divina ascendendo inseruit.8

 

L’ascensio per gradus è senz’altro paradigmatico dell’esercizio teoretico e la scala ne rappresenta, per typologiam, l’ἒμβλεμα più diffuso e circostanziato. Già Filone, agli inizi del I sec. nel clima cosmopolita del giudaismo ellenizzante alessandrino, ne aveva rimarcato la connotazione ascetica; nel commentario allegorico sulla scala di Giacobbe9 egli riconosce quattro sensi: la scala rappresenta anzitutto l’aria tra cielo e terra ove si muovono angeli e anime; poi l’anima, l’atleta in senso ascetico e, da ultimo, l’instabilità della condizione umana. Traducendo le vicende scritturali in categorie filosofiche greche, risemantizzando il lessico platonico, aristotelico e stoico10, Filone definisce appunto Giacobbe «intelligenza ascetica», «asceta della virtù»11: nell’ambito della triade Abramo-Isacco-Giacobbe, simboleggianti i τρόποιrispettivamente della μάθησις, della φύσις e della ἂσκησις, il terzo patriarca è «il tipo dell’asceta, nel senso proprio del termine, ossia di colui che si esercita nella virtù»12.

Nonostante l’elaborazione ermeneutica filoniana, praticata anche sull’episodio di Giacobbe con l’angelo/Dio13, «l’allegorizzazione di Giacobbe e della sua visione in senso ascetico era restata esigua ed episodica»14 in un primo tempo e soltanto con la Regula benedettina è probabile che l’immagine della scala possa essersi diffusa nella letteratura medievale15.

Non mancano tuttavia testimonianze provenienti dalle teologie orientali, ove pure l’esercizio della perfezione modellato sulla figura della scala è ben documentato, fra gli altri, da Gregorio di Nissa nella Vita di Mosè16,del 390 ca.: il padre cappadoce ce ne illustra una θεωρία, ovvero una riflessione interpretativa per la quale la vita, e non solo quella del legislatore biblico, è «paradigma dell’anima che aspira alla virtù, alla perfezione, ovvero a Dio, senza mai raggiungere la fine»17. Sul modello dell’alessandrino Origene (185 ca.-dopo il 25018) nella Omelia sui Numeri 1719, l’itinerario dell’anima a Dio è icasticamente delineato quale ascesa continua e inesauribile: Mosè «non smette mai di salire» (μηδέποτεὑψούμενονπαύεσθαι20), trattandosi della κλῖμαξdi Giacobbe, alla quale s’era appoggiato Dio21. È evidente la derivazione da Plotino del «motivo dell’insaziabilità nella contemplazione del bello (= del bene) intelligibile» e del «simbolo della scala per illustrare il progresso continuo nella contemplazione del bello. Gregorio ha connesso i due motivi e ha dato loro fondamento scritturistico grazie al collegamento con la scala di Giacobbe. Così egli formula il principio dell’ἐπέκτασις sulla base della successione τέλος-ἀρχή: ogni perfezione raggiunta è inizio di un bene più grande nell’ascesa di una scala i cui gradini non finiscono mai»22.

 

 

3.

Fra le opere autentiche di Ippolito, attivo nei primi decenni del III sec., sarebbero comprese le Benedictiones Isaac et Jacob23, ove, documentando per la prima volta la lettura del Primo Testamento in funzione cristologica sulle tracce di Paolo di Tarso, Giacobbe è interpretato come prefigurazione simbolica di Cristo:

 

La croce è la scala di Giacobbe […]. Quest’albero dalle dimensioni celesti si è alzato dalla terra ai cieli, fissandosi – pianta eterna – in mezzo tra il cielo e la terra, sostegno dell’universo […] giuntura del mondo, che tiene riunita la varietà della natura umana […] toccando con il suo vertice la sommità del cielo (XXXIII 52).

 

La stessa simbologia è presente nei sermones di Cromazio di Aquileia (338/340-407/408):

 

Unde non immerito scalam se vidisse in ipso loco Iacob patriarcha retulit, cuius caput pertingebat ad coelum, et Dominus incumbebat super eam. Scala firmata a terra usque ad coelum, crux Christi est, per quam nobis introitus ad coelum est24

 

e, nello stesso torno di tempo, nel XIX carme di Paolino di Nola (335 ca.-431), il grande proprietario terriero nativo dell’Aquitania, non solo cresciuto alla scuola retorica di Ausonio, ma anche in contatto diretto con i vescovi delle più influenti chiese occidentali, come Ambrogio di Milano e Martino di Tours, ed epistolare con gli intellettuali cristiani più in vista, come Sulpicio Severo, Agostino, Girolamo, Eucherio di Lione, Rufino di Aquileia, Vittricio di Rouen. In uno dei suoi carmina natalicia composti per la festa di san Felice di Nola, adattando alle esigenze cristiane della venerazione dei santi il genere classico del γενεθλιακόν, appunto il XIX, gli ultimi versi endecasillabi elaborano una trionfale dossologia della croce di Cristo:

 

O crux, magna Dei pietas, crux gloria coeli,

crux aeterna salus hominum, crux terror iniquis,

720 et virtus justis, lumenque fidelibus. O crux,

quae terris in carne Deum servire saluti,

inque Deo coelis homine regnare dedisti:

per te lux patuit veri, nox impia fugit.

Tu destruxisti credentibus eruta fana

725 gentibus, humanae concors tu fibula pacis

concilians hominem medium per foedera Christi.

Facta hominis gradus es, quo possit in aethera ferri.

Esto columna piis tu semper, et anchora nobis,

ut bene nostra domus maneat, bene classis agatur

730 in cruce fixa fidem, vel de cruce nacta coronam25

 

nonché nel De Jacob et vita beata di Ambrogio di Milano:

 

Et profectus est Jacob, et dormivit, quod est quieti animi indicium: et vidit angelos Dei ascendentes et descendentes (Gen. XXVIII, 11, 12), hoc est, Christum praevidit in terris, ad quem angelorum caterva descendit atque ascendit, obsequium proprio domino pio praebitura servitio (Matth. IV, 11).26

 

In tutt’altro contesto storico e ideologico, toccherà, per così dire, a Rabano Mauro (780-856), monaco, abate di Fulda, arcivescovo di Magonza, letterato formatosi alla scuola di Alcuino27, comporre una sorta di summa ermeneutica del sogno di Giacobbe nel suo Commentarium in Genesim, quasi ricapitolando il repertorio esegetico precedente28:

 

Somnus iste Jacob mors sive passio est Christi. Lapis ad caput eius, qui nominatim quodammodo dictus est, etiam unctus Christus significatur. Caput enim viri Christus est. Quis enim nescit Christum ab unctione appellari? Domus autem Dei, quia ibi natus est Christus in Bethlehem. Porta vero coeli, quia ibi in terram descendit, ibi iterum ad coelum conscendit. Erectio autem lapidis resurrectio Christi est. Porro scala Christus est, qui dixit: Ego sum via (Joan. XIV). Per hanc ascendebant angeli, et descendebant, in quibus significati sunt evangelistae praedicatores Christi, ascendentes utique, cum ad intelligendam eius supereminentissimam divinitatem excedunt universam creaturam, ut eum inveniant (III 14).29

 

A dispetto dell’incontrastata incidenza sulla spiritualità di cultura bizantina, non ebbe infatti immediata fortuna nel mondo occidentale La scala del paradiso di Giovanni Climaco, che si diffuse invece per iniziativa del milieu spirituale francescano30 fino a giungere agli ambienti pietisti pel cui tramite la conoscerà Kierkegaard31.

 

La scala del paradiso di Giovanni segna la fine dell’età tardo antica. Al tempo della sua stesura, le armate islamiche avevano già invaso Antiochia, Gerusalemme e Alessandria. Da allora i monaci delle chiese ortodosse, ogni anno durante la Quaresima, avrebbero letto quel testo a voce alta nel refettorio. Per guidare le anime Giovanni aveva semplicemente abbozzato la traiettoria di un percorso, lasciando all’esperienza dei suoi discepoli la soluzione dei paradossi da lui appena sfiorati. Giovanni aveva alle spalle tre secoli di saggezza spirituale.32

 

 

4.

Nel Dialogo con Trifone, scritto verso il 160 dall’apologista palestinese Giustino33, il cap. 86 è dedicato all’individuazione e all’interpretazione delle figure che nel Primo Testamento appalesano la croce34:

 

Le Scritture dunque dimostrano che dopo essere stato crocifisso egli deve tornare di nuovo alla gloria. Ascoltate ora come egli racchiudesse il simbolo dell’albero della vita [ξύλον ζωῆς], che è detto essere stato piantato nel paradiso, e di ciò che sarebbe successo a tutti i giusti (86, 1).

[Giacobbe] disse anche che gli era apparsa una scala e la Scrittura ha mostrato che su di essa stava appoggiato Dio […]. Lo stesso Dio che gli è apparso attesta che in quel medesimo luogo Giacobbe, versando dell’olio su di una pietra, consacrò una stele al Dio che gli si era manifestato (86, 2).

 

Il testo assembla quasi tutti gli elementi più significativi degli sviluppi successivi: qui importa sottolineare l’applicazione dell’albero della vita/albero della croce alla scala di Giacobbe, che sarà seguita da altri interpreti: Tertulliano, ad es., nell’Adversus Marcionem35 (II/III sec.) delinea chiaramente lo sviluppo cristologico delle figure veterotestamentarie come segno salvifico, sacramentum della croce, sulla scia delle premesse gnostiche del II sec., che su basi platoniche e stoiche elaborano il concetto della croce come segno cosmico; seguito da Cipriano e da Ippolito, presso il quale la scala è immagine della croce (εἰκὼν σημείου πάθους Χριστοῦ) che conduce alla cima dell’albero dove i fedeli possono salire sino ai cieli36.

È chiara la rinnovata accezione semantica del termine sacramentum, propriamente acquisito dal linguaggio militare e giuridico nel senso di promessa di fedeltà o di iniziazione suggellata da un giuramento. Nel corso dell’allestimento di un proprio lessico teologico, a partire dalle traduzioni dei testi biblici, il cristianesimo trova anzitutto a disposizione il deposito tradizionale latino assunto in veste semantica rinnovata, prima ancora di affermare veri e propri neologismi. Nel nostro caso, il biblico μυστήριον riesce omologato a sacramentum37, che recupera la vasta estensione semantica del termine greco, dai sacra, agli arcana, al secretum, agli initia38, a partire dalla radice sac-, nella quale l’elemento religioso dell’invocazione della divinità e quello giuridico della proclamazione sotto giuramento si associano tanto all’interdizione quanto all’elevazione delle vette e dei culmini39.

Partendo dal maestro Tertulliano, il cartaginese Cipriano incardina la sua teologia sul concetto chiave del sacramentum ed è con esso ch’egli designa i fatti della vita di Cristo; così la morte sulla croce è sacramentum crucis nel De zelo et livore:

 

Si de sacramento crucis et cibum sumis et potum, lignum quod apud merrham profecit in imagine, ad saporis dulcedinem tibi in veritate proficiat ad mulcendi pectoris lenitatem, nec ad medelam prosperandae valetudinis prospera bis.40

 

Tali interpretazioni, preparate dal giudaismo41, sono alimentate dal sustrato mediterraneo antico, ove il motivo della scala in quanto collegamento tra il divino e l’umano si avverte tanto presso le popolazioni della Tracia quanto presso i Greci42, nonché all’interno delle religioni misteriche: e basti il rinvio alla scala mitriaca e ai gradini platonici nel Simposio (ὥσπερ ἐπαναβασμοῖς χρώμενον: 211c).

Non è dunque un’eccedenza esegetica l’accostamento della scala/croce all’archetipo assiale, il cui simbolismo è stato studiato da René Guénon43, nonostante le riserve teologiche espresse ad es. da Hans Urs von Balthasar, secondo il quale sono superati i confini dello spazio teologico cristiano «quando la croce diventa un’idea simbolica e universale che si esprime in maniera analogica nelle più disparate religioni e visioni del mondo, tra cui il cristianesimo»44. Secondo lo studioso francese esso è un simbolo propriamente analogico, poiché stabilisce «il rapporto di ‘ciò che è in basso’ con ‘ciò che è in alto’»45. La scala, infatti, «è come un ‘ponte’ verticale che si eleva attraverso tutti i mondi e permette di percorrerne l’intera gerarchica passando di piolo in piolo; nello stesso tempo, i pioli sono i mondi stessi, cioè i diversi livelli o gradi dell’Esistenza universale»46. Equiparando la scala e la pietra di Giacobbe ai betili e all’Omphalos47, il cui esempio più noto è quello delfico, Guénon poteva individuare in tali simboli la raffigurazione del pilastro del mondo, dell’asse (axis mundi) fisso «intorno al quale si compie la rivoluzione di tutte le cose»48.

Nonostante le rimostranze degli essoterici, non esprime forse assai bene la pretesa dell’atrofia empiristica49 l’acquerello di William Blake che ostenta il ripiegamento di Newton inabile ad oltrepassare le linee tracciate dalle aste del compasso?

 

 

Note con rimando automatico al testo

1 Le storie di Abramo, di Isacco e di Giacobbe occupano la seconda parte del libro della Genesi, dal capitolo 12 al capitolo 50 finale. Nello stesso tempo esse si collocano al centro di un sistema narrativo che vede l’incipit assoluto costituito dalla prima parte di Genesi (capp. 1-11) e la conclusione nei libri dall’Esodo al Deuteronomio, laddove i tre ‘gironi’ mettono a tema le relazioni che le diverse ‘figure’ di Dio stabiliscono dapprima con l’umanità (il Dio creatore/ʼĕlōhîm), poi con i padri (il Dio della promessa/ʼēl šaddaj), infine con Israele (il Dio del patto/JHWH). Cfr. G. Borgonovo, Torah e storiografie dell’Antico Testamento,Torino, Elledici, 2012, p. 102.

2 Capp. 25; 27-37,1; 42; 45, 16-28; 46-50.

3 Ricorro alla traduzione di Gianantonio Borgonovo, in La Bibbia. Genesi e gli altri libri del Pentateuco, Milano Arnoldo Mondadori, 2000, p. 65. La traduzione ‘ufficiale’ di uso liturgico differisce lievemente, traducendo «gli angeli di Dio» in luogo di «messaggeri» (v. 12) e «Signore» in luogo del tetragramma «Jhwh» (v. 13). Cfr. La Bibbia di Gerusalemme,Bologna, Centro editoriale dehoniano, 2009, che riproduce il testo biblico di La sacra Bibbia della CEI, editio princeps 2008.

4 P. Coda, Contemplazione, in P. Coda, G. Filoramo, Il Cristianesimo. Grande dizionario, Torino, Utet, 2006, vol. I, p. 264.

5 J.-L. Ska, La scala di Giacobbe (Gn 28, 10-22),in G. Borgonovo, Torah e storiografie, cit., pp. 485-492, capitolo dal quale traggo principalmente le note esegetiche necessarie alla comprensione immediata del racconto, unitamente al commento di F. Giuntoli, Genesi 12-50,Cinisello Balsamo, San Paolo, 2013, pp. 151 sgg.

6 Ivi, p. 154.

7 È plausibile ritenere che si sia trattato di una scalinata affine alle torri a piani o gradoni, ovvero zigurrât, com’era nelle consuetudini mesopotamiche; di per sé nome comune che indica una torre, interpretato poi come una sorta di montagna religiosa, affine dunque all’altare, sulla cui sommità avviene la ierogamia, nel senso dell’incontro tra l’uomo e la divinità. È la soluzione iconografica adottata da Raffaello nelle Logge dal Palazzo Vaticano (1517-1519), difforme rispetto a quella documentata sin dalla metà del IV secolo nell’ipogeo di via Dino Compagni sulla via Latina a Roma e, durante il pontificato di Sisto III (432-440), nel ciclo musivo sulla parete destra della navata centrale di Santa Maria Maggiore, dal quale derivarono quelli delle basiliche martiriali romane di S. Pietro e S. Paolo sotto Leone I (440-461): cfr. D. Nuzzo, Giacobbe,in Temi di iconografia paleocristiana, a cura di F. Bisconti, Città del Vaticano, Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, 2000, pp. 188-190; F. Bisconti, Giacobbe, in Nuovo dizionario patristico e di antichità cristiane,II, Genova-Milano, Marietti 1820, 2007, coll. 2138-2139.

8Regula VII, 5-9. La Regula Benedicti, scritta a Montecassino, è databile al 550. Fonte principale è la Regula Magistri, di poco anteriore (Cfr. V. Recchia, Benedetto, in Dizionario degli scrittori greci e latini, diretto da F. Della Corte, Settimo Milanese, Marzorati, 1990, vol. I, pp. 280-281), «ma esistono anche fonti rintracciabili in Pacomio, Basilio, Agostino, Giovanni Cassiano, nelle Vite dei monaci – ad es. la Vita di Pacomio e la Historia monachorum in Aegypto -, in Cipriano, Leone Magno e non da ultimo nella Bibbia». M. Skeb, Benedetto da Norcia, in Dizionario di letteratura cristiana antica, a cura di S. Döpp e W. Geerlings, Roma, Urbaniana University Press/Città Nuova, 2006, p. 149.

9 Sui sogni 1, 133-156.

10 B. Mondin, Storia della antropologia filosofica,Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 2001, vol. I, p. 153.

11Allegoria delle leggi, III 18; 93.

12 C. Kraus Reggiani, L’esegesi allegorica della Bibbia come fondamento di speculazione filosofica nel giudaismo ellenistico. Aristobulo e Filone Alessandrino, in «Enrahonar», 13, 1986, pp. 40-41.

13Genesi 32, 23-33.

14 S. Pricoco, Monaci, filosofi e santi. Saggi di storia della cultura tardoantica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1992, p. 196.

15 Ivi, p. 212.

16 F. Dünzl, Gregorio di Nissa,in Dizionario di letteratura cristiana antica,cit., ad vocem,p. 475.

17 Ibidem.

18 H. J. Vogt, Origene, in Dizionario di letteratura cristiana antica,cit., ad vocem, pp. 643-644.

19Il viaggio dell’anima, a cura di M. Simonetti, G. Bonfrate e P. Boitani, Milano, Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori Editore, 2007, pp. 65-66.

20 227, 6. Cfr. ivi, p. 152.

21 227, 4.

22 Ivi, p. 416.

23 B. R. Suchla, Ippolito, in Dizionario di letteratura cristiana antica, cit., ad vocem, p. 505. Il corpus attribuito a Ippolito è discusso in C. Moreschini, E. Norelli, Storia della letteratura cristiana antica greca e latina,I: Da Paolo all’età costantiniana,Brescia, Morcelliana, 20073, pp. 338 e sgg. e in L’Anticristo. I. Il nemico dei tempi finali,a curadi G. L. Podestà e M. Rizzi, Milano, Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori, 20132, p. 109.

24Sermo I 93-98, Corpus Scriptorum Ecclesiae Aquileiensis,IV/1, p. 54.

25 «O croce, tu sei la grande misericordia di Dio, o croce, gloria del cielo, o croce, eterna salvezza degli uomini, o croce, terrore per i cattivi, e potenza per i giusti e luce per quelli che credono. O croce che hai reso possibile al Dio incarnato di giovare alla salvezza del mondo e all’uomo di regnare in Dio nel cielo, per te è apparsa la luce della verità e la notte del male è fuggita. Tu hai distrutto i templi degli dèi abbattuti dai popoli credenti, tu sei il vincolo della umana pace riconciliando l’uomo con l’alleanza di Cristo mediatore. Tu sei diventata la scala dell’uomo per la quale possa essere trasportato al cielo. Sii sempre per noi credenti colonna ed ancora affinché la nostra casa rimanga ben salda e sia ben guidata la nostra barca che ha confidato nella croce e che ha ottenuto dalla croce la fede e la corona». Cfr. Paolino di Nola, I carmi, a cura di A. Ruggiero, Roma, Città Nuova, 1990, p. 252; M. Skeb, Paolino di Nola, in Dizionario di letteratura cristiana antica, cit., ad vocem,p. 668.

26PL XIV 651. Lo scritto è databile ai primi del 386: cfr. C. Markschies, Ambrogio di Milano, in Dizionario di letteratura cristiana antica,cit., ad vocem, p. 53.

27Letteratura latina medievale (Secoli VI-XV). Un manuale, a cura di C. Leonardi, Firenze, Sismel, 2014, pp. 98-99. In particolare sull’esegesi biblica in epoca carolingia, cfr. G. Lobrichon, L’esegesi biblica. Storia di un genere letterario (VII-XIII secolo), in Lo spazio letterario del Medioevo,1: Il Medieovo latino, a cura di G. Cavallo, C. Leonardi, E. Menesto, I: La produzione del testo,tomo II, Roma, Salerno, 1993, pp. 366-368.

28 Anche nel genere omiletico la critica sottolinea questo ruolo di ricapitolazione. Cfr. ad es. C. Moreschini, I Padri, in Lo spazio letterario del Medioevo, 1. Il Medioevo latino, cit., I. La produzione del testo, tomo I, Roma, Salerno, 1992, p. 570: «Esistono, quindi, raccolte di omelie di Beda, di Ildefonso di Toledo, di Rabano Mauro, le quali, in sostanza, si possono ricondurre, per la concezione letteraria e per i fini pratici, alle raccolte di omelie di Cipriano, di Ambrogio, di Agostino».

29PL 107, 591-594. Il capitolo continua assegnando tropologice (ivi, 592A) ad ogni elemento narrativo un senso superiore; così, ad es., la scala non solo è intesa come strumento di superamento del dualismo spirito/carne, ma anche come sintesi della composizione della chiesa alla quale presiede come capo il Cristo; gli angeli rappresentano i cives supernae patriae (ivi, 592B), il sogno invece l’acquiescenza alle cose temporali e la chiusura della mente alle cose del cielo. Certi aspetti del pensiero di Rabano Mauro sono riferibili a Origene, le cui opere sono documentate anche nel monastero di Fulda e le sue Omelie costituiscono un punto di riferimento imprescindibili per i commentatori medioevali, cfr. C. Moreschini, I Padri, cit., pp. 572; 578-579).

30Giovanni Climaco, La scala del paradiso,a cura di R. M. Parrinello,Milano, Paoline Editoriale Libri, 2007, p. 166.

31 Ivi, pp.183-185.

32 P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo, Torino, Einaudi, 2010, p. 214.

33 Cfr. G. Visonà,Introduzione, in Giustino, Dialogo con Trifone, Milano, Paoline Editoriale Libri, 20133, pp. 15-16.

34 Ivi, p. 273, n. 1.

35PL II, III, XVIII 346: De figuris prima edocebo.

36De Christo et Antichristo 59, 2. Cfr. L’Anticristo. I, cit., p. 176.

37 Ch. Mohrmann, Études sur le latin des chrétiens, vol. 3, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1965, p. 114.

38 P. Chantraine, Dictionnaire éthymologique de la langue grecque. Histoire des mots,Paris, ÉditionsKlincksieck, 1968, p. 728.

39 G. Semerano, Le origini della cultura europea, II. Dizionari etimologici, **Dizionario della lingua latina e di voci moderne, Firenze, Olschki, 2002, ad vocem «sacer», p. 551. L’autore nega ogni correlazione tra sacer e sancio, tradizionalmente accettata, significando quest’ultimo «perfetto, corretto, messo a punto», ivi, p. 554.

40PL IV, XVII 650.

41Giovanni Climaco, La scala del paradiso,cit., p. 57.

42 Ivi, pp. 58 sgg.

43 R. Guénon, Il simbolismo della croce, Milano, Adelphi, 20122; Id., Simboli della scienza sacra, Milano, Adelphi, 1990.

44 H. U. von Balthasar, Mysterium paschale,in Mysterium Salutis. Nuovo corso di dogmatica come teologia della storia della salvezza, 6: L’evento Cristo, Brescia, Queriniana, 1971, p. 213.

45 R. Guénon, Simboli della scienza sacra, cit., p. 275.

46 Ivi, p. 291.

47 Cfr. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, Bollati Boringhieri, 1976, p. 239.

48 R. Guénon, l re del mondo, Milano, Adelphi, 200616, p. 87. In quanto «albero di Cristo», il simbolo ha interessato anche C. G. Jung, Mysterium coniunctionis. Ricerche sulla separazione e composizione degli opposti psichici nell’alchimia, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 294-295. Cfr. anche, per una trattazione antropologica, J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Milano, Rizzoli, 1986, ad vocem «scala» e W. Burkert, La creazione del sacro, Milano, Adelphi, 20042, p. 113.

49 R. Guénon, Il Demiurgo e altri saggi, Milano, Adelphi, 2007, pp. 190-191. Analoghe riserve, in F. Fabbro, Neuro psicologia dell’esperienza religiosa,Roma, Astrolabio, 2010, p. 167.