Azioni Parallele

La complessità dello sguardo. La complessità come metodo

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Terminologie in conflitto, regole in contraddizione?

 

«Nel mezzo di cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita».

 

Nell'esperienza di ciascuno di noi, il rapporto con la complessità sociale crea una gamma soggettivamente variabile di stati di disagio, che rende progressivamente necessaria, o almeno desiderabile, l'acquisizione di strumenti per decifrare le trame talvolta incomprensibili della realtà e orientarci fra i sentieri intersecati di un territorio che sembra tanto più difficile da percorrere quanto più si moltiplicano le risorse e i vincoli che ne lastricano i percorsi. Ci sentiamo smarriti e pervasi dal desiderio di una comprensione più accurata. Ma, se da una parte aumenta il livello di conoscenza, dall’altra aumenta il livello di ignoranza. La sensazione è di perdersi nella selva oscura, smarriti dentro la ragnatela dell’incertezza. Il rischio quindi maggiore è quello di cadere in semplici e banali valutazioni, per semplificare, e nello stesso tempo, per dare risalto a una situazione di difficile soluzione, sostenere che "tutto è complessità".

Nel momento in cui i tradizionali modelli lineari non riescono a definire e interpretare le condizioni della vita, con tutte le opportunità e i rischi, le traiettorie e le discontinuità che esse portano con sé, la complessità crea inquietudine poiché solleva problemi. Stare nella pluralità rende la complessità una sfida, la problematizza, e ci costringe ad affrontare tutta una serie di quesiti tecnici, tecnologici, scientifici, filosofici ed etici.1

Dal momento che attorno al termine complessità vi è molta confusione, provo, attraverso la riflessione su una serie di categorie concettuali, analitiche e metodologiche a trovare il bandolo della matassa. Provo a seguire percorsi differenti e plurali.

E, consapevole di non poter esaurire tutto lo spettro teorico e concettuale, senza la pretesa di esaustività, propongo un modello epistemologico, dove il sapere del soggetto osservante si fa problema e assume un ruolo primario. Suggerisco pertanto non già una soluzione, ma uno stile e un atteggiamento metodologici.

 

Dal pensiero dicotomico all’indeterminatezza dei confini. 

Siamo tutti condizionati da un “pensiero dicotomico”. Il pensiero dicotomico divide con un taglio netto la realtà in luce e ombra, cancellandone l’ambiguità, la mutevolezza, e ogni sfumatura. Il numero due è un numero pericoloso.

Ma è anche un numero che tranquillizza. E’ all’origine di una serie di categorie oppositive: natura/cultura, maschio/femmina, mente/corpo, razionalità/sentimento, etc. Questo modo di ordinare ha avuto il compito di ridurre il multiforme e indecifrabile caos che è la realtà delle persone e degli eventi a due sole classi contrapposte, che si escludono l’una con l’altra o totalmente in conflitto tra loro.

In letteratura si trovano due interessanti rappresentazioni: una “oggettivista” e una “costruttivista”.

Secondo la posizione oggettivista, le categorie riflettono classificazioni e organizzazioni che esistono in modo indipendente dall’osservatore, cioè sono presenti già in natura. La categoria diventa un insieme che raccoglie al suo interno tutte le cose che possiedono le caratteristiche considerate come intrinseche alla categoria stessa.Il ruolo dell'osservatore è dunque irrilevante.

Nella posizione “costruttivista”, le categorie non sono più viste come nettamente separate, piuttosto sono collocabili in una sorta di continuum. I mutamenti storici e sociali hanno determinato questo cambio di sguardo, generando articolate e plurali visioni del mondo. Gli innumerevoli e contraddittori processi che caratterizzano gli scenari internazionali, dalla seconda metà del secolo scorso – migrazioni, globalizzazione, diaspore, conflitti su base etnica, indurimento dei fondamentalismi, moltiplicazione degli attori globali accanto ai tradizionali governi nazionali – hanno imposto e impongono una radicale reinterpretazione dei processi che coinvolgono soggetti e contesti. E quindi, le classificazioni nette hanno perso rigidità, per lasciare spazio alla flessibilità e quindi all’incertezza.

Ma partiamo da un dato di osservazione sull’oggi e sul noi.

Costruire un concetto significa stabilire dei confini. Limiti, muri, barricate, mentali o reali, hanno permesso di delimitare spazi e costruire identità di appartenenza, senza i quali non ci sarebbe il salto nell’oltre. Ma è stata proprio la ricerca dell'oltre a condurci dal pensiero dicotomico verso il prismatico scomporsi e ricomporsi dei confini: da linee di separazione di culture, concetti, nazioni, e autorità, i confini diventano fasce di sovrapposizione, zone di contatti, di scambi, e di passaggi, intensificati dai nuovi flussi globali, talvolta veri e propri laboratori dell’innovazione politica culturale ed economica. Fulcro centrale è l’interconnessione e la sovrapposizione.2 Il sincretismo e l’ibridazione. Uno spazio totalmente fluido e attraversabile. La vicinanza spaziale non è più garanzia di relazione; al contrario, legami molto stretti possono emergere da forme di connessione tra luoghi anche molto lontani ed eterogenei. Frammentazioni, liquefazioni, ricomposizioni creative, rappresentano i mutamenti categoriali nello spazio sociale, restituendo alla modernità un nuovo paradigma di senso e significato. Bell hooks ce lo ricorda molto bene nel suo saggio Elogio del margine: il confine si rivela, secondo l’autrice, uno spazio critico privilegiato, importante per adottare nuove e più ampie prospettive, e dar voce a forme di resistenza e pratiche contro-egemoniche rispetto a quella cultura del dominio e dell’oppressione che persiste, in forme diverse e più occulte.3 Ciò implica un’indagine seria e responsabile sull’indebolimento in atto dei vincoli spaziali e territoriali e sulle conseguenti trasformazioni delle dinamiche di potere, dell’autorità e della politica.

E ancora. Se i confini, intesi come muri, spariscono, anzi si trasformano, senza scandalo e senza sofferenza apparente, se la crisi delle tradizionali categorie antinomiche segna la fine del pensiero riduzionista aprendo la strada a un nuovo modo di pensare (e di fare scienza), questo si mostra ambivalente. E dal duplice effetto.4

Da una parte il pensiero è incerto, indeterminato, confuso, quindi ostacolo, in quanto reintroduce l’incertezza (anche) nel processo di conoscenza, che era partito trionfalmente verso la conquista della certezza assoluta. E su questo assoluto bisogna davvero metterci una croce sopra.

Dall’altra, mostra il suo aspetto positivo che si fa veicolo di cambiamento, decollo verso un pensiero multidimensionale che include le discipline specializzate come tanti rimandi di una medesima realtà. L’universo categoriale della scienza non è più unitario né omogeneo, non è più dato una volta per tutte.

Esercitare un controllo epistemologico, può significare, per cercare l'espressione più semplice, sforzarsi di sapere cosa fa lo scienziato e allo stesso tempo cercare di interrogarsi non solo sull'efficacia delle teorie e dei metodi disponibili ma anche su ciò che teorie e metodi provocano sugli oggetti da loro determinati.

Se confine è, letteralmente, cum-finis, ciò che mi separa e nel contempo ciò che mi unisce, che ho in comune con l’altro, qualunque cosa l’altro o l’oltre sia o significhi, quale valore assume l’osservatore nel processo di conoscenza? Vi è quindi una vera e propria successione di "rischi epistemologici" ai quali vale la pena di accennare.

 

Sguardi osservanti. La complessità come metodo di ricerca

Che senso ha il diffondersi dell’esperienza della dissoluzione dei confini? Dobbiamo solo subirla? O considerarla positiva? In che senso? In che modo?

Esiste un “oggetto”, un fenomeno, un processo da osservare, ed esiste un “osservatore”, che, preso atto dell’“oggetto”, esprime considerazioni sullo stesso.

Il modo con cui guardiamo i fenomeni sociali fa la differenza, fa emergere dimensioni impreviste e può modificare l’insieme del quadro. Più i fenomeni sociali sono complessi, più la direzione e la profondità dello sguardo sono decisivi, fino a produrre immagini del tutto diverse dello stesso fenomeno. Ne consegue, che l’osservatore moltiplica le interpretazioni e che differenti osservatori contribuiscono a formulare diversi punti di vista e che questi definiscono il livello di complessità di un fenomeno, oggetto di indagine.

L’’irriducibilità dei punti di vista degli osservatori, la loro presenza in sovraimpressione in ogni descrizione, in ogni strategia, e in ogni euristica, provocano conoscenze che si costruiscono e dipendono dalla rete di concrete relazioni di antagonismo, di complementarietà e cooperazione fra i molteplici scenari in gioco. Quindi è più corretto dire che la complessità è il metodo, un metodo che cerca di ristabilire le connessioni fra ciò che è separato, di rompere le sfere chiuse, di comprendere la multidimensionalità, di pensare la singolarità, la località, la temporalità. Il metodo consiste (soprattutto) nella congiunzione di concetti che si combattono e si respingono reciprocamente.Un cambiamento antropologico che riguarda le riflessioni epistemologiche in grado di tradurre la complessità in metodo di ricerca.

Possiamo dire che è una questione di molteplicità e di sintesi di sguardi il presupposto della complessità come metodo?

Forse si, vero è che utilizzare questa prospettiva è un passaggio rilevante, perché significa abbandonare l’oggettività della scienza classica, cioè la concezione dell’essere come insieme di oggetti manipolabili e misurabili, sottoposti al dominio teoretico e pratico del soggetto umano, e assumere un punto di vista relazionale e dialogico nei confronti del conoscere.L’esclusiva attenzione della scienza per ciò che è generale e ripetibile lascia il passo a una presa in considerazione anche di ciò che è insolito, eccezionale, contingente.

La dialogica di Edgar Morin “è una continua corrosione/fertilizzazione, attrazione/repulsione di un termine verso l’altro, anche perché: ogni processo di pensiero, se è isolato, ipostatizzato e spinto al suo limite, cioè non dialogicamente controllato, conduce all’accecamento e al delirio. Il “delirio” è la presunzione in cui cade chi guarda le cose da un unico punto di vista, con un solo paio di lenti, con un solo occhio. Di chi in sostanza scambia la parte per il tutto, il particolare per il generale e soprattutto dal suo unilaterale punto di vista, esclude la validità della conoscenza proveniente da un altro punto di vista. Non a caso, dialogica e dialogo condividono la stessa radice e presuppongono che è nella relazione che c’è più verità (relativa).5

Sono l’intenzionalità del soggetto, la prospettiva con cui egli guarda la realtà, gli obiettivi che egli si pone, gli elementi che consentono l’emersione dei molteplici punti di vista. Conoscere è far agire il sapere, lasciando che gli enti e gli eventi cognitivi accadano senza irretirli in tassonomie, è creare reti non vincolanti di conoscenza.

Ma chi è l’attore di questo ardito compito? E’ il ricercatore, è colui che osserva e costruisce conoscenza. Assumendosi così la piena responsabilità dei risultati.

Una deriva utopica è stata quella di poter eliminare, nelle scienze sociali, l’osservatore. Non soltanto il ricercatore è parte della società, ma conformemente al paradigma ologrammatico accade anche il contrario: la società che egli abita è in lui. Il ricercatore ha una cultura, e questa lo attraversa. E allora, come potrebbe trovare il punto di vista astrale, il punto di vista divino dal quale dovrebbe giudicare la propria come le altrui realtà? Nei processi di interpretazione dell’altro e della diversità, molti sono cadutinell’occidentalismo razionalizzatore, ovvero ignorare la propria collocazione nel divenire storico ritenendosi ingenuamente al centro dell’universo, e sulla cima della ragione!

Queste considerazioni ci guidano verso la seguente regola che funge da traiettoria di senso: l’osservatore-concettualizzatore deve integrarsi nella sua osservazione e nella sua concezione. Deve cercare di capire e accogliere il proprio hit et nunc socioculturale. E questo non è soltanto un ritorno a una modestia intellettuale; è anche il ritorno alla ridefinizione profonda del rapporto tra l’osservatore e il campo.

Si potrebbe dire che si passa dalla dicotomia osservatore-campo alla connessione osservatore-in-campo. Tutto ciò che è osservato nella realtà sociale è osservato da qualcuno che si trova inserito in relazioni sociali e in rapporto al campo che osserva. Il campo inevitabilmente interagisce con l’osservatore: la realtà sociale lo include, è processuale. Non solo. L’osservatore osserva un campo continuamente mutevole. Gli attori sociali, parlano, si muovono, pensano, agiscono, mentre noi li osserviamo. Gli attori sociali siamo poi noi stessi, perché gli altri, i soggetti della ricerca, sono in relazione con noi, almeno quanto noi lo siamo con loro.6 La distinzione noi-loro è introdotta da un soggetto esterno: chi sono loro e chi siamo noi è il risultato di un’operazione che istituisce un sistema e ne stabilisce più o meno esplicitamente e arbitrariamente i confini. Da quanto detto, appare come sia l’osservatore a determinare in larga parte la complessità. È’ cioè l’osservatore, in base alla sua conoscenza o non conoscenza, in base alla sua presa di coscienza o meno, alla sua cultura che sempre di più è transcultura, che stabilisce se la realtà che lo circonda è più o meno complessa.

La sfida della complessità non è più la pretesa di spiegare una realtà in sé, indipendente, ma diventa una forma di traduzione del senso prodotto all’interno di un certo sistema di relazioni verso un altro sistema di relazioni che è quello della comunità scientifica o del pubblico. Si passa dalla connessione lineare tra ipotesi e verifica delle ipotesi, che era il modello classico della ricerca scientifica, alla spiegazione emergente e ricorsiva di processi, nei quali la conoscenza viene prodotta attraverso lo scambio dialogico e relazionale tra osservatore e osservato. La spiegazione non è intesa come verifica oggettiva delle ipotesi ma come un processo di produzione di conoscenza che si aggiusta progressivamente.7

Abbiamo quindi aperto e avallato la strada di un pensiero dialogico che certamente integra e sviluppa la formalizzazione e la quantificazione, necessari al processo conoscitivo, ma che tuttavia non bastano per comprendere la straordinaria diversità e lo sviluppo aleatorio del mondo. La realtà fenomenica è multidimensionale, fatta di rinvii (come fa un ipertesto), di links, e soprattutto di una comunicazione che non è più solo o primariamente unidirezionale, ma che è multidirezionale, e consente possibilità di interattività. Comporta sempre una dimensione individuale, sociale e biologica. Le discipline, quali l’economia, la sociologia, la psicologia e tante altre, sono tanti aspetti di una medesima realtà, sono aspetti che bisogna distinguere e trattare come distinti, ma che non si devono isolare e rendere incomunicanti. Il problema è di andare oltre, entro il mondo reale dei fenomeni.

Comunicare, osservare, comprendere, interpretare e cercare di conoscere la realtà, come modalità esistenziale ed esperienza quotidiana, è un compito importante. Ma il compito, il percorso e il tirocinio più difficile è imparare a vivere, mantenendosi in equilibrio fra gli innumerevoli “crinali” che spartiscono le situazioni di vita concreta nelle molteplici e differenti declinazioni della scienza. In sintesi, è una questione di metodo!

 

  

Note con rimando automatico al testo

1 Per approfondimenti si rimanda a: Bocchi, G., Ceruti, M., (ed.), La sfida della Complessità, Feltrinelli Editore, Milano 1985; Bertuglia, C. S., Vaio, F., Non linearità, Caos, Complessità, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

2 Humberto Maturana, Francisco Varela, L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano, 1999

3 Bell Hooks, Elogio del margine: razza, sesso e mercato culturale, Feltrinelli Editore, Milano, 1998

4 Sandro Mezzadra, Terra e confini. Metamorfosi di un solco, Manifestolibri, Roma, 2016

5 Per approfondimenti sul pensiero filosofico della complessità si consigliano i seguenti saggi: Edgar Morin, “La testa ben fatta”, Milano, Cortina, 2000; La Méthode vol. III: La conoscenza della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1989; oppure Milano, Cortina, 2007.

6 Alberto Melucci. Lo spazio della parola: Narrazione ed identità nella società complessa in M. Russo (a cura di), Scrittura e narrazione: Le emergenze sociali nello spazio simbolico del linguaggio, Milano, Unicopli, 1999

7  Ilya Prigogine, Grégoire Nicolis, Exploring Complexity – an introduction, New York, W.H. Freeman and Company, 1989; La fine delle certezze, Bollati Boringhieri, 1997; Exploring Complexity, in “European journal of operational research”, 30, 3, 1987