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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Kiefer e Richter, dopo Auschwitz

 Anselm Kiefer   Gerhard Richter
Anselm Kiefer e Gerhard Richter

La produzione artistica tedesca del secondo dopoguerra è stata tra le più notevoli per qualità e quantità a livello internazionale, conservando quindi il primato, condiviso con i francesi, che la rende tuttora riferimento e modello obbligato di tutto il Novecento. Il quadro storico tuttavia si interpone profondamente ogni volta che gli altri europei indagano la Germania, grande paese di uomini di cultura ma anche sciagurata patria del nazismo, responsabile dei massacri della Seconda Guerra.

Come concepire, dopo la caduta di Hitler e la scoperta delle dimensioni degli orrori commessi, l’idea stessa di arte e di bellezza? Cercare di dimenticare e di ricominciare daccapo senza une revisione totale non sono scelte possibili per la mentalità tedesca, che ha sempre radicalizzato tanto gli affetti quanto la ragione. Adorno affermò che «Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d'arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile. Il rapporto delle cose non può stabilirsi che in un terreno vago, in una specie di no man's land filosofica.»1 In queste parole del filosofo sono impliciti tanto il rimorso quanto la disperazione. E non c'è dubbio per chi conosce non solo la cultura, ma anche la società tedesca, che la colpa di essere stati responsabili di milioni di morti nei campi di sterminio e di milioni di altri morti per aver scatenato la guerra scava tuttora abissi nelle coscienze individuali e collettive della nazione di Goethe, di Kant, di Marx, di Planck, di Einstein.

La poesia e le arti sono sopravvissute. Nelle antologie di letteratura tedesca, e anche di molte altre lingue, è sempre presente una celebre lirica di Paul Celan divenuta il tragico simbolo dell’olocausto, Todesfuge, la cui prima versione è del 1945. Il grande poeta ebreo seppe rivivere, ricordare e tragicamente condannare con le sue parole l’orrore dei campi di sterminio.2 Nato nel 1920, cresciuto in una cittadina della Romania, educato dalla madre tedesca, Paul Celan era sopravvissuto ai campi di sterminio, nei quali morirono i genitori, ma nonostante una vita densa di riconoscimenti come poeta e come traduttore (dal romeno, dal francese, dal tedesco, dall’italiano, dall’inglese), la spaventosa cicatrice nell’anima lo porterà prima a una grave malattia psichica e poi al suicidio a Parigi nel 1970.3

A proseguire idealmente e materialmente l’opera di Celan si è posto un pittore tedesco, più giovane di 25 anni (nato quindi proprio quando Celan scriveva Todesfuge), anche lui incredibilmente immerso nella dimensione del dolore, della rabbia, della tristezza, per il ricordo dei crimini commessi dai padri: Anselm Kiefer. Il rapporto tra i due è immediato, anche perché Kiefer ha direttamente dedicato a Celan alcuni suoi quadri. E indirettamente la visione cupa, devastante, angosciosa delle successive opere plumbee che hanno dato la celebrità all’artista non può non riallacciarsi alla disperata lirica del poeta.

Un secondo pittore può entrare ora nel contesto comparativo che voglio provare a delineare, tentando di rintracciare le sorti dell’arte “dopo Auschwitz”, vale a dire quando la guerra e lo sterminio sono finiti e sembra tornata a regnare la pace, o quel che resta della parola “pace”. Questo secondo maestro nato nel 1932 a Dresda è stato bambino nel Terzo Reich, ha vissuto da vicino i bombardamenti che distrussero la capitale della Sassonia nel 1945, è cresciuto come artista e come uomo nella Germania comunista, ed è fuggito a Ovest poco prima della costruzione del Muro, nel 1961: Gerhard Richter. L’arte di Richter, che è soprattutto pittore, è lontanissima da quella di Kiefer, che è pittore e scultore, e forse ne rappresenta addirittura l’opposto, ma è anch’essa grande, sterminata, quasi l’essenza stessa dell’idea di pittura.

Sono due strade che fanno i conti e si intrecciano con la storia dell’arte nel Novecento, da un lato la scelta dell’espressione, dell’urlo, del dolore, del pianto o anche dell’amore, della follia, della passione, che riporta la produzione artistica alla dimensione spirituale, di un qualcosa cioè che sta dentro di noi e vuole uscire trasformandosi in comunicazione, dall’altro lato la scelta della forma, dei colori, della composizione, resi visibili in soggetti qualunque, presi dalla strada come dai ricordi, senza che un significato ulteriore li vada a modificare. Se la prima scelta nel XX secolo si incarna in Kirchner, e poi in Kandinsky, in Pollock e in Bacon, la seconda nasce da Picasso e Mondrian per giungere a Warhol e a Judd.

Nel secondo dopoguerra la pittura ha reinterpretato formalmente qualunque percorso, utilizzando qualunque materiale, e quindi mescolando e ibridando le vecchie categorie; Richter lo ha fatto come nessun altro. Se si potesse avere davanti la sua opera intera,4 che è numericamente sterminata nel senso effettivo di varie migliaia di quadri, la giudicheremmo frutto del lavoro di molte personalità, molti diversi artisti, spesso antitetici. La Pop-Art accanto all’iperrealismo, l’informale accanto al minimalismo, la furia, la dolcezza, la perfezione, il caos, mescolati in un impressionante mosaico. Richter ha guardato tutto e tutto ha realizzato – comprese immagini dell’olocausto e immagini di guerra – senza fornire alcuna lettura della propria opera, se non il punto di partenza, la fotografia.

Dall’altro lato, Kiefer ha agito in una carriera parallela del tutto separata da Richter, svolgendo un tema quasi unico e comunque fondamentale, la memoria. Dal 1969, Kiefer creò una sua revisione personale del periodo hitleriano, con quadri-fotografie in cui lui stesso interpretava un nazista col braccio alzato; come scrive Giuseppe Di Giacomo,

Il pittore entra dunque nell’abisso della storia, gettandosi nella voragine e indossando una divisa militare, per assumerne su di sé tutto il peso; si blocca come una statua nel gesto nazista, ma contemporaneamente si rappresenta come una «scrittura» pittorica salvifica per un’arte «altra». 5 

 

Negli anni Ottanta, Kiefer approda invece al monumento, all’opera colossale che esce dalle pareti, dagli schemi, che invade gli spazi e li occupa come una mostruosa metafora della vergogna, o del senso di colpa, o del dolore. Se le poesie di Celan sono brevi ed ermetiche, ma entrano come macigni nella coscienza del lettore, i colossali fogli di piombo o le torri di cemento costruite da Kiefer sono essi stessi macigni, prove fisiche tangibili dell’orrore.

Dopo Auschwitz, diceva Adorno, scrivere poesia è impossibile. Mentre Celan visse l’angoscia di aver provato ad essere poeta dopo Auschwitz, Kiefer e Richter non hanno dubbi, il primo è artista perché sa e vuole vivere nel ricordo dell’orrore, il secondo è artista perché cerca di andare oltre, senza dimenticare, ma senza arrendersi.

L’orrore quindi al tempo della pace: essere artisti per Kiefer vuol dire gridare che l’orrore è vivo. I versi di Celan, in Todesfuge, sono memorabili e incisi nella memoria dei tedeschi di oggi, che li leggono a scuola come noi leggiamo Dante o Leopardi:
 

Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts
wir trinken dich mittags und morgens wir trinken dich abends
wir trinken und trinken
ein Mann wohnt im Haus dein goldenes Haar Margarete
dein aschenes Haar Sulamith er spielt mit den Schlangen

Er ruft spielt süßer den Tod der Tod ist ein Meister aus Deutschland
er ruft streicht dunkler die Geigen dann steigt ihr als Rauch in die Luft
dann habt ihr ein Grab in den Wolken da liegt man nicht eng6

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte / ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera /
beviamo e beviamo / nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete / i tuoi capelli di cenere Sulamith lui gioca con i serpenti/
Lui grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco / lui grida suonate più cupo i violini e salirete come fumo nell’aria / e avrete una tomba nelle nubi là non si giace stretti

 

 

Anselm Kiefer, Margarethe Sulamith, olio su tela, 1981

 

 

Anselm Kiefer, Dein Goldenes Haar, Margarethe, misto su tela, 1981

 

 

Anselm Kiefer, Dein aschenes Haar Sulamith, misto su tela, 1981


Due nomi di donna, due colori dei capelli, il tempo musicale di una
fuga, le ripetizioni come motivo, le asserzioni fatali, “ein Grab in den Wolken” (una tomba nelle nubi), che raccontano Auschwitz in cinque sole parole, questo è Celan. A partire dagli anni Ottanta è a quelle due donne, Margarete e Sulamith, la tedesca dai capelli d’oro e l’ebrea dai capelli bruciati, che Kiefer intitola numerosi suoi quadri, tele spesso colossali che il pittore costruisce come una infinita incrostazione di strati. Prevale in queste opere la parola-forma dei capelli, lunghi fili che invadono la superficie, ma nel loro spargersi i capelli si trasformano in altro, in strade, in piante, in strutture.
Sono più di venti i quadri che Kiefer ha dedicato alle due donne della poesia. Non è ancora il Kiefer delle opere in piombo. Ma è già l’interprete dell’orrore.

In quegli stessi anni Ottanta anche l’astro di Gerhard Richter raggiungeva vertici impensati per un artista che dapprincipio sembrava collegarsi soprattutto con la Pop Art e che aveva inventato negli anni Sessanta lo stile improbabile del Realismo capitalista. Ma seguire l’opera di Richter è impossibile, come già detto, perché il pittore ha macinato letteralmente tutto ciò che è possibile fare con i pennelli, le spatole, le fotografie, gli smalti, in qualunque stile. Vorticoso, rapido, immerso nella pittura come in un mare infinito, Richter è diventato celebre soprattutto per alcune straordinarie immagini che partono da una fotografia dipinta (tramite proiettori) e la offuscano, come se un velo o una nebbia ne togliessero le asperità e i contrasti. Ma Richter ha prodotto quadri geometrico-astratti delineati da scelte computerizzate, ha creato caotiche ed esplosive immagini ricche di ogni colore, ha coperto di macchie vere delle fotografie, e ha rappresentato con tecniche ed esiti quasi fiamminghi le fiamme delle candele, i volti infantili delle sue figlie, i mazzi di fiori.

In una simile abbondanza, anche a Richter è capitato di affrontare – con la sua flemma imperturbabile – temi scottanti come il crollo delle Twin Towers, la morte dei terroristi della RAF, e lo stesso Olocausto, per quanto normalmente molto tempo dopo i fatti. Richter non commenta e non motiva, neppure se sottoposto a domande dirette, le sue scelte; la sua risposta è di solito qualcosa che suona come “Ho avuto l’idea di farlo adesso, non allora”, nient’altro. Ma davanti al magma di Birkenau o al corpo esanime di Andreas Baader suicida o al velo di fumo che copre le Torri Gemelle, è difficile non provare emozioni e sentire che in Richter c’è soprattutto una sorta di empatia cosmica, come se il mondo intorno trovasse in lui una sorta di dispositivo a specchio, una macchina che lo descrive e lo racconta.

 

Gerhard Richter, Tote (dal ciclo October 18, 1977), olio su tela, 1988

 

  

Gerhard Richter, September, olio su tela, 2009

 

 

Gerhard Richter, Birkenau, olio su tela, 2014

Il tono della voce di Richter è sempre sommesso, le sue opere non gridano, ma richiedono attenzione, e possono commuovere. Cercare di rintracciare gli anelli che concatenandosi descrivano la poetica del pittore non appare possibile, ma forse una traccia esiste: Richter osserva, guarda, vede ogni cosa intorno come ciascuno di noi la vede, frammenti della natura, esseri viventi, oggetti vivi, oggetti artificiali, oggetti naturali, e per ogni cosa che vede Richter è pronto a una operazione pittorica, che non consiste nel copiare, al cui scopo esiste la macchina fotografica usata abbondantemente dall'artista, ma nel creare una forma dipinta sulla quale il pittore ha il diritto di agire.
 

 

Gerhard Richter, Die Leserin, olio su tela, 1994

Se Magritte toglieva il fattore esistenza all'oggetto dipinto, Richter esegue l'operazione contraria, dipinge una nuova esistenza, una nuova vita. Il ritratto della figlia che legge, esplicitamente preso da una fotografia, è un’immagine memorabile nella sua totale e assoluta semplicità. Ed è probabilmente questa la risposta di Richter ad Adorno, l'eternità della vita.

Sull'altro versante, a partire dagli anni Novanta alcune sculture-architetture di Anselm Kiefer tendono invece come primo impatto a un urlo, a un lamento, o a una devastante malinconia. Kiefer crede, come Kandinsky, che ci siano forze sovrasensoriali, aspetti magici di una realtà che non ci è dato cogliere, ma solo intuire. L'artista lavora in enormi loft a Parigi e nell'Assia, con un nutrito gruppo di artigiani che lo aiutano nelle sue imprese. In Italia, molti hanno visto le torri in cemento armato, Die sieben himmlischen Paläste (I sette palazzi celesti) creati per la ex-Bicocca milanese nel 2004, oggi affiancati da alcune grandi tele eseguite tra il 2009 e il 2014. Le torri sono la materializzazione dello Sefer Hechalot, il trattato che indica agli ebrei il percorso verso Dio, ma sono torri in rovina, fatte di cemento armato letteralmente ridotto a brandelli. Sono il parallelo architettonico dei libri di piombo che Kiefer ha più volte inventato per farci vedere insieme il cupo colore della morte, della cenere, e della censura.
 

 

Anselm Kiefer, I sette palazzi celesti
cemento armato, piombo e altro, 2004, creato per l'ex-Hangar Bicocca di Milano

 

 

Anselm Kiefer, Paete, non dolet, piombo, 2008
 

Il piombo è il materiale che tuttora assorbe gran parte dell’energia creativa dell’artista e che ha fatto parlare spesso di una sua ricerca alchemica come nelle medievali stregonerie basate su bizzarre ricerche chimiche, alla quale Kiefer pone un’attenzione scientifica e mistica, forse anche legata a un’interpretazione goethiana o romantica dell’universo, per cui tutta la Natura ha un’anima. Kiefer a volte usa il piombo in lastre come se fossero le basi di un quadro, lo corrode, lo incide, lo modella, ma molto più spesso lo usa a quintali per ricostruire oggetti di altra natura, come vestiti, carri armati, fogli, aeroplani, libri, che nonostante le corrette volumetrie si trasformano davanti a noi in forme prive di vita, incenerite, anche se forse pronte a una trasformazione sublime.

Nel 1990, in occasione di una sua grande mostra a Berlino, i giornalisti Christian Kämmerling e Peter Pursche si recarono nel laboratorio di Kiefer in Assia e gli fecero un'intervista che in italiano è apparsa a stampa solo nel 2011, nel catalogo della grande mostra veneziana “Il sale della terra”. Ecco che cosa diceva Kiefer del piombo:

È qualcosa come un’aura del nome. Il piombo agisce su di me più di qualsiasi altro metallo. Quando si procede oltre in quest’impressione, si scopre che il piombo è sempre stato un materiale per le idee. Nell’alchimia si trovava sul gradino più basso del processo di estrazione dell’oro. Per un verso il piombo era insensibile, pesante e collegato con Saturno, con l’uomo ‘torvo’ – dall’altro contiene l’argento e costituiva così già un primo passo in direzione di un altro piano, più spirituale.7 

Alla domanda su come si procura il piombo in simili quantità, Kiefer rispose: 

[K] Il tetto del Duomo di Colonia era ricoperto con questo piombo. Quando è stato restaurato l’ho comprato.

[giornalisti] Il tetto del Duomo di Colonia?

[K] Esatto. Non è assurdo? Ricoprire una cattedrale gotica con il piombo; richiudere con un’ermetica copertura di piombo quelle forme che tendono verso l’alto; poi più nessun raggio ci passerà attraverso.

La chiave è questa, nulla passa attraverso. Non fa passare la luce, non fa passare la vita, il piombo di Kiefer non è che la metafora potente e sublime della morte, ma in ultimo, come nella metamorfosi alchemica, potrebbe lasciarci intuire e intravedere la sua trasformazione in oro, la sua via per la resurrezione.

 

 

Note con rimando automatico al testo 

1 T. W. Adorno, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 2004, p. 326.

2 Dopo Todesfuge, l’opera di Celan è composta da undici raccolte di estrema difficoltà linguistica, intrise e dense di una suggestione tale da ricordare spesso la più estrema poesia romantica.

3 Per evidente somiglianza, è un destino che lo accomuna a Primo Levi.

4 In realtà è possibile, viste le dimensioni inusualmente ampie del catalogo online, visitabile in  http://www.gerhardrichter.com

5 G. Di Giacomo, Fuori dagli schemi. Estetica e arti figurative dal Novecento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2015, p. 189.

6 Si tratta delle righe 18-25 del testo finale, composto da 35 versi.

7 G. Celant, Il sale della terra, Milano, Skira, 2011, pp. 141-145.