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NUMERO  7 - 2020
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Gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola o della trascendenza normativa

 

 


Andrea Pozzo, Trionfo di Sant'Ignazio, Chiesa di Sant'Ignazio in Roma

 

Gli Esercizi Spirituali1 (scritti in spagnolo tra il 1522 e il 1535 e pubblicati poi, nella versione latina, nel 1548 e in italiano nel 1911) sono la versione cristiana degli esercizi spirituali propri della tradizione filosofica dell’antichità, di una tradizione greco-romana, come pensa Hadot?2 Non si possono nutrire dubbi sui rapporti tra la filosofia antica e gli Esercizi spirituali ignaziani, così come, certo in via secondaria, con la mistica di Giovanni della Croce e di Teresa d’Avila, ma con indirizzo diverso. Hadot ritiene che, dopo il medioevo, gli esercizi spirituali antichi non facciano più parte della filosofia, poiché essa diventa una disciplina astratta (scolastica), ma «sono integrati nella spiritualità cristiana»3. Non lo si può credere, perché in essi lo scopo principale è la stessa disciplina degli Esercizi e un cambiamento esistenziale nel soggetto, in base al modulo giovanneo secondo cui «la verità vi farà liberi»4. Diversamente che in Giovanni della Croce, il focus e la chiave di volta del contenuto degli Esercizi ignaziani non è la sintesi fra anima e Logos-Cristo. Non si tratta, infatti, di un diario spirituale o della mappa di un’esperienza interiore, ma di una precettistica morale, un insieme di regole, disposte in serie progressive, che configurano una tecnica di preghiera e di meditazione.

In tale contesto, negli Esercizi prevale, con gli opportuni adattamenti, la disciplina, il rispetto dei tempi, dei modi, dei processi ideativi necessari al rispetto e all’obbedienza nei confronti di una divinità che si presenta come Legge, come Trascendenza normativa. Si tratta di una «struttura costitutiva» degli Esercizi: la loro immutabilità che contrasta con la dimensione della libertà spirituale. Negli Esercizi tutto è preordinato. Si tratta sempre di prevedere e ordinare i punti della contemplazione. L’umiltà è la condizione necessaria. Essa consiste nell’abbassarsi e umiliarsi quanto più è possibile, al fine di obbedire in tutto alla legge di Dio, perfetta nell’imitazione di Cristo. Per quanto sopra, gli Esercizi spirituali sono da avvicinare, nello stile e nel tono, ai trattati cinque-seicenteschi di politica e di guerra, ai Regolamenti militari, più che, come vorrebbe Hadot, alla filosofia antica classica o ellenistica o a testi come i Ricordi di Marco Aurelio5 o il Manuale di Epitteto6. In realtà, con gli Esercizi spirituali, Loyola ha scritto un’Arte della preghiera e del frutto di essa, che è l’elezione, cioè la scelta, così come Machiavelli ha scritto il Principe e l’Arte della guerra o Galilei il Trattato di fortificazione.

Molto più che le «stanze» del Castello Interiore di Teresa d’Avila7, sono le scale a senso unico a dominare la scena degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola. Il percorso dell’anima, in questa guida alla preghiera, è precostituito, diretto e controllato. La libertà dell’anima ne risulta compressa, anche sulla base dell’avvicinamento a una teologia esplicita della predestinazione8.

Non si tratta soltanto, come vuole Barthes9, di un monumento del linguaggio, della creazione di una lingua nuova, sia pure di un linguaggio multiplo, ma di un apparato, di un insieme di dispositivi e di montaggi. Ignazio per la prima volta trasforma il linguaggio, che negli Esercizi è prevalentemente quello delle immagini e della prassi, non sottomettendolo a un codice, ma trasformandolo esso stesso in un codice. E si tratta di un codice di comportamento che è un codice d’ordine, un ordine ramificato in imperativi gerarchizzati, come se si procedesse alla costruzione di una torre Eiffel di emozioni, patimenti, slanci, mortificazioni. Il tutto allo scopo di ordinare i «modi di esaminare la coscienza».

L’ascetica ignaziana è affidata a una tecnica che si compone di molte singole operazioni, spesso ripetute e variate, che producono stati dell’anima10.

L’insieme configura una politica dei sentimenti, dei moti e dei pensieri dell’anima, che punta allo scopo di orientarne il percorso lungo una scala a senso unico, che deve condurre alla salvezza. Ciò richiede una disciplina puntuale: l’adempimento dei comandi contenuti nei singoli esercizi deve essere osservato scrupolosamente. Per verificare l’eventualità di omissioni o di esecuzioni improprie, chi dispensa gli Esercizi deve interrogare chi li riceve11.

Troviamo negli Esercizi un maximum di spirito inquisitorio, sia nell’autoanalisi che nell’interrogazione dell’esercitante. Il carattere completamente impoetico del testo, malgrado la lettura di Barthes, che scommetteva fossero «fondati in scrittura»12, denuncia questo dispositivo di cattura.

È d’obbligo inoltre segnalare una polarità tra il Diario spirituale, in cui le visioni straordinarie, accanto agli eventi normali, e gli stati dell’anima riflettono sempre la ricerca, il movimento e l’economia energetica dell’anima stessa13, e gli Esercizi spirituali, nei quali nulla deve essere lasciato all’iniziativa o alla sperimentazione del credente. Crediamo che questa polarità di lettura intertestuale possa sostituire, sotto un profilo più generale, che investe il dinamismo spirituale, quella, ben nota, di Barthes, relativa a s. Ignazio, tra il codice linguistico della domanda degli Esercizi e il codice linguistico delle risposte, nella problematica relazione tra credente e divinità, nel Diario spirituale. In realtà, il Diario spirituale registra progressi e scarti di un’invocazione nella quale l’intera anima è proiettata in alto e tenta ogni strada per giungervi.

Nel Diario spirituale14 le estasi e le visioni, le manifestazioni mistiche si moltiplicano e anche il linguaggio mostra la sua insufficienza a descriverle: l’intensità dell’esperienza, pur nel desiderio scrupoloso di prenderne nota, travalica ogni regola.

In tal senso, si può affermare che gli Esercizi, in linea divergente rispetto al Diario spirituale15 e in continuità con l’Autobiografia, sono un’opera che tenta una fondazione su base etica, sapienziale e mistica, di una trascendenza d’ordine, una trascendenza normativa, che mostra il suo volto autoritario e dispiega pienamente il suo profilo dichiaratamente controriformistico (cioè fondamentalmente disciplinare e reattivo).

Ma che cos’è una trascendenza normativa? In che senso gli Esercizi spirituali concludono l’indagine sulle inclinazioni dell’anima e predispongono minuziosamente, programmandone modi e scansione, le sue operazioni, in funzione di un controllo totale su di essa? La trascendenza normativa è una trascendenza autoritaria, disciplinare, gerarchica. È la trascendenza di un’autorità che stabilisce e riorganizza le relazioni terrene, il particolare il ruolo e la sottomissione del Sé alla maestà divina.

Per Ignazio, lo scopo di conoscere il Verbo incarnato è «servirlo e seguirlo sempre di più»16. Variazioni e adattamenti degli esercizi agli esercitanti sono funzionali soltanto all’efficacia degli stessi, perché ciascuno «contempli in futuro nel modo migliore e più completo»17 e si proceda alla scelta, alla decisione, “elezione” o scelta di vita18, in cui la libertà si compie nell’atto della volontà conformemente alla volontà dell’Eterno, ma dotata di un valore paradigmatico che rimanda, ove se ne cerchino le fonti, alla dottrina sapienziale dell’etica aristotelica e dell’alternativa della scelta.

La trascendenza non è l’avvertimento spontaneo o l’esperienza del rapporto con un quid trascendente, che sia termine di un’intenzionalità, presupposto e oltrepassamento della nostra esistenza, ma è, nella prospettiva di Ignazio negli Esercizi, la costruzione di una serie di dispositivi che “catturano” l’individuo e lo alienano rispetto alla sua libertà di agire. La trascendenza si presenta così, attraverso la mediazione del direttore dell’esercitante, nei termini di un duro realismo, come potere di ispezione e di controllo. La volontà divina che si dovrebbe cercare è, in realtà, la realtà organizzata di un transito obbligato, disciplinato e, in definitiva, coatto.

In tal senso, pur facendo leva sulla riflessione dell’intelletto e sugli atti della volontà, si punta soprattutto sulla passività dell’esercitante, sulla sua ricettività, sulla disponibilità a offrire a Dio, perché se ne serva, «tutta la sua volontà e la sua libertà»19.

La sottomissione a Dio richiede anche la rinuncia a prendere iniziative stravaganti rispetto alla direzione di “chi dà gli esercizi”. L’istruttore avrà e metterà in valore le sue capacità tattiche. In un certo senso, l’esercitante diventa il carceriere di se stesso, quando adotta i criteri contenuti negli Esercizi delle prime due settimane dei trenta giorni per discriminare spirito buono e spirito cattivo20.

Il combattimento contro il nemico della natura umana (Satana), che Ignazio assimila al combattimento tra due eserciti del Cinquecento, richiede che si adempia con scrupolosità di tempi e di disposizioni il compito della contemplazione, della meditazione e dell’emendazione delle colpe.

Loyola indica il fine per cui siamo stati creati, «per lodare, rispettare e servire Dio nostro Signore, e con ciò salvare la propria anima»21. Le altre cose create sono soltanto strumenti a tale scopo o, se di ostacolo, debbono diventare oggetto della nostra indifferenza generale, escluso ciò che «innanzitutto ci conduce al fine per il quale siamo stati creati»22.

Non desta stupore allora che molta preoccupazione generi, nel testo di Ignazio di Loyola, l’esame “particolare e quotidiano” delle proprie azioni, di cui si disciplinano tempi e modalità, lavorando volta per volta su un particolare peccato.

Bisogna verbalizzare quante volte si è incorsi in quel particolare peccato o difetto. Il calcolo, la contabilità, rinvia, sostiene Barthes23, al carattere dell’ossessione nevrotica. La contabilizzazione dei progressi compiuti che risulta dagli esami continui della propria condotta ci fa giocare il ruolo di giudici di noi stessi, controllori scrupolosi dei pensieri, delle parole (giuramenti, vaniloqui oziosi, calunnie) ed opere.

Resta comunque certo che, una volta assimilate le relazioni con il Creatore alle relazioni cortigiane di sottomissione al Re e alle autorità, con i relativi cerimoniali24, il risultato non può essere diverso da quello che accade in un teatro di corte.

Ignazio non si sottrae alle finzioni teatrali: le energie dell’immaginazione (i sensi interiori nella composizione dei luoghi25), sono attivate per ottenere il miglior frutto dagli Esercizi.

Ignazio si rivela anzi un esperto di montaggio cinematografico delle immagini mentali. Viso, viseità e paesaggio negli Esercizi sono, secondo Deleuze e Guattari, azioni di controllo spirituale da parte dell’educazione cristiana26. Si tratta sempre di scomposizioni e di tagli, di superfici e di buchi. Nel caso di Loyola infatti la pratica dell’immagine e una somma di dispositivi sapienziali, di frammenti di racconto evangelico, di disposizioni e azioni di corpi e di organi percettivi corroborano una costruzione articolata secondo un ritmo e un procedimento di teatralizzazione.

L’esame autocoscienziale diventa così un processo giudiziario (il codice linguistico è anche un codice di diritto) e un’analisi psicologica dei propri peccati, con relative scale di penitenze e punizioni corporali27. L’insieme degli Esercizi è costruito come per apparecchiare uno spettacolo, una visione d’insieme, un incontro. Così la visione immaginaria gioca il suo ruolo più importante nella meditazione dell’incarnazione, della natività e degli altri momenti della vita di Cristo, senza dimenticare la loro rilettura secondo la modalità percettiva, perché sembra necessario che tutti i cinque sensi siano impegnati negli esercizi28.

Negli Esercizi spirituali, Ignazio si rivela un esperto di montaggio delle immagini create dall’immaginazione, delle “composizioni visive” della vista immaginativa, drammatizzate con esperienze psicosomatiche dell’esercitante29. Naturalmente, il montaggio implica la manipolazione, la costruzione artificiale, la selezione, il giudizio, la partizione e congiunzione.

Lo stesso Barthes segnala come all’inizio dell’epoca moderna vi sia un rimaneggiamento della gerarchia dei cinque sensi. In controtendenza rispetto alla considerazione dell’immagine di mistici come Giovanni della Croce, o come Ruysbroeck, per i quali la divinità «immensa, incomprensibile, inaccessibile» può essere posseduta soltanto al di sopra delle immagini», Ignazio vuole fondare, invece, «l’immagine (o “vista” interiore) come ortodossia, quale nuova unità della lingua che lui costruisce»30.

Ignazio risponde a queste diffidenze ascetiche o mistiche «con un imperialismo radicale dell’immagine» che è la «materia costante degli Esercizi»31 e che diventa un sistema linguistico, l’articolazione di un discorso, che si indirizza a Dio e lo interroga perentoriamente attraverso una performance linguistica, visivo-percettiva, pratica, uno stile, al termine di un lavoro di riforma-disciplina di se stessi.

 

[Nella sezione "in rete" di Azioni Parallele è disponibile il file PDF
con il testo interale degli
 Esercizi Spirituali di Ignazio]

Note con rimando automatico al testo

1I. di Loyola, Esercizi spirituali, note a cura di G. De Gennaro, con un saggio di R. Barthes, Milano, TEA, 1988.

2 P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino, Einaudi, 1988.

3 Ivi, p. 215.

4 Giovanni 8:32. Cfr., inoltre, sulle «opere della carne», la Lettera ai Galati di Paolo, 5: 19-21.

5 Cfr. P. Hadot, La cittadella interiore, Milano, Vita e pensiero, 2006, cap. III, pp. 41-42.

6 Lo stesso carattere esercitativo hanno le Diatribe e il Manuale di Epitteto. Cfr. G. Leopardi, Manuale di Epitteto (Enchiridion), Progetto Leopardi, a cura di G. Bonghi, in www.classiciitaliani.it.

7 T. d’Avila, Il Castello interiore, Milano, Edizioni Paoline, 2005.

8 Cfr. I. di Loyola, Esercizi spirituali, cit., n. 366: «Quattordicesima regola. È verissimo che nessuno si può salvare senza essere predestinato e senza avere la fede e la grazia».

9 «Desolazioni» e «consolazioni» le chiama Ignazio, cfr. ivi, par. 6, p. 5, nonché nn. 316 e 317.

10 I. di Loyola, Esercizi spirituali, cit., p. 5.

11 R. Barthes, Loyola, in ivi, p. II.

12 Ne Il racconto del pellegrino o Autobiografia di SantIgnazio di Loyola (Milano, Adelphi, 1966), l’esperienza delle visioni e dei rapimenti (cfr. ad es. i nn. 28 e 29) funge da elemento di discriminazione tra spirito buono e cattivo, divino e satanico, in vista dell’orientamento della volontà e della trasformazione dell’anima (cfr. Autobiografia, n. 99), che avrà poi tanta parte negli Esercizi, nella purificazione dalle immaginazioni legate al peccato, prima così radicate e vivide (par. 10). Gli stessi Esercizi spirituali nascono da una visione, o apertura della mente, avvenuta sulle rive del fiume Cardoner a Manresa nel 1522 (cfr. Autobiografia, n. 30). Le mozioni interiori e la conferma soprannaturale al quesito se la Compagnia potesse detenere e fruire di rendite, in vista della stesura delle Costituzioni dell’ordine, diventano nel Diario Spirituale un’invocazione che impegna l’anima in una articolata esperienza di “viaggio” tra le intensità psicologiche (mozioni, lacrimazioni, loquele, rapimenti, estasi, visioni).

13 I. di Loyola, Diario spirituale, in Id., Gli Scritti, a cura di M. Gioia, Torino, Utet, 1977, pp. 265-340.

14 Ibidem.

15 Lo stesso Ignazio ascrive le sue visioni e mozioni mistiche ad una sfera esterna al linguaggio: ad un «sentire e un vedere che le parole non possono esprimere». Cfr. I. di Loyola, Diario spirituale, cit., n. 24.

16 Ivi, n. 130, p. 38.

17 Ivi, n. 165, p. 46.

18 Cfr. I. di Loyola, Esercizi spirituali, cit., n. 163.

19 Ivi, n. 85, pp. 28 e sgg.

20 Ivi, n. 8.

21 Ivi, n. 23, p. 11.

22 Ivi, n. 23, p. 12.

23 R. Barthes, Loyola, cit., p. XXXIII.

24 Cfr. I. di Loyola, Esercizi spirituali, cit., n. 74, p. 26; n. 91, p. 30 e n. 94, p. 31.

25 Cfr. ivi, pp. 24-25, per l’esperienza sensoriale dell’inferno.

26 G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di P. Vignola, Napoli-Salerno, Orthotes, 2017, p. 254.

27 Cfr. I. di Loyola, Esercizi spirituali, cit., n. 85, pp. 28 e sgg.

28 Cfr. ivi, n. 121, p. 36.

29 Esempi possono considerarsi la «meditazione dei due stendardi», in ivi, pp. 40-42, o l’autorappresentazione «in presenza di Dio e di tutti i suoi santi» nel n. 151, p. 43.

30 R. Barthes, Loyola, cit., p. XXVIII.

31 Ivi, p. XXIX.