Collettivi antropotecnici

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La specificità della cultura mediterranea compresa attraverso le riflessioni di
Peter Sloterdijk e Philippe Descola

 

1. Pensiero mediterraneo, cultura mediterranea

Nella sezione finale de L’uomo in rivolta1, Albert Camus dedica alcune riflessioni, brevi ma dense di suggestioni, alla descrizione della pensée de midi, un pensiero meridiano e mediterraneo destinato ad avere grande influenza su quei pensatori contemporanei accomunati dall’esigenza di tematizzare il Sud dell’Europa come soggetto peculiare della propria riflessione2. L’attenzione di Camus per il Mediterraneo, tema già caro al filosofo franco-algerino3, in quest’opera si caratterizza essenzialmente come il tentativo di opporre all’ideologia dominante della contemporaneità un’alternativa, al tempo stesso più originaria e più promettente per il futuro.

La pensée de midi, di cui Andrea Colasuonno offre un’ampia genealogia critica4, si articola in Camus come uno stile di vita e di pensiero, che da secoli caratterizza i popoli che si sono sviluppati sulle coste del mare Mediterraneo, a partire dalla grecità. Nonostante l’ideologia nordica, in particolare tedesca, si sia affermata in Europa in modo egemone durante l’epoca moderna, la pensée de midi rimane feconda e si dimostra vitale per la sopravvivenza spirituale e materiale dell’Occidente, tanto da costituirsi come «un pensiero cui il mondo di oggi non potrà più a lungo rinunciare»5.

Le intuizioni camusiane procedono essenzialmente tramite una serie di contrapposizioni, volte a mettere in risalto la differenza radicale tra i due modi di concepire l’essere dell’uomo nel mondo: 

comune contro stato, società concreta contro società assolutista, libertà riflessiva contro tirannia razionale, l’individualismo altruista infine contro la colonizzazione delle masse, […] il lungo affrontarsi di misura e dismisura che anima la storia d’Occidente, […] i sogni tedeschi e la tradizione mediterranea, le violenze dell’eterna adolescenza e la forza virile, la nostalgia, esasperata dalla conoscenza e dai libri, e il coraggio temprato e chiarito nella corsa della vita; la storia infine, e la natura.6

Il piano su cui si sviluppano queste riflessioni è principalmente esistenziale e politico, in accordo con le tematiche care a Camus: a un Nord imperialista, totalitario e prevaricatore viene contrapposto un Sud moderato, pluralista e aperto al dialogo; allo smisurato espandersi del dominio della tecnica che tutto trasforma è opposto il richiamo alla natura comune di tutti gli uomini e al suo rapporto con l’immutabile totalità cosmica.

L’ideologia tedesca si esplica, dunque, essenzialmente come perdita della misura propria all’uomo e a tutti gli enti, cosicché «l’azione non è più perfezionamento ma pura conquista, cioè tirannia»7 e non può che avere conseguenze nefaste per il destino dell’uomo. Nonostante l’esplicita preferenza per il pensiero del meridione, «un’esigenza invincibile della natura umana di cui il Mediterraneo […] serba il segreto»8, Camus riconosce la valenza costitutiva dell’opposizione tra queste due ideologie, al punto di affermare che «l’Europa non è mai stata altrimenti che in questa lotta fra meriggio e mezzanotte»9.

Come sottolinea Angela Durini10, il richiamo a un pensiero proprio delle zone costiere dell’Europa mediterranea può contare illustri precursori rispetto alle analisi camusiane, tra tutti Friedrich W. Nietzsche. Ciò che più conta in questo contesto, tuttavia, è rilevare come le riflessioni contenute ne L’uomo in rivolta siano servite da spunto e motivo ispiratore a pensatori contemporanei come Franco Cassano, che a Il pensiero meridiano ha dedicato uno dei suoi testi più importanti11.

La prospettiva di Cassano differisce da quella camusiana essenzialmente nel situarsi su un piano eminentemente socio-economico, rispecchiando coerentemente le mutate condizioni storiche e intellettuali del nostro tempo. L’esigenza messa in risalto all’interno del testo è quella di rendere il Sud dell’Europa un soggetto pensante, ossia capace di concettualizzare la propria specificità e la propria differenza creativa rispetto al resto del continente. Questo movimento teorico rappresenta il primo passo per un’emancipazione sociale ed economica delle zone mediterranee, chiamate a impiegare le loro potenzialità intrinseche al fine di una valorizzazione del territorio e delle popolazioni che lo abitano che non sia più eterodiretta, ma che presenti il Sud, allo stesso tempo, come soggetto e oggetto della propria azione. Solo in questo modo è possibile porre fine a una lunga tradizione, che ha sempre visto il meridione unicamente pensato da altri e sottoposto a interventi provenienti dall’esterno, precludendogli di fatto la possibilità di esprimere la propria peculiarità.

Alla luce di queste riflessioni, può essere interessante fare due osservazioni. In primo luogo, la definizione di pensiero meridiano o mediterraneo può portare a fraintendere la vera natura dell’oggetto in questione: sia Camus che Cassano, infatti, non si riferiscono tanto a una dottrina, quanto a un insieme di pratiche, sia materiali che spirituali, che definiscono gli uomini che abitano e hanno abitato un determinato territorio. Il pensiero mediterraneo indica propriamente la cultura mediterranea, se per cultura si intende l’insieme degli usi, degli schemi concettuali e degli stili di vita di un collettivo. Può essere d’aiuto a un dibattito intorno al pensiero meridiano, dunque, tentare di definire quali siano le dinamiche che caratterizzano la cultura che produce questo pensiero e quali fattori determinino la specificità di una cultura in generale.

In secondo luogo, la cultura mediterranea che emerge da queste riflessioni si caratterizza come eminentemente a- e trans-nazionale, ossia non riducibile né riconducibile alle delimitazioni politiche degli Stati che formano l’Europa moderna. La dinamica che identifica questa cultura è essenzialmente spaziale, nella misura in cui popoli che si sono sviluppati nella stessa area geografica hanno elaborato strutture culturali affini, al di là delle vicissitudini politiche che hanno attraversato l’Europa nel corso dei secoli. Ciò porta ad affermare che le culture si definiscono attraverso fattori indipendenti da astratte divisioni politiche, ma che sono piuttosto strettamente correlati con l’appartenenza a un dato ambiente, le cui caratteristiche formano e accomunano i collettivi che lo abitano, che a loro volta, retroattivamente, lo determinano come peculiare di una data cultura.

Può rivelarsi proficuo, quindi, tentare di analizzare le dinamiche che, da una parte, strutturano una cultura, ossia definiscono l’identità degli stili di vita e degli schemi concettuali di un collettivo; dall’altra, lo differenziano radicalmente dagli altri gruppi umani vicini. In questa indagine risultano proficue, in primo luogo, le riflessioni condotte da Peter Sloterdijk attorno alla teoria dell’antropotecnica; in secondo luogo, le indagini svolte da Philippe Descola sulla costituzione dei collettivi.

 

2. Culture come sistemi di antropotecniche

La riflessione sloterdijkiana rappresenta un pensiero eminentemente incentrato sul ruolo che la spazialità svolge nel processo di soggettivazione, sia collettivo che individuale. L’uomo abita sempre uno spazio, rendendolo climatizzato in modo antropico al fine della propria sopravvivenza; allo stesso tempo, lo spazio che l’uomo abita retroagisce sul gruppo e sull’individuo, caratterizzandoli in modo costitutivo, in prospettiva tanto ontogenetica quanto filogenetica12. Se, tuttavia, si vogliono indagare le dinamiche che, secondo Sloterdijk, caratterizzano un collettivo, definendo la sua propria cultura, bisogna rivolgersi soprattutto alla sua teoria dell’antropotecnica, così come è tratteggiata in Regole per il parco umano13 e La domesticazione dell’essere14 e poi ripresa in Von der Domestikation des Menschen zur Zivilisierung der Kulturen15.

Le riflessioni concernenti il concetto di antropotecnica costituiscono un aspetto essenziale della riflessione sloterdijkiana più recente e, come Antonio Lucci analizza in modo approfondito16, affondano le proprie radici nei movimenti teorici fondamentali del filosofo di Karlsruhe. Il concetto di antropotecnica, inoltre, è reintrodotto da Sloterdijk, con un senso parzialmente modificato, in Devi cambiare la tua vita17, in cui risulta enfatizzata la componente individuale dei processi di autoformazione umana18. Ai fini di questa indagine, tuttavia, sembra più opportuno riferirsi ai luoghi teorici in cui Sloterdijk si concentra sulla dimensione collettiva delle dinamiche antropotecniche19.

La riflessione del pensatore di Karlsruhe si fonda su un movimento teorico, non sempre condiviso20, volto a considerare l’essere umano integralmente come un prodotto tecnico. A partire dalle «prototecniche spontanee»21 preistoriche, tramite meccanismi di feedback positivi indirizzati verso l’auto-incremento, l’uomo si definisce come quell’essere che modifica se stesso e il proprio ambiente tramite la sottoposizione a procedure tecniche le quali, agite dall’uomo, retroagiscono sulla sua stessa costituzione ontologica22. Queste procedure, prima interamente non programmatiche e non intenzionali, poi anche pianificate e coscienti, caratterizzate dalla sequenzialità e dalla ripetitività, sono definite come antropotecniche: 

l’espressione antropotecnica […] spiega […] quello che è un semplice teorema dell’antropologia storica, secondo il quale “l’uomo” è da capo a piedi un prodotto e, nei limiti del sapere odierno, può essere compreso solo seguendo in maniera analitica il suo processo produttivo e i suoi rapporti di produzione.23

L’insieme delle antropotecniche condivise da un collettivo può essere definito come la sua cultura, in quanto rappresenta ciò che, da una parte, lo definisce in quanto gruppo umano in relazione al carattere tecnico delle procedure che regolano i suoi stili di vita e i suoi schemi di pensiero; dall’altra, lo differenzia dagli altri collettivi, costituendo le caratteristiche specifiche del suo essere nel mondo:

per farla finita con la messa in pericolo di sé che infesta l’essere-sapiens a causa della sua singolare posizione biologica, gli uomini hanno prodotto l’inventario delle procedure di autoformazione di cui oggi discutiamo, riassumendole nel concetto complessivo di cultura […]. Delle tecniche di formazione dell’uomo che agiscono a livello culturale fanno parte le istituzioni simboliche come le lingue, le storie di fondazione, le regole matrimoniali, le logiche della parentela, le tecniche educative, la codificazione dei ruoli per sesso ed età e, non ultimi, i preparativi per la guerra, così come i calendari e la divisione del lavoro; tutti quegli ordinamenti, tecniche, rituali e abitudinarietà insomma con cui i gruppi umani hanno preso “in mano” da soli la propria formazione simbolica e disciplinare. E con questa mano, potremmo dire più esattamente, essi stessi sono diventati per la prima volta degli uomini appartenenti a una cultura concreta. Questi ordinamenti e forze formative vengono indicati in modo appropriato con l’espressione di antropotecniche.24

 Le culture, dunque, sono sistemi di antropotecniche, nella misura in cui è antropotecnico e, quindi, culturale tutto ciò che proviene dall’uomo in quanto suo prodotto specifico e, allo stesso tempo, lo definisce, producendo la sua umanità. Il concetto sloterdijkiano di cultura si presenta come squisitamente anti-idealista e profondamente radicato nella materialità della corporeità:

fin dal principio, natura e cultura sono caratterizzate da una vasta zona mediana popolata di pratiche installate nel corpo: in questa zona hanno la propria sede le lingue, i rituali e i presupposti manuali della tecnica, poiché queste istanze incarnano le forme universali dell’artificialità automatizzata. Questa zona intermedia costituisce una regione ricca di forme e dall’assetto variabile-stabile, che può essere designata provvisoriamente, ma in maniera abbastanza chiara, con espressioni convenzionali quali educazione, costume, consuetudine, habitus, allenamento ed esercizio.25

Sloterdijk è anche attento alle dinamiche di allevamento sottese alle procedure antropotecniche di formazione delle culture. Seguendo le intuizioni contenute nel Politico di Platone26 e in Così parlò Zarathustra di Nietzsche27, evidenzia come il processo di autoformazione dei collettivi si esplichi, innanzitutto, come un processo di domesticazione28. Infatti, le antropotecniche, alle quali gli esseri umani si sottopongono, determinano la produzione di soggetti omologati a codici di comportamento comuni, i quali influenzano in modo radicale la loro costituzione sia fisica che psichica, rendendoli adatti alla vita in un dato collettivo e in un dato ambiente. La programmazione delle procedure addomesticanti, però, non è demandata primariamente né ai governanti, come in Platone, né a un’oscura “casta sacerdotale”, come in Nietzsche, ma è piuttosto determinata da dinamiche eminentemente sistemiche e impersonali, cosicché si deve «fare i conti con un allevamento senza allevatori e dunque con un’ingovernabilità bioculturale, priva di soggetto»29.

La costituzione antropotecnica dell’uomo permette di fare luce sull’essenza delle culture, chiarendo due punti fondamentali. In primo luogo, se gli individui e i collettivi rappresentano interamente sistemi di procedure di autoformazione attuate tecnicamente, non è possibile sostenere l’ipotesi di una “natura” comune a tutti gli uomini, che caratterizzerebbe la cultura autentica a cui sarebbe necessario omologarsi. Questo pregiudizio etnocentrico non tiene conto dell’originaria plasticità tecnica dell’umano, a causa della quale ciò che accomuna gli uomini è soltanto la struttura antropotecnica, ossia la necessaria esistenza di prassi auto-formative che definiscono l’identità di un collettivo, cioè la comunanza dei modi di vita, secondo modalità altamente variabili nel tempo e nello spazio e influenzate da fattori complessi e molteplici. La cultura, dunque, è sempre una dimensione plurale, in quanto rappresenta il risultato, transitorio ed epifenomenico, di prassi, la cui funzione è comune a tutti gli uomini, al punto da caratterizzarli in quanto tali, ma la cui modalità di realizzazione è sempre diversa.

In secondo luogo, la teoria dell’antropotecnica consente di comprendere come le delimitazioni delle zone di influenza delle diverse culture non si debbano identificare né necessariamente né prevalentemente con i confini politici propri degli Stati moderni. La cultura, infatti, non è né qualcosa di pre-dato rispetto al collettivo che la pratica, né qualcosa di assimilabile a ideali astratti e non condivisi. Le culture sono indissolubilmente legate agli spazi che determinati collettivi hanno occupato nel corso di lunghissimi periodi di tempo e le antropotecniche che le costituiscono si sono sedimentate in modo impercettibile e inavvertito tramite innumerevoli prassi reiterate nel corso delle generazioni.

Philippe Descola  Peter Sloterdijk

 

3. Identità nel collettivo, differenze tra i collettivi

Le analisi etnologiche e antropologiche di Descola mirano a una destrutturazione del dualismo concettuale, proprio della tradizione occidentale, tra natura e cultura, e culminano, come rileva Mijail Mitrovic Pease30, nelle riflessioni contenute in Oltre natura e cultura31. È importante tenere presente che l’intento di Descola, analizzato criticamente da Michael Lambek32, non è né quello di superare questo dualismo in una sintesi superiore, né di sostituirlo con un altro dualismo, ma, piuttosto, di confutare la presunta universalità di questo schema concettuale e di dimostrarne la relatività culturale, evidenziando il suo carattere storico, ossia circoscritto al modo di pensare proprio di una determinata epoca e di una determinata area geografica, che coincide con l’Occidente moderno33.

Secondo Descola, che elabora una versione criticamente aggiornata dello strutturalismo del suo maestro Claude Lévi-Strauss34, è possibile descrivere alcuni schemi fondamentali, con i quali gli esseri umani strutturano l’esperienza ed elaborano una propria visione del mondo: 

possiamo definirli come disposizioni psichiche, sensorio-motrici e emozionali, interiorizzate grazie all’esperienza acquisita all’interno dell’ambito sociale dato, e che permettono l’esercizio di almeno tre tipi di competenza: prima di tutto, strutturare in modo selettivo il flusso della percezione dando una preminenza significativa ad alcuni tratti e processi osservabili nell’ambiente; poi, organizzare tanto l’attività pratica quanto l’espressione del pensiero e delle emozioni secondo scenari relativamente standardizzati; infine, fornire un quadro per interpretazioni tipiche di comportamenti o avvenimenti, interpretazioni ammissibili e comunicabili all’interno della comunità dove le abitudini di vita che esse esprimono sono accettate come normali.35

 Queste strutture si basano sulla distinzione fondamentale, esperita da tutti gli uomini in tutti gli enti, tra un’interiorità e un’esteriorità, e sulla possibile identità o differenza di questa interiorità e questa esteriorità tra i diversi enti, umani e non umani36. In questo modo, Descola può tratteggiare le caratteristiche fondamentali di quattro ontologie, ossia quattro diversi modi di concepire gli enti e i loro rapporti reciproci, che risultano dalle possibili combinazioni di questi fattori37.

All’interno di ciascuna ontologia, inoltre, i gruppi umani si differenziano ulteriormente, in base ai diversi modi in cui i sistemi di relazione tra le varie tipologie di enti vengono concepiti, dando vita a differenti collettivi38. Un collettivo, infatti, è definito come un insieme di agenti, umani e non umani, accomunati, in primo luogo, dalla stessa ontologia e, in secondo luogo, da uno schema di relazione dominante, che completa il sistema di strutturazione dell’esperienza e di conferimento di senso al mondo:

insomma, non sono tanto i limiti linguistici, il perimetro di una rete commerciale o anche l’omogeneità dei modi di vita che tracciano i contorni di un collettivo, ma anzi un modo di schematizzare l’esperienza condivisa attraverso un insieme più o meno vasto di individui, insieme che può del resto presentare variazioni interne – di lingue, di istituzioni, di pratiche – abbastanza marcate perché lo si possa considerare, ad un altro livello, come un gruppo di trasformazione composto di unità discrete. […] Se si ammette […] che i limiti di un collettivo sono coestensivi rispetto all’area di influenza di tale o tal altro schema della pratica, allora la sua determinazione riposerà prima di tutto sul modo con cui gli umani vi organizzano la loro esperienza, soprattutto nelle loro relazioni con i non-umani.39

Ciascuna ontologia tollera l’egemonia di soltanto alcuni modi di relazione, ma all’interno della stessa ontologia diversi di questi modi, anche tra loro opposti, possono affermarsi di volta in volta come dominanti, differenziando le caratteristiche fondamentali dei collettivi che li praticano.

Un collettivo, dunque, si presenta come un gruppo umano che, da una parte, condivide con altri gruppi la stessa ontologia, essendo partecipe di una delle quattro distinzioni fondamentali dei modi di classificare l’essere; dall’altra, possiede un proprio modo di relazione prevalente, che lo distingue dai gruppi vicini in modo spesso oppositivo.

Definire “culture” i collettivi descritti da Descola sarebbe improprio: in primo luogo, perché nelle riflessioni sviluppate in Oltre natura e cultura il concetto di cultura risulta parziale e non più applicabile universalmente; in secondo luogo, perché Descola considera i collettivi come insiemi di enti sia umani che non umani, sia animati che inanimati, confrontandosi con le analisi di Bruno Latour sulle reti di collettivi40 e rigettando le visioni antropocentriche che considerano l’uomo come unico soggetto agente e gli altri enti unicamente come oggetti agiti41. Sembra possibile, tuttavia, effettuare il movimento teorico opposto, ossia sostituire al concetto corrente di cultura quello di collettivo: in questo modo, si può considerare una “cultura” come un insieme di agenti, accomunati dalla stessa visione del mondo, ossia dallo stesso modo di identificare gli enti e di relazionarsi con essi.

Le analisi condotte da Descola, dunque, possono essere utili per concepire l’essenza della diversità culturale tra i collettivi, in quanto evidenziano come non sia tanto l’insieme delle tradizioni, della lingua, della religione, dell’economia o dell’ordinamento sociale comuni a differenziare un gruppo umano dagli altri, quanto le modalità con cui questo gruppo struttura la propria visione del mondo, ossia classifica gli enti e si relaziona a essi. È il modo di concepire l’essere proprio di un collettivo, infatti, a permettere o a negare determinati sviluppi culturali, come l’adozione di un certo di tipo di tecnica o struttura sociale, e non viceversa:

non è il progresso tecnico in sé che trasforma i rapporti che gli umani intrattengono tra loro e con il mondo, sono piuttosto le modifiche a volte tenui di questi rapporti che rendono possibile un tipo di azione giudicato prima irrealizzabile su o con una certa categoria di esistenti.42

 

4. Cibernetica culturale

Le indagini di Sloterdijk e di Descola provengono da retroscena teorici piuttosto eterogenei, perciò è impossibile combinarle e farle dialogare su un piano comune, senza modificare, almeno parzialmente ma comunque inevitabilmente, il senso delle loro riflessioni. Sembra però possibile giovarsi delle loro intuizioni per esplicare al meglio l’oggetto di questa ricerca, stabilendo alcuni lineamenti fondamentali intorno ai fattori che definiscono le culture.

La teoria dei collettivi di Descola permette di chiarire come ciò che differenzia una cultura rispetto alle altre non sia da ricercarsi tanto in parametri tecnologici, economici, sociali o linguistici, quanto piuttosto nella comune visione del mondo e comprensione del sistema di rapporti che costituisce tale gruppo umano,rappresentando il suo criterio identificativo. La distinzione tra una cultura e l’altra si fonda, quindi, proprio sulle differenze nelle modalità di schematizzazione dell’esperienza dei diversi soggetti e non su criteri estrinseci e particolari come le tradizioni o le istituzioni.

L’analisi delle modalità di schematizzazione dell’esperienza, tuttavia, emerge soltanto a posteriori tramite l’indagine etnografica dei diversi gruppi umani. Il contributo sloterdijkiano, invece, evidenzia come i fattori che costituiscono materialmente una cultura, ossia l’insieme delle dinamiche che caratterizzano un collettivo, rappresentino degli intrecci di pratiche e modi di vita, che, retroagendo sul collettivo stesso, producono la sua peculiare configurazione. La cultura, dunque, non deve essere ipostatizzata e concepita come un ideale astratto ma, piuttosto, come una pluralità di prassi antropotecniche mutevoli, intercambiabili e indefinitamente differenziabili.

È possibile, dunque, ipotizzare una ricorsività di tipo cibernetico tra gli schemi di strutturazione dell’esperienza teorizzati da Descola e le prassi antropotecniche delineate da Sloterdijk. Da una parte, infatti, è il modo di concepire il proprio posto nel mondo e la propria relazione con esso peculiare a un collettivo a determinare quali stili e pratiche di vita possano essere adottati; dall’altra, queste stesse prassi retroagiscono sugli individui e sui gruppi che le esercitano, modificando la loro visione del mondo. Tra le modalità di strutturazione dell’esperienza e le procedure antropotecniche che le incarnano sembra allora sussistere una circolarità, in cui ciascun termine definisce e permette l’altro in modo ricorsivo.

La pars destruens ricavabile dalla disamina delle teorie di questi due pensatori può permettere, quindi, di negare, in primo luogo, la rappresentazione della cultura come di un canone “metafisico”, unico e universale, proprio di un solo gruppo umano. In secondo luogo, di confutare la derivazione dei fenomeni culturali dalle ideologie proprie della classe dirigente degli Stati moderni, o in generale di accomunare in modo necessario la cultura di un collettivo con la sua appartenenza a una nazione. Infine, di rigettare la concezione del dualismo tra natura e cultura come fenomeno universalmente valido e in grado di fornire il criterio distintivo tra l’uomo e il resto dell’esistente.

La pars costruens, invece, può portare a una teorizzazione del concetto di cultura che tenga conto dell’irriducibile complessità propria dei fenomeni umani e della loro costante variabilità storica. Concependo le culture come collettivi, infatti, si può affermare che i gruppi umani si definiscono tramite meccanismi di identità e differenza fondati sulle rispettive modalità di schematizzazione dell’esperienza, le quali, a loro volta, determinano una gamma di possibili stili di vita. Tenendo presente la costituzione antropotecnica dell’uomo, inoltre, è possibile considerare i vastissimi sistemi di pratiche di vita, che si sedimentano gradualmente influenzandosi reciprocamente, come ciò che costituisce le culture.

Il pensiero e la cultura mediterranei, quindi, rappresentano un intreccio di prassi eterogenee e ricorsive, che definiscono i modi di vita dei gruppi umani appartenenti a un determinato spazio e che si fondano su un modo comune di comprendere il mondo e di rapportarvisi.

 

 

Note con rimando automatico al testo

1 Cfr. A. Camus, L’Homme révolté, Paris, Gallimard, 1951; trad. it. di L. Magrini, L’uomo in rivolta, Milano, Bompiani, 2002, pp. 277-303.

2 Cfr. M. Alcaro, Il Mediterraneo di Albert Camus, in «Ora Locale», n. 27, 2001/2002.

3 Cfr. A. Camus, La culture indigène. La nouvelle culture méditerranéenne, in «Jeune Méditerranée», n. 1, 1937; trad. it. di C. Pastura, È possibile una nuova cultura mediterranea?, in C. Pastura, S. Perrella (a cura di), L’estate e altri saggi solari, Milano, Bompiani, 1969.

4 Cfr. A. Colasuonno, Da “La pensée de midi” al “Pensiero meridiano”. Da Camus a Cassano, dal rivoltarsi al rivolgersi (a Sud), in «Ragion pratica», n. 1, 2015, pp. 245-266.

5 A. Camus, L’Homme révolté, cit., p. 296.

6 Ivi, p. 295.

7 Ibidem.

8 Ibidem.

9Ivi, p. 296.

10 Cfr. A. Durini, Le meditazioni meridiane di Albert Camus, in «Quaderni d’Altri Tempi», n. 11, 2008.

11 Cfr. F. Cassano, Il pensiero meridiano, Roma-Bari, Laterza, 1996.

12 Cfr. P. Sloterdijk, Domestikation des Seins. Die Verdeutlichung der Lichtung, in Id., Nicht gerettet. Versuche nach Heidegger, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2001; trad. it. di A. Calligaris, S. Crosara, La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung, in Id., Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, Milano, Bompiani, 2004, pp. 135-139; Id., Regeln für den Menschenpark. Ein Antwortschreiben zu Heideggers Brief über den Humanismus, in Id., Nicht gerettet. Versuche nach Heidegger, cit.; trad. it. Regole per il parco umano. Una risposta alla Lettera sull’“umanismo” di Heidegger, in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, cit., pp. 253-255.

13 Cfr. Id., Regeln für den Menschenpark. Ein Antwortschreiben zu Heideggers Brief über den Humanismus, cit.

14 Cfr. Id., Domestikation des Seins. Die Verdeutlichung der Lichtung, cit.

15 Cfr. Id., Von der Domestikation des Menschen zur Zivilisierung der Kulturen, in Id., Was geschah im 20. Jahrhundert?, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2016.

16 Cfr. A. Lucci, L’animale acrobatico. Origini e sviluppo del concetto di antropotecnica nel pensiero di Peter Sloterdijk, in «Esercizi Filosofici», n. 7, 2012, pp. 78-97.

17 Cfr. P. Sloterdijk, Du mußt dein Leben ändern. Über Anthropotechnik, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2009; trad. it. di S. Franchini, a cura di P. Perticari, Devi cambiare la tua vita, Milano, Raffaello Cortina, 2010.

18 Sulla problematicità di questo movimento teorico del pensiero sloterdijkiano, cfr. T. Macho, Vorbilder, Paderborn, Wilhelm Fink, 2012, pp. 431-460; A. Lucci, Un incontro mancato. Il solipsismo aristocratico di Peter Sloterdijk, in «aut aut», n. 353, 2012, pp. 79-94; Id., Un’acrobatica del pensiero. La filosofia dell’esercizio di Peter Sloterdijk, Roma, Aracne Editrice, 2014.

19 È importante notare che, in questo contesto, sono indagate unicamente le antropotecniche in quanto dinamiche che costituiscono la specificità di un collettivo. Vengono necessariamente tralasciate, dunque, le riflessioni sloterdijkiane riguardanti l’essenza dei collettivi stessi, ossia dei fattori che permettono lo stare insieme degli uomini gli uni con gli altri. In proposito, cfr. P. Sloterdijk, Im selben Boot. Versuch über die Hyperpolitik, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1995; Id., Der starke Grund zusammen zu sein. Erinnerung an die Erfindung des Volkes, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1998; Id., Sphären III – Schäume, Plurale Sphärologie, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2004; trad. it. di G. Bonaiuti, S. Rodeschini, Sfere III. Schiume, Milano, Raffaello Cortina, 2015, pp. 247-290.

20 Giovanni Salmeri, ad esempio, contesta la teoria della tecnicità costitutiva dell’essere umano sostenuta da Sloterdijk, opponendole la tesi di una radicale contrapposizione tra umano e tecnico. Cfr. G. Salmeri, L’elementare dell’uomo. Ciò che l’antropotecnica costringe a ripensare, in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», n. 10, 2008.

21 P. Sloterdijk, Domestikation des Seins. Die Verdeutlichung der Lichtung, cit., p. 121.

22 Per una ricostruzione critica delle riflessioni sloterdijkiane sulla questione del processo di ominazione, cfr. A. Marigliano, L'addomesticamento del "Da-sein" nella nuova "Lichtung" dell'essere. L'"antropotecnica sferica" di Peter Sloterdijk, in «Iride», n. 2, 2007, pp. 351-360.

23 P. Sloterdijk, Domestikation des Seins. Die Verdeutlichung der Lichtung, cit., p. 121.

24 Ivi, pp. 158-159.

25 Id., Du mußt dein Leben ändern: Über Anthropotechnik, cit., pp. 15-16.

26 Cfr. Platone, Politico, trad. it. di P. Accattino, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 53-61.

27 Cfr. F. W. Nietzsche, Also sprach Zarathustra (1883-1885), in G. Colli, M. Montinari (a cura di), Kritische Gesamtausgabe, vol. 6, t. 1; trad. it. di M. Montinari, a cura di G. Colli, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Milano, Adelphi, 1976, pp. 195-201.

28 Cfr. P. Sloterdijk, Regeln für den Menschenpark. Ein Antwortschreiben zu Heideggers Brief über den Humanismus, cit., pp. 255-265.

29Ivi, p. 258.

30 Cfr. M. Mitrovic Pease, Philippe Descola o la promesa de una Antropología de la Naturaleza, in «Anthropía», n. 11, 2013, pp. 100-103.

31 Cfr. P. Descola, Par-delà nature et culture, Paris, Gallimard, 2005; trad. it. di E. Bruni, a cura di N. Breda, Oltre natura e cultura, Firenze, SEID Editori, 2014.

32 Cfr. M. Lambek, The elementary structures of being (human), in «Hau. Journal of Ethnographic Theory», vol. 4, n. 3, 2014, pp. 411-417.

33 Cfr. P. Descola, Par-delà nature et culture, cit., pp. 33-109. Per una discussione sui limiti teorici della proposta di Descola, cfr. S. Feuchtwang, Too ontological, too rigid, too ahistorical but magnificent, in «Hau. Journal of Ethnographic Theory», vol. 4, n. 3, 2014, pp. 383-387.

34 Cfr. C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, Paris, Plon, 1958; trad. it. di P. Caruso, Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1966; Id., Anthropologie structurale deux, Paris, Plon, 1973; trad. it. di S. Moravia, Antropologia strutturale due, Milano, Il Saggiatore, 1978.

35 P. Descola, Par-delà nature et culture, cit., p. 125.

36 Cfr. ivi, pp. 133-144.

37 Cfr. ivi, pp. 147-239.

38 Cfr. ivi, pp. 255-307.

39Ivi, pp. 359-360 (trad. modificata).

40 Cfr. B. Latour, Nous n’avons jamais été modernes. Essai d’anthropologie symétrique, Paris, La Découverte, 1991; trad. it. di G. Lagomarino, C. Milani, a cura di G. Giorello, Non siamo mai stati moderni, Milano, Elèuthera, 2009.

41 È importante notare che, sebbene la ripartizione dei collettivi teorizzata da Descola includa enti sia umani che non umani, i fattori che determinano i criteri di identificazione e differenziazione tra i collettivi sono riconducibili, in ultima analisi, sempre a dinamiche umane di schematizzazione dell’esperienza.

42 P. Descola, Par-delà nature et culture, cit., p. 380. Descola riconosce, comunque, che la sovrastruttura tecnica, economica e sociale può, a sua volta, influenzare l’infrastruttura ontologica di un collettivo, modificandola. Cfr. ivi, pp. 380-383.