L’io, l’altro e la collettività: declinazioni della persona in Simone Weil

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A Edoardo Ferrario

 

Le riflessioni di Simone Weil intorno al tema della persona non hanno un carattere sistematico né la loro formulazione risulta sempre esplicita attraverso i molteplici luoghi testuali. Lo stesso richiamo alla voce «persona» non ricorre frequentemente nel pensiero della filosofa francese, a eccezione dei testi che intendo qui prendere in esame al fine di delineare un bilancio del suo utilizzo e un’immagine della figura concreta della persona umana che ne emerge.

Stabilendo un parallelismo e al contempo un confronto tra i testi La persona e il sacro1 e La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano2, entrambi composti a Londra nei primi mesi del 1943, cercherò di mettere in luce l’importanza concettuale – sia a livello sociopolitico sia sul piano spirituale e umano – e la presenza silenziosa della persona nel pensiero di Simone Weil.

La persona in Simone Weil può essere a mio avviso considerata un révenant, ovvero uno spettro, una presenza fantasmatica che irrompe di frequente nella riflessione della pensatrice e che sovverte la tradizione della persona intesa come sostanza.

Il suo nome e il suo concetto non vengono mai evitati da Weil, che anzi ne affronta direttamente il fraintendimento in un «soggetto di diritto» assurto a idolo giuridico e che ne mette in risalto la distanza dall’«io» filosofico.

Scardinando la versione democratico-rivendicativa della «persona» in àmbito politico e attraverso l’aspra critica della «società personalistica» del personalismo – di Emmanuel Mounier, ma ancor di più quello di Jacques Maritain –, Simone Weil propone i contorni di un’altra persona, di un «essere umano» che risponde all’appello della parte più sacra e profonda del proprio io e che si dedica con impegno e sacrificio agli altri uomini.

 

  1. La persona, l’io e l’impersonale

Il testo di Simone Weil La persona e il sacro racchiude fin dal sottotitolo i termini chiave della riflessione e li presenta come legati da un rapporto oppositivo: Collettività, persona, impersonale, diritto, giustizia.

La dialettica fondamentale da cui prende avvio e si sviluppa il testo è rappresentata dalla coppia persona-sacro, di cui la pensatrice chiarisce la netta distinzione. Ciò che vi è di sacro infatti in ogni uomo non è la sua «persona», né la «persona umana» – di cui è interessante sottolineare la precisazione terminologica in rapporto alla formula spesso utilizzata da Weil di «essere umano» –, ma è «semplicemente lui, quell’uomo» (celui), un individuo particolare colto nella sua corporeità fisica ma soprattutto in nome di quel qualcosa in fondo al cuore che «si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male»3.

La nuda individualità di un uomo, nella sua composizione di corpo e intelletto, giunge alle altezze del sacro grazie all’anima, ossia grazie alla coscienza che gli altri hanno del carattere sacro dell’anima di ogni uomo e della sua costante aspettativa del bene.

«Ecco un passante: ha lunghe braccia, occhi celesti, una mente attraversata da pensieri che ignoro, ma che forse sono mediocri.

Ciò che per me è sacro non è né la sua persona né la persona umana che è in lui. È lui. Lui nella sua interezza. Braccia, occhi, pensieri, tutto. Non arrecherei offesa a niente di tutto questo senza infiniti scrupoli»4. È in questo passaggio del pensiero di Weil che Roberto Esposito ritrova la possibilità di un’assimilazione del corpo umano nella dimensione del sacro, come si legge nel testo Le persone e le cose. «Non coincidente con la maschera della persona, ma irriducibile anche all’appropriabilità della cosa, esso è riportato a quel genere terzo costituito dalla res sacra. Non appartenente allo Stato né alla Chiesa, ma neanche, esclusivamente, alla persona che lo abita, il corpo deve la propria intangibilità al fatto di essere eminentemente comune»5.

Per Esposito nel pensiero di Simone Weil il corpo è sacro in nome del suo nucleo impersonale e largamente umano – «Non soltanto nel senso, ovvio, che tutti hanno un corpo. Ma anche in quello, più intenso, che ogni corpo umano è patrimonio dell’umanità nel suo complesso»6.

Esposito intende La persona e il sacro come il progetto di Simone Weil di rivendicare nell’uomo – in opposizione a qualsiasi apologia o filosofia della persona – «ciò che sta al di là, ma anche al di qua» della persona.

Ed è proprio nella prospettiva di questo al di là che la concezione del valore sacro dell’essere umano, che a un primo sguardo sembra essere fondata biologicamente – per l’appunto il suo al di qua –, viene ampliata in senso spirituale: lo spirito di giustizia che alberga invincibilmente nell’anima di un uomo, al punto che «sarebbe straziata dal pensiero che gli viene fatto del male»7, riesce a richiamare l’attenzione dell’altro uomo che proprio in questa dinamica altruistica compie il passaggio nell’impersonale e si eleva al livello del sacro.

L’anima così emancipata dalla persona può essere accostata all’«io» – distinto tanto dalla «persona» quanto dal «sé». Per Weil l’essere umano deve essere infatti in grado di separare l’«io» dal «sé stesso»: questo percorso che deve realizzarsi incessantemente e consiste nel non perdersi e nel non confondersi con i propri pensieri, con i propri stati d’animo e azioni. L’uomo in questo modo è veramente in grado di conoscersi in quanto io, proprio nel sapersi distaccare da sé.

Il pensiero di Simone Weil intorno alla persona può essere confrontato con le riflessioni di Hannah Arendt su questo tema. Ogni essere autenticamente umano è per Arendt un insieme di pensiero e di ricordo: ricollegandosi all’insegnamento socratico del «conosci te stesso» la filosofa tedesca intende quest’ultimo come la capacità di dialogare con sé stessi, di ricordare le proprie azioni – soprattutto il male che si è commesso –, per comprendersi e giudicarsi senza menzogne né giustificazioni8.

Questo nucleo di pensiero e ricordo – ossia i modi fondamentali attraverso cui gli uomini mettono radici e prendono posto nel mondo – è per Arendt «quella che definiamo di solito persona o personalità, distinta dall’essere semplicemente appartenenti al genere umano»9. L’articolarsi dell’essere-due-in-uno socratico e questa particolare capacità di giudizio è ciò che caratterizza per la pensatrice tedesca la più autentica «personalità morale».

Per Simone Weil, al contrario, nulla è più distante dalla persona – tradizionalmente riconosciuta e accettata – della profondità morale di un uomo. Per Weil infatti la persona è semplicemente un concetto vuoto, un mero slogan dell’ideologia, una parola che rientra nel campo del diritto e delle sue rivendicazioni – legata perciò all’utilizzo strumentale della forza e della violenza che insieme rendono l’uomo una «cosa», una materia inerte e passiva che non ha più in sé alcuna aspirazione a vivere né alcuna capacità di sentire il richiamo alla vita che proviene dall’anima propria e altrui10.

La persona è per Weil una figura indeterminata sul piano del riconoscimento politico e sociale, come altrettanto indefinibile è il concetto giuridico del «rispetto della persona umana» e dei «diritti della persona umana». Assumere la persona in quanto soggetto e rivendicarne i diritti è il più grave errore del pensiero e dell’azione politica.

«La nozione di diritto è legata a quella di spartizione, di scambio, di quantità. Ha qualcosa di commerciale. Di per sé evoca il processo, l’arringa. Il diritto si regge soltanto su un tono di rivendicazione»11.

La persona cerca di opporsi alla forza della necessità che governa la condizione umana e di garantirsi da essa attraverso uno Stato di diritto. Tuttavia nel ricercare assicurazione della continuità vitale nella fortezza del diritto e delle sue norme non si giunge a comprendere ciò che quella necessità è e comporta per la vita umana; la condizione naturale viene considerata come qualcosa di semplicemente esteriore che può essere limitato dall’ordinamento democratico e gestito tramite il ricorso alla violenza. In questo senso la filosofa francese denuncia la pericolosità della triade «persona-democrazia-violenza» entro il quadro di una necessità non compresa. A ciò si oppone la forza soprannaturale del bene, nel duplice senso di grazia che illumina gli uomini e aspirazione al bene da parte degli stessi esseri umani.

Il primo passo di questa elevazione al bene è la conversione della persona in «io», in vista del più radicale passaggio nell’impersonale – che può essere inoltre avvicinato al movimento di una problematica distruzione dell’io.

La chiave di questa trasfigurazione è ancora una volta il sacro.

«Ciò che è sacro, lungi dall’essere la persona, è quello che in un essere umano è impersonale»12, ciò che è tanto distante dalle contestazioni politiche del noi collettivo, quanto dalla protesta personale per le offese ai diritti della persona umana.

L’io (le moi) corrisponde alla coscienza di sé e al riconoscimento della condizione umana in quanto sventura e costante esposizione alla necessità e al male; in questa prospettiva l’uomo che dimentica la propria persona esteriore e si raccoglie finalmente in sé stesso, nella disposizione interiore dell’attenzione e nello stato di solitudine morale, si emancipa come singolo io distinto dal noi collettivo.

«La persona corrisponde alla parte che in noi è errore e peccato»13, perciò si rende necessario il passaggio nell’impersonale non solo della persona che dice «io», ma anche della collettività che dice ancor più pericolosamente «noi».

Prima di passare nell’ordine impersonale, come sua unica possibilità di salvezza e di autenticità, l’essere umano deve distinguersi dal «noi» ristretto della collettività, deve emanciparsi dall’idolatria del collettivo come istituzione erroneamente sacralizzata.

La collettività è del tutto estranea al sacro, è un’«operazione fittizia», un’entità astratta e informe, un mero concetto di propaganda politica che nel suo essere falsamente comunitario vorrebbe imporsi come ordine sovrapersonale. Inoltre, alla tendenza comunitaria – quel proposito di una comunità come «persona di persone» che Simone Weil critica al personalismo – si aggiunge il comportamento individualista ed egoista della persona.

È dunque necessario un ritorno della persona al suo puro essere singolare, nell’isolamento e nell’ascolto interiore. A questo momento di raccoglimento, di dialogo interiore e di distensione, segue la fase – difficile da sostenere – del decentramento da sé, che equivale per l’io sia a uno spossessamento sia all’accettazione del vuoto, nella prospettiva di un distacco totale (détachement total). Questo percorso si compie all’interno dell’io sotto l’effetto di un dolore che redime senza l’aspettativa di una restituzione futura, un dolore ispirato dall’amore per Dio e alimentato dalla grazia.

In una pagina dei Quaderni, Weil descrive così il rapporto tra l’uomo e Dio: «La persona umana deve essere interamente impegnata, così come lo è nell’amore, nell’amicizia, nell’estrema angoscia causata dalla paura, dalla fame o dalla sofferenza, nella gioia suprema; e tuttavia, diversamente da quanto accade in tali emozioni, non è in causa la persona, ma un’altra cosa. È quest’altra cosa è rivolta verso qualcosa di diverso da una persona, necessariamente»14. L’uomo non ha dunque una relazione personale con un Dio che è del tutto impersonale, ma piuttosto deve oltrepassare i limiti linguistici del rapporto duale io/tu tipico tra gli uomini: «Non dire a Dio “io”, non dirgli “tu”. “Io” e “tu” separano gli uomini, e questa separazione li costringe a salire più in alto. Senza né “io” né “tu”, il rapporto sia più intimo di qualsiasi unione umana»15.

Simone Weil delinea una nuova figura di persona che si forma nel farsi da parte, nello sradicamento sia dall’àmbito sociale sia dalla dimensione meramente vegetativa della materia di cui è fatto l’uomo, attraverso il movimento di un’elevazione alla parte più profonda di sé. Questa è per Weil la forma per eccellenza della liberazione dell’uomo.

 

  1. La questione della responsabilità universale

La comprensione di sé e l’attenzione a cui perviene il singolo io è la prova della sua responsabilità, verso sé stesso e verso gli altri uomini.

«Chi è penetrato nell’àmbito dell’impersonale vi trova una responsabilità nei confronti di tutti gli essere umani. Quella di proteggere in loro non già la persona, bensì ogni fragile possibilità di passaggio nell’impersonale che la persona ricopre»16.

Emerge a questo punto della riflessione il peso e la carica problematica dell’idea di una responsabilità verso gli esseri umani, una responsabilità totale e assoluta, difficile da inquadrare a livello umano e a livello più prettamente filosofico-politico: da una parte essa si pone oltre la responsabilità politico-sociale della comunità, che invece sembrerebbe essere la prima e fondamentale forma di impegno e di cura degli altri uomini (si pensi ad esempio alla dedizione incondizionata, all’essere-gli-uni-per-gli-altri di cui parla il filosofo boemo Jan Patočka17), e dall’altra afferma il superamento della dimensione personale dell’io che potrebbe facilmente essere considerato il punto di partenza per l’apertura responsabile verso gli altri.

Simone Weil non avanza qui forse il concetto di una responsabilità impersonale e personale al tempo stesso? Impersonale perché supera i limiti del collettivo racchiuso entro le mura della città per aprirsi a uno spirito ampiamente umanitario – di cui comunque si dovrebbero approfondire le possibilità e la reale efficacia –; personale perché l’io, la persona in un certo modo redenta ed elevata, è imprescindibile per il sentimento di amore disinteressato, l’attenzione e l’impegno verso l’altro che sono alla base del comportamento responsabile.

È proprio questa la persona altra – la cui anima è passata attraverso il proprio annientamento come esperienza filosofico-spirituale della propria morte e che è arrivata a comprendere la sua costitutiva sventura – che Simone Weil delinea senza più nemmeno far ricorso al termine, bensì alla sua idea silenziosa.

A questa nuova figura umana si lega inscindibilmente l’azione concreta di una responsabilità che è insieme presa tra la persona, l’ordine impersonale del sacro e il compito etico-politico di fare del bene agli uomini.

 

  1. La persona e la collettività

Simone Weil privilegia dunque il pensiero del soprannaturale a tutta una tradizione filosofica che sostiene la centralità della legge naturale e dei diritti della persona, opponendo a quest’ultima espressione quella dei «doveri verso l’essere umano».

Eppure nella sua grande opera La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei diritti verso l’essere umano, la pensatrice ricollega implicitamente la sua concezione dell’«être humain» alla filosofia personalista di Jean Lacroix18.

L’analisi di Lacroix sulla nozione di «persona» – volta a svelarne le ambiguità e la problematica associazione con l’individuo e la comunità – rivela agli occhi di Simone Weil un nuovo personalismo che, nella forma di un umanismo improntato a un sentimento cristiano puro, le è di certo più prossimo – rispetto al personalismo dei «diritti dell’uomo» e del «carattere sacro della persona umana» di Jacques Maritain19.

Per Lacroix l’individualità equivale a uno sforzo di concentrazione, di organizzazione e unificazione del sé, e dunque è per l’uomo uno sforzo di autosussistenza a livello biologico e psicologico. Così il filosofo personalista prende le distanze sia da quell’orientamento di pensiero che ritrova nella personalità l’esaltazione dell’individualità («volontà di potenza») sia dalla tendenza comunitaria che invece oppone radicalmente l’individualità bio-psicologica alla personalità spirituale – separando in tal modo nell’uomo la vita dallo spirito.

La persona non si identifica né con l’individuale né con l’universale, ma si realizza nella tensione tra questi due poli: è la capacità di armonizzare la propria individualità con la realtà in cui si è da sempre inseriti – nella relazione con il mondo, con gli altri o con Dio. In tal senso la persona consiste sotto il profilo umano concreto nel sapersi «subordinare» e dedicare agli altri – secondo il modo unico e originale della propria persona –, mentre dal lato universale è l’essere cosciente dell’«orchestrazione universale» e del ruolo con cui parteciparvi attivamente – sempre nel movimento di un dover essere e non nella forma di una cosa conchiusa.

Per Lacroix la vera persona è dunque la risposta a un’invocazione, a un appello che giunge dall’alto e che pone ogni persona in cammino e in comunione con tutte le altre persone nella ricerca della «Persona infinita».

Sembra qui chiara l’influenza che un simile pensiero può aver esercitato su Simone Weil: «La persona è senza dubbio coscienza di questa orchestrazione universale, la qual cosa significa che essa si situa in rapporto al mondo, in rapporto agli altri, in rapporto a Dio. Ma anche, ma soprattutto, essa è atto, affinché si personalizzi attraverso l’opera che porta a compimento e la storia che realizza»20. La persona è inoltre un bilanciamento armonico tra la storia personale, la partecipazione comunitaria alla storia del mondo e il coinvolgimento nel «dramma cosmico».

La persona esiste nel mondo e vi partecipa incarnandosi, si radica (s’enracine) nel mondo vivente con la sua corporeità e spazialità personale: «al fine di evitare i pericoli del ripiegamento su di sé e di un personalismo chiuso, è necessario radicarsi nel reale, entrare in conversazione poetica con il mondo, conoscere, amare e ugualmente in un senso rispettare la natura»21.

La persona-coscienza trae alimento (ravitaillement) dalle differenti esperienze della sua realtà fisica e dall’«immenso rumore del mondo». Tuttavia è in un certo senso «acosmica», sempre trascendente al mondo – e dunque potremmo dire «soprannaturale» e «impersonale» secondo il vocabolario di Weil – in nome del suo essere un’aspirazione, una virtualità in movimento. Per Lacroix questa «personalizzazione perenne» rende la persona inaccessibile e misteriosa, un insieme complesso di realizzazioni e determinazioni, un intreccio inesauribile di pensiero e azione. La persona è inoltre secondo Lacroix l’intreccio tra la vita familiare (corrispondente alla categoria del «sociale privato») e la vita nazionale (corrispondente alla categoria del «sociale pubblico»); questa correlazione deve aver ispirato a Weil il primo dovere o bisogno dell’anima che riguarda la collettività – che sia la patria o la famiglia – come «milieu vital» per l’uomo.

Ciò che qui appare ambiguo e ancora da approfondire è il carattere duplice della collettività in quanto bisogno dell’anima e terreno vitale per l’anima stessa.

La collettività è per Weil radicata profondamente nel passato e si protende già verso l’avvenire, essa è l’unico organo di conservazione dei fondamenti spirituali di una civiltà per le generazioni future. Per questo motivo il dovere e l’obbligazione nei confronti della collettività è forte ed evidente al punto da arrivare al sacrificio totale dell’elemento personale in nome della salvaguardia del collettivo.

Questo pensiero appare del tutto estraneo alla posizione espressa dalla filosofa francese in La persona e il sacro nello stesso 1943, e la distanza aumenta quando oltre a parlare di «collettività» – che Weil predilige rispetto alla più politica «comunità» – propone di ripensare e ritornare alla nozione di «popolo» e di «patria». Rispetto a quel testo appare problematica l’associazione di questi due concetti politici al valore della giustizia: «In quanto la patria era il popolo costituito in nazione sovrana, non sorgeva alcun problema a proposito dei suoi rapporti con la giustizia»22.

Mantenendo la dissociazione tra la patria e lo Stato – uno Stato diventato inumano, brutale e burocratico, e che ha assorbito il nome della «nazione» –, Simone Weil introduce la necessità di una nuova relazione tra la patria e il popolo e di un rinnovamento della concezione di patria.

Il popolo evoca un terreno vitale e caloroso, un ambiente intimo e fraterno in cui gli uomini che hanno vissuto il dolore, che sono stati sradicati dalla guerra, potranno vivere e ritrovarsi gli uni insieme agli altri. Ma andando più avanti nella riflessione Simone Weil riconosce al concetto di «popolo» una portata filosofica rilevante: «il popolo detiene il monopolio di una conoscenza, la più importante di tutte le conoscenze, quella della realtà della sventura»23.

La patria in questo senso è l’organizzazione del compito spirituale fondamentale che consiste nel riprendere contatto con lo spirito di verità dal fondo della sventura.

Le riflessioni di La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei diritti verso l’essere umano tracciano rispetto a La persona e il sacro un diverso percorso storico-politico dell’umanità contemporanea, che sembra basarsi proprio sulla «persona» e sulla «collettività», e che ne riprende al contempo il termine chiave dello «spirito di verità».

 

  1. La condizione umana e la giustizia

Per tornare a La persona e il sacro, l’intervento soprannaturale della grazia ispira negli uomini lo spirito di verità e quella rara qualità dell’attenzione – il puro amore – che apre loro la capacità di discernimento della sventura propria e altrui, così come un modo nuovo di decidere e di agire secondo giustizia.

Il grido silenzioso, che risuona nella parte sacra di ogni uomo e aspira costantemente al bene, è una protesta impersonale: ha origine nella parte profonda dell’io che soffre e si rivolge a coloro che saranno in grado di prestare ascolto a quello stesso dolore.

Per la filosofa francese è di grande importanza proteggere e alimentare quei pochi e rari «granelli di bene puro» che coltivano i valori autentici del bene con amore e spirito di sacrificio; eppure si riscontra una perdita o scomparsa di uomini che proprio dal fondo della dolorosa esperienza umana sappiano comprenderla, comunicarla ed esprimerla per sé e per gli altri, attraverso quelle parole che hanno un particolare potere di elevazione in sé stesse (a livello intuitivo e pre-concettuale) – quali giustizia, verità e bellezza.

La condizione sociale contemporanea, la politica e la forza, la condizione del lavoro e la necessità dominante, hanno reso fievole e maldestra, fino all’afasia e all’impotenza, la voce di quella parte che grida per il male che le è stato inflitto.

In chi ha subìto troppe volte i colpi dell’ingiustizia viene meno la capacità di parlare, di esprimere quel grido, sia interiormente sia esteriormente, e di poterlo tradurre in parole.

A questo grido, come nucleo fondamentale del carattere sacro di un essere umano, non deve essere assicurata soltanto la pubblica libertà di espressione, ma soprattutto devono essere forniti gli adeguati mezzi espressivi – che è per Weil compito precipuo della pubblica istruzione –, e un’atmosfera di silenzio e di attenzione.

«Occorre infine un sistema di istituzioni tale da portare il più possibile alle funzioni di comando uomini capaci e desiderosi di udirlo e di comprenderlo [il grido]»24. Occorre inventare altre istituzioni e organizzazioni della vita pubblica, occorre inventare altre parole e valori, o sostituire altre parole a quelle logore e mal intese che abbiamo finora utilizzato: in questo senso per Simone Weil bisogna prendere le distanze tanto da una democrazia imperniata sulla ricerca del consenso democratico allo scopo di governare, quanto dal gioco dei partiti, dei sindacati e delle Chiese, ovvero di tutte quelle associazioni che usano la libertà di propaganda per il solo fine del potere.

È necessario abbandonare tutte le parole della «regione mediana dei valori» della democrazia, del diritto e della persona. «Al di sopra delle istituzioni destinate a proteggere il diritto, le persone, le libertà democratiche, occorre inventarne altre destinate a discernere e abolire tutto ciò che nella vita contemporanea schiaccia le anime sotto l’ingiustizia, la menzogna e la bruttezza. Occorre inventarle, perché esse sono sconosciute, ed è impossibile dubitare che siano indispensabili»25.

Comincia a emergere qui la prospettiva di un legame tra cielo e terra, di un’ispirazione che proviene dal cielo e che sola può incidere davvero sul suolo terrestre-umano, alimentando con la sua luce quella «pianta» che ogni uomo è. In verità, dice Weil, l’albero dell’umanità è radicato nel cielo, da cui trae energia, e protende i suoi rami verso la terra.

Su questa terra gli uomini devono essere ispirati da una forza superiore, l’«irradiazione dello spirito», che parlando al loro cuore e alla loro intelligenza possa generare in loro la tensione al bene, alla giustizia, alla bellezza e alla verità.

«Nell’uomo la persona è qualcosa nell’afflizione, che ha freddo, che anela a un riparo e a un po’ di calore»26, a cui dunque non basta la rassicurante apparenza del riconoscimento sociale, del prestigio collettivo o della protezione delle leggi.

«A tal fine, da un lato bisogna che ogni persona abbia intorno a sé dello spazio, disponga di una certa quantità di tempo libero, di diverse possibilità di passare a gradi di attenzione sempre più elevati, di solitudine, di silenzio. Dall’altro, bisogna che sia avvolta dal calore, affinché l’afflizione non la costringa a sprofondare nel collettivo»27.

Interviene in questa prospettiva l’importanza del «lavoro fisico» che tanta parte ha nelle riflessioni di Simone Weil sia in La persona e il sacro sia in La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano.

Nel primo testo la filosofa francese sostiene che il lavoro fisico sia una fondamentale esposizione alla verità della condizione umana, «una possibilità di accedere a una forma impersonale dell’attenzione»28 che inoltre «implica un certo contatto con la realtà, con la verità, con la bellezza di questo universo e con la saggezza eterna che ne costituisce l’ordinamento»29.

Nel secondo testo il pensiero di «le travail physique» viene inserito da Weil come la chiave di volta dell’opera e diviene il centro spirituale del suo ideale di una vita sociale ben ordinata che attraverso il consenso dato alla morte e al lavoro possa accettare quotidianamente la verità e il peso dell’esistenza umana. Il lavoro fisico rappresenta «la forma più perfetta di virtù dell’obbedienza»30 ed equivale al consenso dato all’ordine dell’universo e ugualmente alla propria morte.

L’attività umana e concreta del lavoro fisico sembra essere il tentativo di pensare insieme il bene e la necessità, queste due forze invincibili separate da una distanza infinita e che nonostante ciò appaiono inseparabili nel loro continuo intervenire sulla vita umana. In questa stessa prospettiva, nei Quaderni il lavoro è per Weil una modalità della conoscenza umana come ricerca del rapporto essenziale tra lo spirito e la materia: «Il segreto della condizione umana è che l’equilibrio tra l’uomo e le forze della natura circostanti “che lo superano infinitamente” non è nell’inazione, bensì soltanto nell’azione con la quale l’uomo ricrea la sua vita: il lavoro»31

Tuttavia la fabbrica moderna è diventata il luogo dello svilimento del lavoro fisico e dell’alienazione dell’uomo; nella società contemporanea si parla ormai del lavoro solo in termini di salario, di scambio e di rivendicazione del giusto prezzo. In tal modo i lavoratori non si rendono più conto che ciò di cui si contratta economicamente non è altro che la loro anima. Secondo Weil, questo spirito di mercanteggiamento spegne la resistenza e il grido di speranza degli uomini sotto lo spirito rivendicativo.

«L’uomo ha bisogno di un caldo silenzio, gli si dà un gelido tumulto»32. Le idee, le convinzioni, i sentimenti e le azioni degli uomini, sono ridotti a un «acre piagnisteo rivendicativo, senza purezza né efficacia»33.

Al triste scenario della politica e del diritto Simone Weil contrappone – come rimedio e percorso differente di esistenza – una vera e propria «missione spirituale» ispirata dalla giustizia e dall’aspirazione al bene.

La giustizia è ciò in nome della quale parla e agisce Antigone, in contrasto con qualsivoglia diritto o legge scritta, mossa nel suo intimo da un amore estremo, eccessivo e assurdo, simile a quello che ha spinto Cristo a sacrificarsi sulla Croce.

In un breve testo composto nel 193634 la figura di Antigone incarna la migliore rappresentazione dell’opposizione tra il diritto, il cui luogo è la città, e la giustizia, il cui simbolo è il bene: Antigone, lasciata sola dai suoi concittadini, con un cuore animato dall’amore e da un coraggio eroico, compie attraverso il suo «io» il passaggio nell’impersonale (emblematica è l’affermazione: «Io non sono nata per condividere l’odio, ma l’amore»35) e svela i limiti dell’autorità, del «noi» fusionale che si attiene unicamente alle leggi scritte, senza decidere responsabilmente o agire attivamente.

Nel richiamo a Antigone la filosofa francese intende mostrare ancora una volta l’incessante lotta tra la necessità e il bene che si disputa nell’io di ogni essere umano, oltre i diritti e i doveri della «persona umana».

«Né le personalità né i partiti accordano mai udienza alla verità o alla sventura»36, bensì questo compito di svelamento è rimandato da Weil a tutti gli uomini, in modo inaspettato tanto al popolo quanto agli uomini che sono al potere – al modo di un suggerimento per l’avvento di una vera politica e di veri uomini politici.

«[…] Ovunque la limitazione rigorosa del tumulto delle menzogne, delle propagande e delle opinioni; l’instaurazione di un silenzio in cui la verità possa germogliare e maturare; ecco ciò che si deve agli uomini»37. Tale dovrebbe essere il più alto compito degli uomini pubblici e delle autorità spirituali, come loro fondamentale responsabilità universale.

Il progetto di Simone Weil di fondare un’autentica filosofia sociale contiene le questioni fondamentali della civiltà contemporanea ed è illuminata al tempo stesso dallo splendore della grazia. L’idea weiliana della necessità di una reale circolazione dell’elemento soprannaturale nel tessuto politico-sociale – oltre che in quello strettamente religioso-individuale – comporta un radicale e originale rivolgimento dei termini «persona», «collettività» e «impersonale».

Forse per questi motivi il pensiero di Simone Weil è stato a lungo considerato inudibile e inaudito.

 

Note con rimando automatico al testo

1 S. Weil, La personne et le sacre, in Écrits de Londres et dernières lettres, Éditions Gallimard, Paris, 1957; tr. it. a cura di M.C. Sala, La persona e il sacro, Adelphi, Milano, 2012.

2 S. Weil, L’Enracinement ou Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, Flammarion, Paris, 2014; tr. it. a cura di F. Fortini, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, SE, Milano, 1990.

3 S. Weil, La persona e il sacro, p. 13.

4 Ibidem, pp 11-12.

5 R. Esposito, Le persone e le cose, Einaudi, Torino, 2014, p. 79. Si veda anche R. Esposito, Categorie dell’impolitico, il Mulino, Bologna, 1988, nelle pagine dedicate a Simone Weil.

6 Ivi.

7 S. Weil, La persona e il sacro, p. 13.

8 H. Arendt, Responsability and Judgement, Schocken Books, New York, 2003; tr. it. a cura di D. Tarizzo, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino, 2004, 2010.

9 Ibidem, p. 86.

10 Si legga a questo proposito S. Weil, L’Iliade ou le poème de la force (1939-1940), in La source grecque, Gallimard, Paris, 1953; ed. it. a cura di A. Di Grazia, S. Weil, L’Iliade o il poema della forza, Asterios, Trieste, 2012.

11 S. Weil, La persona e il sacro, p. 27.

12 Ibidem, p. 17.

13 S. Weil, La persona e il sacro, p. 19.

14 S. Weil, Cahiers, vol. II, Librairie Plon, Paris, 1972; ed. it. a cura di G. Gaeta, Quaderni, vol. II, Adelphi, Milano, 1985, p. 73.

15 Ibidem, p. 71.

16 Ibidem, p. 22.

17 «La storia inizia quando i membri di una certa sfera culturale, di una certa comunità, aprono uno spazio pubblico; una dimensione sociale che non riconoscono come effetto del potere assoluto esercitato da sovrane forze primordiali, ma come propria opera: come ciò che creano gli uni per gli altri. In questo spazio, l’uomo come tale, l’uomo che vive per la libertà, si dedica con tutte le sue forze alla possibilità più propria, al suo compito fondamentale: vivere per gli altri, per le generazioni future». J. Patočka, Il problema dell’inizio e del luogo della storia (1974), in Cristianesimo e mondo naturale e altri saggi, a cura di R. Paparusso, Lithos, Roma, 2011, pp 113-114.

18 È attestata la lettura e l’interesse di Simone Weil per l’articolo di Jean Lacroix Personne, individu et communauté, in Cahiers d’Uriage, III, n.29 (mars 1942), pp 9-20; testo riportato in S. Weil, L’Enracinement ou Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, Flammarion, Paris, 2014, pp 439-455.

19 Il riferimento è nello specifico al testo di J. Maritain, Le droits de l’homme et la loi naturelle, Éditions de la maison française, New York, 1942.

20 Ibidem, p. 446. Traduzione dal francese.

21 Ibidem, p. 452. Traduzione dal francese.

22 Ibidem, p. 197. Traduzione dal francese.

23 Ibidem, p. 237. Traduzione dal francese.

24 S. Weil, La persona e il sacro, p. 15.

25 Ibidem, p. 55.

26 Ibidem, p. 24.

27 Ibidem, pp 24-25.

28Ibidem, p. 25.

29Ibidem, p. 26.

30 S. Weil, L’Enracinement ou Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, p. 347. Traduzione dal francese.

31 S. Weil, Cahiers, vol. I, Librairie Plon, Paris, 1970; ed. it. a cura di G. Gaeta, Quaderni, vol. I, Adelphi, Milano, 1982, pp 126-127.

32 S. Weil, La persona e il sacro, p. 25.

33 Ibidem, p. 32.

34 S. Weil, Antigone (1936), in La source grecque, Gallimard, Paris, 1953.

35 Sofocle, Antigone, tr. it. di F. Ferrari, Bur, Milano, 2013, p. 79, versi 524-5

36 S. Weil, La persona e il sacro, p. 39.

37 Ibidem, p. 52.