Diari weiliani. Due percorsi nel pensiero di Simone Weil.

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Il  Diario di fabbrica (Weil, Marietti 2015) e l’Indicibile tenerezza. In cammino con Simone Weil (Borgna, Feltrinelli 2016) ci parlano di esperienze vissute in prima persona. Due libri editi a non molta distanza temporale l’uno dall’altro e dei quali, in modo diverso, il protagonista è il pensiero di Simone Weil. Simone Weil che annota la sua esperienza in fabbrica, dal dicembre 1934 all’agosto 1935, e racconta a partire da sé, sforzandosi, tuttavia, di assumere la prospettiva dell’altro o dell’altra da sé, operaio e operaia, condividendone fino in fondo la vita. Eugenio Borgna che si racconta come lettore e discepolo della maestra di vita Simone Weil.

Eugenio Borgna racconta a partire da sé: le sue emozioni, il suo restare attonito, le sue folgorazioni, il suo vibrare attraversando la vita e la scrittura di Simone Weil, dando luogo a una singolare storia degli effetti del pensiero weiliano, di cui vengono annotate soprattutto le sfumature emozionali conseguenti alla lettura. Borgna si racconta attraversato dalle giornate di lei in fabbrica, dalle riflessioni di lei sul malheur, dagli appunti di lei sulla religione e sulla politica. L’essere femminile di Weil, il suo essere donna, è continuamente sottolineato in questo diario interiore – quasi la “storia di un’anima”, e non è un caso, forse, che Teresa di Lisieux abbia uno spazio importante anche tra le pagine di questo libro, insieme ad altre donne a cui Borgna porge ascolto, da Etty Hillesum e Madre Teresa di Calcutta – attraverso “l’indicibile tenerezza” che la giovane filosofa suscita nel suo lettore maturo, psichiatra che non teme di farsi sconvolgere dalla radicalità delle scelte e delle parole di Simone Weil. In modo, forse, talvolta un po’ stereotipato, Borgna sottolinea il binomio fragilità/femminilità tanto quanto quello femminilità/straordinaria sensibilità, ma il linguaggio e la vibratilità del sentire di Borgna al contatto con Weil costituiscono, in realtà, proprio ciò che contraddice dall’interno lo stereotipo: le parole di lui sono sovrabbondanti di emozione nel parlare di lei, tanto quanto lei, ad esempio nel Diario di fabbrica – testo molto presente nelle riflessioni di Borgna – è sobria nel riferire il suo malessere, le sue osservazioni sulle miserevoli condizioni in cui gli operai e, soprattutto, le operaie sopravvivevano, le sue reazioni alla violenza delle relazioni o agli inattesi segni di amicizia. Sovrabbondanza e sobrietà si fanno da specchio soprattutto se si considerano questi due diari atipici, esibendo, a tratti in modo palese, il rischio che Weil stessa, pensando con lucida consapevolezza alla radicalità ed eccezionalità delle sue scelte, aveva intravisto: che la sua vita, cioè, attirasse l’attenzione più dei suoi pensieri, e che i suoi futuri lettori, piuttosto che chiedersi “dice o no la verità”, si attardassero sugli esiti più eclatanti delle sue scelte. Tali scelte, in realtà, scaturiscono da una riflessione rigorosissima sulla vita stessa e sulle sue condizioni, sulla situazione politica, sul malheur del mondo. Questa è una cifra essenziale che non può essere messa da parte, altrimenti si cadrebbe in quello che, a mio avviso, è un errore, cioè il caratterizzare Simone Weil come una persona affetta da depressione, i cui segni sarebbero il pensiero del suicidio e l’anoressia. Weil è una filosofa e ogni suo sentire è un sentire “pensato”: la sua disperazione ha sempre un oggetto – in genere il malheur altrui – e non è mai la disperazione senza nome e senza oggetto che segna – generalizzando per esigenza di brevità – lo stato psichico nella depressione, la quale, non a caso, può assalire anche chi non si è mai sentito neppure sfiorato dal malheur altrui. Quest’ultima disperazione non di rado ottunde la mente e chiude le porte dello spirito; l’unico desiderio, quando se ne è affetti, è quello di uscirne, come dimostrano, per altro, le pagine della paziente di Borgna che l’autore stesso riporta nel testo. Simone Weil, invece, dal fondo del suo malheur, spalancava la mente e il cuore sul mondo intero; anzi il suo malheur era un riflesso del mondo che le si presentava davanti, in cui la dismisura dell’ingiustizia colmava di molto la misura della giustizia. Come in fabbrica, per gli operai che si ferivano si diceva “è il mestiere che gli entra in corpo”, per il malheur di Simone Weil potremmo dire “è il malheur del mondo che le entra in corpo”, e ne esce sotto forma di pensiero di e su tale malheur. Simone Weil è una filosofa, anche per questo. Borgna sottolinea poco, a mio avviso, il rigore del pensiero di Simone Weil, la consequenzialità lucida anche delle sue emozioni e dei suoi stati d’animo, frutto sempre di riflessione e mai di ripiegamento interiore. Tuttavia, la scelta stilistica di servirsi di lunghe citazioni dalle opere weiliane è, in questo testo, molto felice, poiché riporta costantemente l’attenzione sul pensiero della filosofa, nonostante la tensione costante del volume sia quella di dare ampio spazio alle emozioni che esso suscita; emozioni evidenziate dall’utilizzo reiterato di parole o locuzioni emotivamente connotate – struggente, lacerante, folgorante, bruciante, fiammeggiante, ardenti, incandescenti, febbrili – che, a mio avviso, ci dicono tantissimo sul rapporto intenso e profondo di Borgna con Weil, più che su Weil stessa. Sarebbe stato interessante che Borgna avesse raccontato anche in che modo, praticamente, un pensiero come quello weiliano abbia ispirato o mutato alcune pratiche cliniche, alcuni rapporti con i pazienti e con i colleghi a cui, pure, fa cenno (pp. 56-57). Borgna afferma che Weil ha accompagnato tutto il suo percorso di studioso, ma non ci spiega in quale modo peculiare, ed è un peccato. È come se rivelando tutte le sue emozioni, abbia però tenuto per sé la reale portata del rapporto con Simone Weil: per esempio, quali nuclei teoretici del pensiero di lei abbiano generato le nuove strategie nella psichiatria da lui praticata, quali conseguenze originali ciò ha prodotto: un’interessantissima via di ricerca, questa, che Borgna suggerisce, ma non spiega. Forse per averne un saggio reale occorre rivolgersi agli altri testi di Borgna e considerare il presente volume come un alto e grato omaggio alla compagna di una vita – Borgna stesso invita a un tal genere di lettura in vari luoghi del libro –, un gesto letterario che, per usare un paragone iperbolico, potrebbe essere simile a quello di Dante per Beatrice. E bisogna davvero essere grati a Borgna per questo suo omaggio, che certamente permetterà a molti suoi estimatori e lettori di incontrare e conoscere una delle più grandi filosofe del Novecento.

Il Diario di fabbrica, nella sua opportuna nuova edizione, fa da contrappunto al climax emotivo del testo di Borgna, svelando in modo singolarmente parco di parole e descrizioni, il percorso di riflessione di Simone Weil sul lavoro in fabbrica, sui sistemi di produzione, sulla schiavitù che esso produceva e sull’erosione della dignità personale che esso, a lungo andare, provocava. Simone Weil, nella sua volontà ferrea di verità, capace di esporsi al limite delle sue deboli forze per raggiungerla – aveva mal di testa violentissimi e quotidiani in quegli anni –, decide di lasciare il suo posto di insegnante, chiedendo aspettativa, e prova a farsi attraversare dal lavoro in fabbrica, mettendo alla prova quelle teorie filosofiche e politiche che l’avevano convinta e formata. Uno dei meriti di questa nuova edizione del Diario di fabbrica, sapientemente ritradotto e curato da Maria Concetta Sala, è quello, infatti, di restituirci proprio la nuda realtà dei mesi in fabbrica di Simone Weil, annotati attraverso una scrittura asciutta, cronachistica: dai mal di testa acuti, ai rimproveri dei capi, ai pezzi prodotti, ai salari a cottimo dai quali era, comunque, assente un rapporto reale tra quanto prodotto e quanto assegnato; tutto è appuntato senza enfasi, senza visceralità. Le note che Weil prendeva non erano, ovviamente, destinate ad essere pubblicate, dunque non è affatto semplice decifrarle e l’apparato di note della curatrice, Maria Concetta Sala, è fondamentale per capire alcuni rimandi, alcuni disegni e commenti correlati in modo non immediato. Il Diario di fabbrica era stato precedentemente pubblicato nel 1951, quasi come una premessa a lettere, articoli e riflessioni sulla condizione operaia. Con questa collocazione, il Diario di fabbrica ha occupato un ruolo di retroguardia rispetto a tutte le altre riflessioni sul lavoro, molto più articolate, approfondite e meditate. In queste pagine, invece, ci si trova di fronte a una cronaca fatta di note immediate, ma anche di commenti alle suddette note. La struttura dell’opera non è, infatti, per nulla frutto di improvvisazione, ma è costruita dalla venticinquenne Weil in modo ben articolato e organico, seguendo un progetto preciso. Giancarlo Gaeta, infatti, nel saggio che precede le pagine weiliane, sottolinea come le precedenti scelte editoriali, insieme a tutti i meriti, hanno avuto, rispetto al Diario, un risvolto anche negativo, «lasciandone in ombra il carattere di opera narrativa, certo di per sé non voluta e che tuttavia risulta straordinaria per il modo in cui esperienza personale, osservazione oggettiva e riflessione critica vi sono fuse drammaticamente, a condizione che lo si legga a sé stante» (p. 8). Tra il dicembre 1934 e l’agosto 1935 Weil viene assunta e licenziata più volte, visto che le fabbriche, anche la grande Alstom, risentono ancora della crisi del 1929. Le condizioni di lavoro, quindi, sono particolarmente sfavorevoli per gli operai e le operaie, e non migliorano neppure durante il governo Blum nel 1936. Simone Weil pensava già una “filosofia in atto e pratica”, di cui il percorso tra le officine come operaia e le note scritte per non dimenticare di essere un essere pensante – che da questo tempo di dolore avrebbe distillato idee – costituiscono una precisa ed esemplare fenomenologia. Fin dalla tesi su Cartesio, la relazione tra la materia-ostacolo e l’essere umano aveva costituito un luogo privilegiato di riflessione: la necessità che governa il mondo, le leggi della fisica, insegnano l’obbedienza alla necessità, ma anche aprono vie inedite per affrontarla senza restarne schiacciati: un rispecchiamento della fisica nell’etica e una celebrazione dell’intelligenza teorico-pratica di fronte alla materia ostile. Il lavoro manuale come via per la conoscenza a vari livelli: mentre annota, Simone Weil apprende nozioni di fisica, di chimica, di matematica – curiosa e attenta a quanto di straordinario la mano umana a contatto con la materia-ostacolo riesce a inventare per affrontare tale resistenza. Tutte le note corredate da disegni sul funzionamento delle macchine, sulle azioni necessarie a tornire, piegare, rivettare un oggetto sono piene di curiosità vigile sui rapporti tra materia ed essere umano, soprattutto rispetto all’operaio specializzato, che non si limita solo ad eseguire sempre un medesimo gesto, ma conosce la macchina, quindi le leggi della fisica alle quali è sottomessa, e attraverso esse la domina. Altre note, tuttavia, parlano di un’oppressione che ha la parvenza della necessità fisica, ma non è dominata da alcuna legge, essendo, invece, governata dall’arbitrio. La paga senza relazione al lavoro, i rimproveri senza proporzione e relazione all’eventuale gesto che li causa, dispetti e assenza di rispetto tra compagni e compagne in condizioni che, invece, avrebbero potuto essere di totale vicinanza reciproca: l’oppressione in fabbrica ha il volto truce dell’arbitrio. Non c’è una legge da scoprire, con la conoscenza della quale superare l’ostacolo: l’arbitrio è tirannico perché impedisce di essere preparati, di apprendere una tecnica per restarne indenni. Le note dell’operaia Weil vanno ben oltre l’analisi dell’oppressione nella fabbrica, aprendoci l’abisso più tetro di ogni oppressione, alla quale neppure l’intelligenza può opporsi. L’arbitrio è, infatti, l’essenza di ogni regime tirannico, ben lontano anche dalla classica definizione del sovrano come colui che decide nello stato d’eccezione. Nell’oppressione tirannica lo stato d’eccezione non è più discernibile rispetto al tempo del quotidiano. Qualsiasi gesto degli operai può diventare momento “eccezionale” che dà adito ad una reazione violenta dei capi. È questo ciò che ottunde il pensiero: occorre lavorare, ripetere i gesti, fare presto e sperare di avere la fortuna che nessun pezzo si rompa, che nessuna macchina si inceppi, che la bacinella in cui mettere i pezzi alla fine del lavoro non sia rubata, che nessun capo volga lo sguardo mentre ci si asciuga il sudore o si sorride a un vicino, per non incorrere nell’ira funesta.

Una sobria epica dell’oppressione: questo ci consegna Weil nelle note del Diario di fabbrica. Ma anche una sobria epica della resistenza: la debole forza dell’esercizio del pensiero è, infatti, l’ultimo fossato scavato tra l’umano e il dis-umano. Weil pensa per restare umana, e pensa per trovare un rimedio alla disumanizzazione di chi, vinto dall’oppressione, non ha più contatto con il pensare, schiacciato tra il lavorare per vivere e il vivere per lavorare. L’indomita volontà di Simone Weil non è mai una volontà di potenza, un conatus essendi, ma è una volontà alimentata dalla responsabilità per altri. E autrui nel Diario ha il volto degli operai e delle operaie ormai incapaci anche di rivolta interiore, impegnati a canalizzare fino all’ultima scintilla di energia nel produrre e lavorare sempre di più e meglio. Dare voce a chi non ha voce era, non a caso, uno degli scopi dichiarati dell’impegno filosofico-politico di Simone Weil. Non c’è, dunque, da sorprendersi se le sue riflessioni sulla violenza e sull’oppressione sociale siano tra le più lucide che il pensiero del Novecento ci abbia consegnato.