Orlando Franceschelli, In nome del bene e del male

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Franceschelli Orlando

In nome del bene e del male.
Filosofia, laicità e ricerca di senso

 

 

Roma, Donzelli, 2018,
pp. 191, ISBN 9788868437657, € 17

 

 

 

È difficile recensire i libri di Orlando Franceschelli senza farsene coinvolgere, senza guardarli dall’esteriorità come si richiede a un recensore/lettore. Sono talmente coinvolgenti che si ha voglia di entrare dentro il discorso/pensiero di Franceschelli per criticarlo, completarlo, smontarlo, rimontarlo, decostruirlo - come è moda dire oggi -, insomma per parteciparvi. Anche per questo libro non voglio rimanere ipocritamente fuori, ma dichiaro fin da adesso che metterò le mie mani nella materia dell’opera. Non temo di essere impertinente, ma mi piace essere partecipante.

Qualche parola sulla materia dell’opera. Come la tradizione biblica ci insegna e Franceschelli ricorda fin dalle primissime righe del suo libretto: conoscere è un atto che ci porta a giudicare se un’azione, un fatto, una cosa è bene o male (cfr. p. 3). Fin da qui aggiungo: se esprimiamo giudizi su cose, fatti, azioni è perché il giudizio su bene o male è un giudizio soggettivo. La nostra soggettività è chiamata in causa e verrà ancor più chiamata in causa, se questo giudizio non sarà condiviso. Il nostro giudizio diverrà motivo di polemica, ma ad essere contestato non sarà soltanto il nostro giudizio, ma anche la nostra soggettività. Mi permetto di ricordare al lettore che soggettività viene da soggetto che in latino è sub jactum, cioè si può tradurre letteralmente “gettato sotto”. Se mi si fa passare la sinonimia: gettato è anche giacere. Ma “giacente” in greco è κειμενον che se è preceduto dal sub latino, diventa υποκειμενον, quindi è “soggiacente”, che è participio presente e non participio passato come sub jactum. Ma υποκειμενον è tradotto anche come “fondamento” e, in effetti, nella storia della filosofia moderna il soggetto è il fondamento. Non continuo su questa strada per motivi di spazio e di argomento, ma vorrei solo porre in rilievo un’osservazione che spesso si aggira tra le pagine del libro di Franceschelli: la questione del bene e del male è una questione anche soggettiva ed è sicuramente una questione fondamentale della soggettività umana, anzi direi della genericità umana.

Infatti Franceschelli giustamente sostiene che «negli eventi empirici generati spontaneamente -…- dai processi evolutivi della materia-energia non c’è incorporato alcun bene creaturale né alcun male naturale. Neppure negli eventi che hanno conseguenze per noi indubbiamente negative […] Si tratta di un umano discernimento per noi ineludibile, ma che è tanto più plausibile quanto meno dimentica che ogni manifestazione della realtà empirica - … - è un dato di fatto che, considerato in se stesso, è indifferente al bene e al male» (pp. 32-33). Quindi il giudizio di bene e male è un giudizio soggettivo della genericità umana. Il bene e il male sono nostri, di noi esseri umani. Sono giudizi fondamentali per noi, proprio perché sono appartenenti alla nostra umanità. Fuori di essa non ci sono bene e male, essi sono forme a priori dei giudizi morali, usate per interiorizzare cose, fatti e azioni esterne agli esseri umani.

È possibile avere una definizione oggettiva, cioè universale di bene e male, oppure dobbiamo considerarli soltanto come forme a priori soggettive, quindi relative al singolo soggetto? Ho detto che io le considero forme a priori della genericità umana, Franceschelli, invece, tenta una definizione oggettiva di bene e male: «L’identificazione del bene con la fioritura della felicità possibile e del male morale con l’indifferenza verso la sofferenza patita dagli esseri senzienti» (p. 65). Sono definizioni che convincono, sono “plausibili”, come le definisce lo stesso Franceschelli. Infatti sulla plausibilità Franceschelli è abituato a portare il suo discorso, come ha fatto nel suo precedente e bellissimo libro Elogio della felicità possibile. Ma la plausibilità ha una sua forma di relativismo –come lo stesso Franceschelli riconosce (cfr. p. 82 e segg.) -, perché si potrebbe trovare un soggetto che non riconosce plausibile un’argomentazione. Qui si apre una questione che può apparire irrisolvibile o, almeno, mi pare che per Franceschelli appare irrisolvibile, perché molto stoicamente in chiusura del suo libro, Franceschelli si affida alla saggezza, seguendo in ciò Aristotele, per discernere il bene dal male (cfr. p. 165). Qui finisce l’analisi della materia del libro.

Il problema attuale è, però, l’edificazione di un ethos mondiale (cfr. p. 108), cioè di un’etica che possa affrontare una delle questioni più difficili della storia umana: la guerra. Evitare la guerra è l’obiettivo della massima organizzazione umana, cioè le Nazioni Unite. Ma, come purtroppo sappiamo, quest’organizzazione non è riuscita nei suoi più di settanta anni di esistenza a raggiungere tale obiettivo, anzi stiamo vivendo in un’epoca di guerre continue e inarrestabili, che hanno causato centinaia di milioni di morti e feriti. In fondo la guerra è una manifestazione della più universale sofferenza umana, sofferenza che è radicata nello sfruttamento e nell’esclusione dalla felicità. È tale la situazione dell’umanità oggi, che a parte una piccola minoranza dell’umanità, pare che la sofferenza, quindi sfruttamento ed esclusione, siano il destino degli esseri umani. Si sente la necessità di una liberazione dalla sofferenza, causata dallo sfruttamento e dall’esclusione.

Appunto alla liberazione mi riferisco. La Filosofia della Liberazione ha potuto elaborare un’etica universale, perché è un’etica materiale. Essa ha un principio fondamentale: la vita. La vita non è un valore, ma il fondamento di ogni valore, perché se non c’è vita non ci sono più valori. L’Etica della liberazione è un’etica materiale perché è un’etica fondata sulla vita materiale, sulla vita prima biologica e poi sociale e umana degli esseri umani. Per questa ragione è un’etica universale e della genericità umana, perché tutti gli uomini sono degni di vivere e di avere una vita degna di essere vissuta. Anzi la solidarietà umana consiste proprio nel togliere gli ostacoli alla dignità della vita umana. Se gli uomini hanno una vita degna, allora possono estendere questa dignità della vita a tutti gli esseri senzienti.

Ci troviamo in un’epoca in cui le vittime dello sfruttamento e dell’esclusione sono coloro che permettono alla minoranza dell’umanità un tenore di vita comodo, sicuro e stabile. Non riusciamo nemmeno ad immaginare che il tenore di vita della minoranza dell’umanità è il risultato dello sfruttamento e dell’esclusione dal bene di quelle vittime, che stanno lontane geograficamente dal mondo della comodità, della sicurezza e della stabilità. Adesso queste vittime arrivano a migliaia a bussare a quella porta e immediatamente spuntano gli “indifferenti alla sofferenza altrui” a sostenere che bisogna difendersi da chi mette in pericolo la sicurezza e la stabilità del proprio mondo privilegiato ed egoista. Si vede chiaramente non riconoscono plausibili le ragioni delle vittime del sistema di sfruttamento e di esclusione, non riconoscono le vittime degne di avere un progetto di vita degna di essere vissuta.

Non si tratta più di plausibilità, ma di un riconoscimento di un dato di fatto: il soddisfacimento dei bisogni della minoranza dell’umanità è la negazione del soddisfacimento dei bisogni della maggioranza dell’umanità. Negando questo soddisfacimento si nega la riproduzione della vita, si nega la vita stessa. È ovvio che Franceschelli sia d’accordo con me e sono pure convinto che accetti l’idea che il bene e il male sono il risultato delle condizioni di confronto con le vittime del sistema dominante oggi nel pianeta, che toglie alla periferia, alla maggioranza dell’umanità, per portare benefici al centro, alla minoranza dell’umanità. Bene è allora schierarsi al fianco delle vittime del sistema per il superamento dello sfruttamento e dell’esclusione, male è essere indifferenti alla loro sofferenza.