Mnemosine e Lete

  • Stampa

Weinrich a proposito di oblio e memoria

 

Nel 1997, Harald Weinrich (1927) pubblica il volume: Lethe. Kunst und Kritik des Vergessens (Lete. Arte e critica delloblio).1 Nella «Premessa», egli muove da una definizione dell’uomo come quell’«animale che dimentica (animal obliviscens)» (L VII). Per cui ritiene necessaria una ricognizione tesa a valorizzare non solo l’arte dell’oblio, ma anche la critica che, nel corso del tempo, ad una tale arte è stata mossa.

Riguardo al primo punto, Weinrich parte dall’interrogare la «saggezza discreta» che è implicita nell’uso linguistico ordinario dei termini che afferiscono alla costellazione semantica dell’oblio. Si inizia con il latino oblivisci, un verbo che, per le sue caratteristiche strutturali, ben si addice al significato che esso veicola. In quanto deponente ha, infatti, una forma passiva e un contenuto semantico attivo, esattamente come il dimenticare «si trova in una posizione intermedia tra attività e passività» (L 7). Ma, nella nostra lingua, accanto al verbo “obliare”, da tempo sono di uso comune anche altri due verbi: “dimenticare”, nel senso di perdere dalla mente o dalla memoria, e “scordare”, nel senso di perdere dal cuore. Per cui, colpisce come, nella lingua italiana, in particolare, «le espressioni […] per oblio siano illuminate da una luce negativa».2

Una differente prospettiva presentano, invece, le lingue germaniche. In inglese, ad esempio, (to) forget è composto da get, ricevere, e dal prefisso for-, con cui si produce una conversione del movimento verbale “da” nel movimento, opposto, “verso”. Abbiamo così il significato di «“ricever via (qualcosa)” nel senso di allontanare», il quale è «già quasi una definizione di oblio» (L 9). Costruzione, questa, la quale, in modo meno evidente, sta alla base anche del verbo tedesco vergessen [= Weg-(be)kommen].

Il termine “dimenticare” tende, inoltre, ad essere frequentemente associato ad espressioni modali, per cui si viene a produrre un autentico gioco di incastro nella lingua, nel senso che la negazione lessicale della memoria, rappresentata dall’oblio, può essere raddoppiata da una seconda negazione che produce un significato, questa volta, affermativo.3

Passando a prendere in considerazione la metaforica dell’oblio, Weinrich nota che essa è strettamente imparentata con quella della memoria. Nel senso che, laddove la seconda sta per un paesaggio rigoglioso naturale, il primo sta, invece, per un tratto desertico «in cui le cose da dimenticare vengono soffiate via dal vento» (L 11). Oppure, laddove la memoria si è data, tradizionalmente, come referente l’immagine del libro, l’oblio si è configurato, invece, come una lacuna nel testo, un vuoto che va sì riempito, ma che, al tempo stesso, «rende enigmatico e interessante proprio il testo lacunoso» (L 13).

Con l’evoluzione della funzione dello scrivere, si sono modificate poi anche le metaforiche della memoria e dell’oblio. Dimenticare qualcosa di scritto sulla carta è diventato sinonimo di cancellato o, se era scritto su una lavagna, di spazzato via con un colpo di spugna.

L’«Introduzione» al volume si chiude con una ricognizione genealogica della figura dell’oblio nella mitologia greca. Lete, divinità femminile che fa coppia oppositiva con Mnemosine, dea della memoria e madre delle Muse, nasce dalla stirpe della Notte e ha per madre Eris: la Discordia. Ma Lete è anche il nome di un fiume degli Inferi, la cui acqua, se bevuta, dispensa dimenticanza alle anime dei defunti, liberandole dalla loro precedente esistenza, nonché facendole rinascere in un corpo nuovo. Naturalmente, ciò che qui non va perduta è la connessione fra l’oblio e l’elemento liquido dell’acqua.

Il volume si articola, da questo punto in poi, in nove capitoli, il primo dei quali («Oblio mortale e immortale») parte da una ricognizione dell’atto di nascita della mnemotecnica, fatta risalire da Cicerone (De Oratore, Libri II, 357 e III, 160) al poeta lirico greco Simonide di Ceo. L’espediente utilizzato da quest’ultimo sarebbe dato da una spazializzazione topica della memoria, pensata come una costellazione fissa strutturata in “luoghi” (topoi, loci) che ospitano contenuti convertiti in immagini, le quali possono essere rapidamente percorse nel pensiero, ogni volta che qualcosa deve essere richiamato a mente. Qui, «tutto ciò che deve essere ricordato ha una sua precisa allocazione. Solo l’oblio non vi trova posto» (L 21).4

Ma le fonti ci raccontano anche un altro aneddoto che, avendo di nuovo per protagonista Simonide, finisce per stringere un nesso molto stretto fra oblio e memoria. Mentre il poeta avrebbe chiesto al politico Temistocle se era interessato ad apprendere un’arte della memoria (ars memoriae), il secondo gli avrebbe risposto che egli non era interessato tanto a quest’ultima, quanto ad apprendere un’arte dell’oblio (ars oblivionis).

Alla ricerca dello statuto di questa seconda arte, Weinrich ne individua le prime tracce nell’Odissea di Omero, laddove Ulisse, narrando ai Feaci le sue peregrinazioni per mare (canti IX-XII), riferisce di tre episodi al cui centro c’è il tema dell’oblio: l’approdo alla terra dei Lotofagi, nonché le sue permanenze temporanee presso la maga Circe e presso la ninfa Calipso.

Un altro esempio in cui l’arte della memoria è messa al servizio dell’arte dell’oblio ci è dato poi da Ovidio, il quale, nel suo poema didattico Remedia amoris, elargendo consigli per coloro che soffrono di mal d’amore, stabilisce il precetto secondo cui, per dimenticare l’amata, la prima cosa da fare è richiamare alla memoria, il più chiaramente possibile, tutti i suoi difetti, nonché tutte le pene che ci ha procurato.

E arriviamo così alla teoria della reminiscenza di Platone, per il quale nascita significa ipso facto oblio. Oblio però non totale, in quanto, grazie al metodo maieutico, è possibile richiamare alla memoria le conoscenze apprese nella nostra esistenza prenatale. Decisivo, in una tale teoria, è il paragone dell’anima, quando prende dimora in un corpo, con una tavoletta di cera su cui non è incisa nessuna impronta. Paragone cui va aggiunta anche la critica del filosofo nei confronti della scrittura, capace di prestare soccorso alla memoria solo dall’esterno.

Dopo Platone, chi riflette sullo stretto intreccio fra oblio e memoria è Agostino. Anzi, è prima di tutto la sua vita a fornire una grande testimonianza in tal senso: vita divisa fra una prima metà, che precede la conversione, segnata dalla dimenticanza di Dio, e una seconda, successiva ad essa, segnata dal ricordo devoto di Lui. Sul modello della mnemotecnica antica, la memoria è configurata nelle Confessioni (Libro X) come un paesaggio, fatto di interminabili spazi, fra le cui componenti c’è persino l’oblio. È il luogo in cui Dio stesso ha preso dimora, anche nel peccatore, e dove attende il giorno in cui quest’ultimo, convertendosi, ritroverà la strada che lo riporta a Lui.

Si è parlato della mnemotecnica. Ebbene, non sono mancate le possibilità di leggere proprio in questa chiave la Divina Commedia di Dante, nel senso che le anime dei morti, in cui il poeta si imbatte nel suo viaggio attraverso i tre regni dell’oltretomba, possono essere viste come immagini mnemoniche che egli si imprime nella memoria, insieme ai luoghi che le ospitano, così che, quando, una volta ritornato fra i vivi, scriverà il suo poema, potrà rievocarle nell’ordine esatto in cui le ha incontrate.5 Dante fa inoltre sua la corrispondenza agostiniana fra le figure della Trinità e la triade delle facoltà dell’animo: memoria/intelletto/volontà. Ora, poiché Dio Padre, che rappresenta la memoria, è anche il creatore del mondo, ecco che quest’ultimo ha il suo essere proprio nel venire conservato da essa, per cui la Commedia può anche dirsi come un’indagine poetica, condotta dalla memoria umana, che ha per oggetto la memoria divina. È così che, nel poema in questione, la memoria è onnipresente, anche nel senso che essa, in tutte le anime incontrate, si conserva come un possesso che rimane sempre inalterato.6

Fra i tre regni descritti da Dante, Weinrich ritiene che, dal punto di vista della memoria, il più interessante sia senz’altro il Purgatorio. Rispetto agli altri due regni, qui le anime penitenti hanno un destino non ancora completamente segnato, tant’è che il tempo che vi devono passare non è stabilito una volta per tutte, per cui la grazia divina può sempre intervenire.7 Per accelerare il loro accesso al Paradiso, decisive sono le preghiere dei vivi o, in altre parole, il fatto che questi ultimi devono praticare sempre la commemoratio mortuorum. Si stabilisce così una vera e propria catena di intercessioni che va dal penitente, attraverso Dante, cui si chiede di intervenire presso i vivi, a questi ultimi, ai santi e, finalmente, a Dio stesso: catena di cui nessun passaggio deve mai cedere il passo all’oblio.8

Proprio per vincere il pericolo dell’oblio, che incombe sempre sulla nostra mente, nella Commedia si trovano ben due invocazioni alle Muse, all’inizio della discesa all’Inferno e alla fine, Muse che aiutano la memoria, proprio promuovendo le arti che sono di loro competenza.

Dopo Dante si passa, nel II capitolo («L’ingegno smemorato»), all’Umanesimo e al fondatore della pedagogia moderna: Juan Luis Vives. In diversi scritti sulle arti liberali, egli si occupa di incrementare lo sviluppo artificiale della memoria, fornendo consigli pratici atti a promuovere una vera e propria «dietetica mnemotecnica» (L 61), al fine di sradicare del tutto la dimenticanza nella vita del discente. In Montaigne, all’opposto, cade completamente in discredito il precetto di imparare a memoria e comincia a prendere vita l’idea secondo cui il vero sapere è quello non formato sui libri, ma derivato dall’esperienza, per cui, più che alla memoria verborum, si invita a prestare attenzione alla memoria rerum.

Una contrapposizione che ricorre frequentemente in età moderna è quella fra ingegno (ingenium, esprit, agudeza, Witz)9 o intelletto e memoria. La si ritrova in J. Huarte, in G. de Cordemoy, in C.-A. Helvétius e, infine, anche in Kant.

Nel III capitolo («Oblio illuminato») si muove dal fatto che oblio e memoria sono al centro anche del nuovo metodo prospettato da Cartesio. Dopo una prima fase in cui sono obliati sistematicamente tutti i contenuti che si sono annidati in noi contro la nostra stessa volontà, c’è una seconda in cui interviene un «ri-cordare metodologicamente controllato» (L 89). Prende inizio qui un discredito nei confronti della memoria, che – nell’Illuminismo – finirà per collegarla, piuttosto che al giudizio, al pregiudizio. Nel Dictionnaire philosophique (1764) di Voltaire, ad esempio, la voce memoria (come, del resto, la voce oblio) non compare affatto. E, non diversamente, Rousseau ritiene che, nella prassi educativa della sua epoca, la memoria giochi un ruolo decisamente esagerato.

Kant poi non elabora una vera e propria teoria mnemonica, ma, nelle sue lezioni di pedagogia e di antropologia, tratta della memoria e dell’oblio solo dal punto di vista pratico. Nelle seconde, distingue la memoria in meccanica, ingegnosa e giudiziosa: del tutto priva di valore, la prima, problematica, la seconda, e razionale, la terza, l'unica in grado di promuovere l'istanza critica di pensare autonomamente.Sembra così che egli «si trovi più a suo agio con l’oblio che con la memoria» (L 104), perché solo chi dimentica, non assecondando alcuna opinione errata, può dar prova di essere davvero illuminato.

Nel IV capitolo («Rischi della memoria, rischi dell’oblio»), si riferisce di un caso, raccontato dal neuropsichiatra russo A.R. Lurija nel suo volume Un piccolo libro, una grande memoria (1965), relativo ad uno mnemonista: un uomo che non poteva dimenticare, che soffriva di ipermnesia, ossia di un eccesso patologico di memoria. Egli aveva difficoltà a pensare per concetti, in quanto, per formare questi ultimi, bisogna lasciar cadere tutte le proprietà particolari dei singoli individui. Sorge così la domanda: in che modo quest’uomo può riuscire a dimenticare? Lurija conia, al riguardo, il termine «letotecnica», ossia una strategia per favorire l’oblio, come, ad esempio, scrivere su carta ciò che si intende dimenticare. In tal modo, dopo Platone, la scrittura è accusata, ancora una volta, di essere nemica della memoria naturale.

Un altro esempio di ipermnesia è fornito da Borges con il suo racconto Funes, o della memoria (1942). Qui il protagonista deve far ricorso anch’egli a strategie dell’oblio, per riuscire ad addormentarsi, visto che, assecondando questo bisogno, finirebbe per perdere qualsiasi possibilità di presa sul mondo.

Nel V capitolo («Nuova forza sorta dall’arte dell’oblio»), le figure dell’oblio studiate sono quelle corrispondenti ai nomi di Goethe, Nietzsche e Freud. Nel Faust del primo, chi rappresenta l’arte dell’oblio è Mefistotele, il quale, in diverse situazioni, la mette a punto sperimentandola proprio su Faust.10 In Nietzsche l’oblio si configura come quel principio che apre la strada al nuovo. Il riferimento è, ovviamente, alla seconda delle sue Considerazioni inattuali: Dellutilità e del danno della storia per la vita (1873), dove il filosofo fa espressamente appello alla forza e all’arte del poter dimenticare. Si chiede, a questo punto, Weinrich: «Che cosa vuole dimenticare Nietzsche, e dimenticarlo ad arte? La risposta sommaria è: la storia (Historie)» (L 175), ossia ciò che, gravando con il suo peso opprimente sulla coscienza dello storico, fa sì che quest’ultimo smarrisca quella capacità di agire per la quale è richiesta, appunto, la dote dell’oblio. Ma la seconda delle Considerazioni inattuali non è l’ultima parola di Nietzsche sull’arte del dimenticare. Torna sul tema anche nella Genealogia della morale (1887), dove celebra nella dimenticanza attiva la forma più alta e vigorosa di salute.11 Significativamente, proprio da queste riflessioni «si svilupperà in seguito un brano importante del pensiero utopico» (L 178).

In riferimento a Freud, egli «comincia a occuparsi del fenomeno dell’oblio in relazione alla sintomatologia dei lapsus e degli atti mancati» (L 181). Quando poi scopre l’inconscio, lo intende come un deposito in cui giace non un che di semplicemente non-conosciuto, ma tutto ciò che è stato dimenticato. Con lo psicoanalista viennese, l’oblio perde così la sua innocenza, in quanto chi dimentica o vuole dimenticare qualcosa è costretto, d’ora in poi, a giustificarsi.

Il VI capitolo («Poesia dell’oblio») prende in considerazione due fra i massimi poeti nell’arco che va dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del Novecento: Mallarmé e Valéry, nonché lo scrittore a cui dobbiamo, forse, il più grande affresco letterario dedicato alla memoria: Proust. Il primo dei tre si accosta al tema dell’oblio, prima che nella sua produzione poetica, nella sua riflessione teorica. Nella prefazione, del 1885, al Trattato del verbo del collega R. Ghil, l’oblio è elevato a principio grazie a cui il linguaggio poetico consegna al regno dell’assenza, ossia alla purezza astratta della visione mentale, la cosa presente nominata. È questo un principio che Mallarmé segue pure nella sua poesia, per cui si può dire essa si caratterizza per il fatto che il poeta, estraendo dall’oblio ciò che manca nelle cose, lo lascia risplendere limpidamente nelle parole.12

Non diversamente da Mallarmé, in Valéry, il tema dell’oblio appartiene alla dimensione più profonda della poesia, nonché si trova sviluppato anche nella sua riflessione teorica. Al riguardo, suo intento – mai però realizzato – era di elaborare una compiuta teoria della memoria, tracciando con nettezza i confini che separano il ricordo dall’oblio. Ciò che egli ha fatto è, però, di aver distinto fra due tipi di memoria: una memoria grezza, che trattiene con fedeltà assoluta tutto ciò che è accaduto, e una memoria intelligente, selettiva. Ora, lo strumento di cui noi ci serviamo per operare una tale selezione è proprio l’oblio, il quale è distinto, a sua volta, in un qualcosa che comporta una pura perdita, oppure che può aiutare il pensiero a giudicare.

In Proust, si può trovare poi una vera e propria ontologia della memoria, in quanto egli è convinto che la realtà inizia a prendere forma proprio nella sua sfera. Famosa è la sua distinzione fra memoria volontaria o dell’intelligenza e memoria involontaria. La prima, a differenza della seconda, è inutile per la letteratura, appunto perché non ci fornisce nessuna vera immagine del passato. Nello scrittore francese, Weinrich rinviene così ciò che egli chiama una «mnemopoetica», che presenta caratteristiche «molto diverse da quelle della mnemotecnica» (L 207), la quale, stando ai parametri del primo, sarebbe da ricondurre, piuttosto, sotto il regime della memoria volontaria.13

Nel VII capitolo («Diritto all’oblio, pace dall’oblio?»), il primo personaggio letterario oggetto di interesse è il protagonista del romanzo di Pirandello Il fu Mattia Pascal (1904): «uomo in stato di oblio», come viene definito. Naturale si impone il parallelismo fra un tale personaggio e il Peter Schlemihl di Chamisso: «uomo senz’ombra», il secondo, e «ombra senz’uomo» (L 218) invece il primo. Le differenze stanno nel fatto che lo scrittore italiano, che scrive quasi un secolo dopo lo scrittore tedesco, accentua, rispetto a quest’ultimo, gli aspetti sociali del tema dell’oblio e della memoria, presentando il suo personaggio come qualcuno che non può ricevere nessuna soddisfazione quanto alla sua onorabilità pubblica.

Altri esempi letterari presi in considerazione sono dati dalle storie di amnesia raccontate da Giraudoux, in una versione prima romanzata (Sigfried et le Limousin, 1922) e poi drammatica (Siegfried, 1928), da Anouilh (Il viaggiatore senza bagaglio, 1936),14 nonché dalla poesia di Celan Vigore e dolore (1967/68), dove si parla di una ferita che, poiché non si cicatrizza, mai potrà essere dimenticata: la Shoah.15

Proprio a questo tema è dedicato l’VIII capitolo («Auschwitz e l’oblio impossibile»). Qui si parla di letteratura dell’Olocausto, nelle figure di Elie Wiesel, che inizia a scrivere, dieci anni dopo la liberazione, per il voto di non dimenticare, da lui fatto la prima notte passata ad Auschwitz, di Primo Levi, secondo cui, nella vita del lager, «il prigioniero deve fare un uso parsimonioso persino della memoria» (L 266) e di Jorge Semprún. Quest’ultimo fu sì detenuto in un campo di concentramento, ma era un repubblicano spagnolo, non un ebreo. È autore di un libro di testimonianza dal titolo La scrittura o la vita (1994), che allude al fatto che egli si decide a scrivere cinquant’anni dopo i fatti che racconta, optando per una vita che ricorda piuttosto che per un oblio liberatorio. Il capitolo si chiude con un’analisi del romanzo Estinzione. Uno sfacelo (1986) di Thomas Bernhard, dove oblio e memoria si intrecciano fra loro, a tal punto che il narratore non solo può ricordare, con la massima chiarezza, un trauma da lui subito in passato, ma può «anche “estinguerlo” con tutta la forza dell’oblio. Il che si verifica scrivendo i ricordi proprio in questo libro dal titolo Estinzione» (L 282).

L’ultimo capitolo, il IX («“Salvare in memoria”, ovvero dimenticare»), dove si fa riferimento al titolo di una poesia di H.M. Enzensberger, si apre con l’analisi del racconto Il cestinatore (1957) di Heinrich Böll. Qui il protagonista eccelle nell’arte del “cestinare”, la quale altro non è che una variante di quella dell’oblio, attività che egli conduce, in segreto, nelle cantine dell’archivio presso cui lavora, allusione possibile ai luoghi sotterranei della memoria.

Archivio fa da pendant con biblioteca. E direttore di biblioteca, nella vita, è stato Borges. Non solo, ma essa è anche una metafora che ricorre frequentemente nella sua opera, si pensi, ad esempio, a La biblioteca di Babele (1941). Nello scrittore argentino, oblio e memoria sono così strettamente legati che il primo è configurato come il luogo sotterraneo della seconda, la faccia segreta di questa. Per non dire poi che quando, da anziano, Borges divenne cieco, lodando i doni dell’oblio, egli viveva «solo leggendo “ancora nella memoria”» (L 293).

La fine del capitolo è costituita da un paragrafo che funge da epilogo al libro. Raccogliendo le fila dell’argomentazione svolta fin qui, si ribadisce che, se la scienza antica era fondata sull’alleanza fra la scienza stessa e la memoria, oggi il carico schiacciante di informazioni con cui veniamo a contatto in qualsiasi disciplina fa sì che nessuna di esse possa «più essere praticata senza una precisa componente di oblio» (L 296). Ogni ricercatore dovrebbe essere in grado così di dominare l’arte corrispondente, «se non vuole che la sua attività scientifica venga paralizzata da un’iperinformazione cronica», fenomeno che Weinrich definisce, appunto, come «oblivionismo della ricerca scientifica» (L 297).16 In questo, dal punto di vista metodologico, egli vede «una sinossi dell’insegnamento di Kuhn e Popper», ossia che l’impresa scientifica, conscia delle condizioni della sua memoria, progredendo «da una spinta all’oblio all’altra», perviene così «verso nuove conoscenze, che in caso fortunato saranno anche le migliori» (L 300). Tale istanza deve farsi valere, naturalmente, non solo nelle scienze esatte, ma anche in quelle umane e sociali. La difficoltà sta proprio nel farsi artefici di un nuovo, «moderato politeismo» che, «a dispetto del principio di non contraddizione», tenga insieme il culto di due opposte divinità: «Mnemosine e Lete» (L 301).17

 

 

Note con rimando automatico al testo

1 Tr. it. di F. Rigotti, Bologna, il Mulino, 1999. D’ora in poi, le citazioni tratte da questa opera saranno inserite direttamente nel testo, con indicazione della pagina, preceduta dalla sigla L. Iniziamo ricordando anche che una bibliografia completa della produzione scientifica di Weinrich, dagli inizi (1956) fino al 2006, dove sono elencati ben 308 titoli, si trova nel volume che comprende la sua Lectio magistralis, tenuta presso l’Università di Cagliari, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Lingue e Letterature Moderne Euroamericane: Quante lingue per lEuropa?, a cura di F. Ortu, Cagliari, CUEC, 2006, pp. 37-95.

2 Weinrich ha delucidato i significati che i termini italiani mente e memoria rivestono in Dante, dove ricoprono due campi semantici ben distinti l’uno dall’altro, nel suo La memoria di Dante, Firenze, Accademia della Crusca, 1994, pp. 9-10. Sotto lo stesso titolo, questo testo è stato poi ripreso in H. Weinrich, Il polso del tempo, a cura di F. Bertoni, tr. it. di F. Bertoni, D. Giglioli, D. Meneghelli, C. S. Nobili, F. Vittorini, F. Cilia e A. Zagatti, Firenze, La Nuova Italia, 1999, pp. 23-45.

3 Circa il fatto che la linguistica, fino ad oggi, si è occupata poco delle strategie della negazione, all’interno del discorso, si veda anche H. Weinrich, Lingua e linguaggio nei testi, tr. it. di E. Bolla, Milano, Feltrinelli, 1988. Qui leggiamo che bisognerebbe cercare di rimediare ad una tale carenza, «tramite l’immissione [nella linguistica] di più logica e forse anche tramite una maggiore severità nella formalizzazione» (p. 81).

4 Sulla spazializzazione topica della memoria, si veda anche H. Weinrich, Il polso del tempo, cit., pp. 247-256.

5 Circa il fatto che Dante, nel presentare i dannati, penitenti o salvati, nei tre regni dell’al di là, si attiene sempre alla «regola della localizzazione» dell’ars memoriae classica, giacché li “colloca” tutti entro spazi determinati cui essi sono consegnati, così che «ogni anima […] si definisce per il luogo […] assegnatole nell’oltretomba», cfr. H. Weinrich, La memoria di Dante, cit., p. 15.

6 Scrive Weinrich che, nell’interazione fra le anime dell’altro mondo e Dante, queste «hanno buona memoria per tutti gli eventi della loro vita, cosicché si manifestano capaci di raccontarli fedelmente al loro interlocutore». Egli, «da parte sua, si fregia ugualmente di una memoria “finissima”, non solo per gli eventi della sua propria vita, ma anche per i racconti uditi dalle anime incontrate nell’altro mondo. In questo modo, la memoria è onnipresente in tutte le interazioni della Divina Commedia». Cfr. ivi,p. 16.

7 Nella voce Zeit in der Literatur, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter, K. Gründer e G. Gabriel, vol. XII, Basel, Schwabe, 2004, coll. 1254-1258, Weinrich, ribadendo questo motivo, afferma quanto segue: «A differenza dei luoghi dell’Inferno e del Paradiso, il Purgatorio è, per Dante, interamente sottomesso ad un computo divino del tempo» (col. 1257). In tal senso, il Purgatorio è il regno più interessante fra i tre descritti da Dante, proprio perché segnerebbe la conquista del «tempo degli uomini», collocato «tra la duplice eternità, dell’Inferno da una parte e del Paradiso celeste dall’altra». Nel Purgatorio, la pena stessa «va intesa […] anche quantitativamente», ossia «va misurata in termini temporali», per cui la giustizia divina è qui «soprattutto una giustizia temporale». Cfr. H. Weinrich, Il tempo stringe. Arte ed economia della vita a termine, tr. it. di F. Rigotti, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 90 e 92.

8 Scrive Weinrich: «tutti gli anelli di questa catena dipendono dal buon funzionamento della memoria. Se solo un anello si rompe, […] tutta la catena di preghiere si spezza per sempre». Cfr. H. Weinrich, La memoria di Dante, cit., p. 22.

9 Sull’ingegno, di Weinrich si veda anche la voce Ingenium, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter e K. Gründer, vol. IV, Basel-Stuttgart, Schwabe, 1976, coll. 360-3. Significativamente, il primo vol. pubblicato da Weinrich è dedicato proprio all’ingegno, in connessione con la figura di Don Chisciotte: cfr. H. Weinrich, Das ingenium Don Quijotes. Ein Beitrag zur literarischen Charakterkunde, Münster, Aschendorff, 1956. Sulla figura dell’ingenioso hidalgo, Weinrich ritorna anche in Id., Il polso del tempo, cit., pp. 89-105. Qui leggiamo che Cervantes, descrivendo con ironia Don Chisciotte, lo fa proprio perché quest’ultimo è «totalmente privo di ironia» (p. 95). Infine, un riferimento a Don Chisciotte si trova anche in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter e K. Gründer, vol. IV, cit., coll. 577-582, in part. 579.

10 Su questo punto, si veda anche H. Weinrich, Fausts Forgetting, in «Modern Language Quaterly», 1994, n. 3, pp. 281-295.

11 Sull’arte e il potere del dimenticare in Nietzsche, cfr. anche H. Weinrich, Nietzsches art and power of forgetting, in «Social Science Information», 1997, n. 1, pp. 7-14.

12 Alcune riflessioni di taglio linguistico sulla lirica moderna, in riferimento anche a Mallarmé, sono condotte in H. Weinrich, Literatur für Leser. Essays und Aufsätze zur Literaturwissenschaft, München, dtv, 19862, pp. 132-48.

13 Weinrich chiama la «mnemopoetica» di Proust anche «mnemologia». Quest’ultima sarebbe la «base teorica» della Recherche e si qualifica per il fatto che i sensi non hanno, in essa, «una portata spaziale [come nel caso della vista], bensì temporale». Cfr. H. Weinrich, Il senso sensuale della memoria, in Aa. Vv., Il senso della memoria, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2003, pp. 135-142, in part. p. 139.

14 Agli esempi letterari, appena visti, costituiti dai nomi di Pirandello, Giraudoux e Anouilh, Weinrich si riferisce anche al termine della sua voce Vergessen, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter, K. Gründer e G. Gabriel, vol. XI, Basel, Schwabe, 2001, coll. 671-676, dove afferma che essi risentono chiaramente dell’influsso delle ricerche mediche sull’amnesia, condotte negli anni del primo dopoguerra.

15 Su Celan cfr. anche H. Weinrich, Kontrationen. Paul Celans Lyrik und ihre Atemwende, in Aa. Vv., Über Paul Celan, a cura di D. Meinecke, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1970, pp. 214-225.

16 Weinrich ribadisce questo motivo, secondo cui «di fronte alla memoria tecnica ed elettronica artificiale [è] necessaria un’arte dell’oblio», anche nell’intervista da lui rilasciata a U.M. Olivieri, Arte della memoria, arte delloblio, in «Moderna. Semestrale di teoria e critica della letteratura», 2001, n. 1, pp. 23-30. Oggi, noi dobbiamo non solo «archiviare informazioni di cui non si conosce bene l’uso», ma anche imparare ad apprendere «l’arte di rifiutare e di scegliere cosa conservare»: «un’operazione necessaria per ritrovare la tranquillità della nostra anima nell’epoca moderna e postmoderna», ivi, p. 26.

17 Al riguardo, ricordiamo che, per Weinrich, la metaforicità essenziale del linguaggio si dà quando, sospendendo il paradigma binario imposto dal principio di non contraddizione e riabilitando il “terzo escluso”, noi apriamo così il linguaggio stesso all’orizzonte della multivocità semantica. Cfr. H. Weinrich, Metafora e menzogna: la serenità dellarte, a cura di L. Ritter Santini, tr. it. di P. Barbon, I. Battafarano e L. Ritter Santini, Bologna, il Mulino, 1976, in part. il cap. V: «Metafora e contraddizione», pp. 99-108. Qui, leggiamo: «Le metafore sono […] una forma di enunciato contraddittorio al di là dei rigidi confini dei paradigmi binari. Con la regola del terzo escluso la logica si protegge perciò da problemi indesiderati» (p. 108). Il che è proprio ciò cui intende alludere il sottotitolo stesso del presente fascicolo, quando stabilisce il principio secondo cui si dovrebbe «far memoria dell’oblio», nonché «ricordarsi di dimenticare». Sulla metafora si veda, infine, anche la voce H. Weinrich, Metapher, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter e K. Gründer, vol. V, Basel-Stuttgart, Schwabe, 1980, coll. 1179-1186.