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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Oltre Spaventa: Croce e Gentile

 Sollecitato dalla curiosità intellettuale a scrivere sul Novecento filosofico italiano, la scelta è stata per così dire, formalizzata intorno a due Autori la cui letteratura filologica e filosofica risulta così ampia che non sarebbe valsa la pena di un intervento che non avesse aggiunto ulteriori considerazioni. Gli insegnamenti di Croce e di Gentile, rispetto al panorama culturale costruito nel tempo dalla loro lunga e feconda collaborazione per oltre un ventennio, testimoniano la multidimensionalità dei loro interessi culturali e politici prodotti attraverso i libri, le conferenze, gli incontri con i propri allievi e seguaci, oltreché dalle Accademie straniere, interessate a dialogare con la cultura italiana, profondamente risorta dalle vicissitudini politiche della dominazione straniera. Non intendiamo, tuttavia, procedere alla rievocazione di questi due insigni intellettuali che si paleserebbe solo come una vuota esercitazione retorica, memori della lezione dello Spaventa che nelle Prime Categorie della Logica del 1863 ricorda ai lettori tutti, dopo accaniti sforzi dimostrativo-dialettici, che il pensare nudo e crudo non può stare da sé senza il suo essere e che tra i due non v’è conflitto di misura alcuna proprio perché risultano genuinamente imponderabili ed esclusivi nel loro genere in quanto dialetticamente intercomunicanti relativamente al loro stato reciproco di azione che viene costantemente esposto.1 Il Pensare non entra, così, più in conflitto egemonico con l’Essere per sfidare, invece, l’originario presupposto cartesiano del “Cogito” dal quale per le sortite sillogistiche da questo dedotte, esso si dipana sino a Kant e a Hegel come sue inevitabili pulsioni dialettiche. Di certo il Croce e il Gentile non risultano estranei a questo conflitto, tutt’altro, il Gentile ricostruisce l’immagine vivente dell’Atto del pensare che è perennemente Atto che si fa e diviene, come il pensare spaventiano che pensa, divenendo, il suo essere, per determinare, così, la natura dello Spirito che perviene alla sua forma assoluta. Allo stesso modo tenta di sciogliere l’antico nodo crociano che distingue la teoria dalla pratica, fondando l’unità della prassi, che è argomentazione peculiare di Marx nella quale regnano e vigilano ancora le componenti empiriche delle strutture e delle sovrastrutture economiche, dal Croce giudicate pratiche o conformi alla prassi sociale, ma per nulla rispondenti all’universalità del concetto in cui risiedono l’universale e l’individuale intesi come momenti distinti ed operanti sia nel pensiero sia nell’azione, e, perciò, autorevolmente indicati come “pseudo concetti” o “concetti empirici”.

Contro le indicazioni risolutive gentiliane riferite tutto all’Atto puro come unica componente assoluta dello Spirito che è “Atto in atto”, comprendente tutto il processo storico-filosofico nella sua inscindibile unità assoluta sta la posizione del filosofare storico del Croce che ritiene che l’unità feconda e dinamica dello Spirito debba esercitarsi attraverso l’attività riflessiva e contemplativa in modo tale che i due momenti segnati dalla teoria siano di preparazione alla pratica esercitazione dello storico, in quanto filosofo che ricostruisce intimamente, dopo averlo prima costruito, il processo del storia filosofica tutta, nella quale confluiscono anche le decadenze spirituali che non costituiscono mai la negatività del pensare in quanto esso nella perdurante riflessione, talora segnata non da misura alcuna, individua creativamente ciò che mancava al vuoto concetto e lo ricolma così, di ulteriori contenuti; la negatività è, perciò, individuata come suo opposto contenuto positivo che supera, altresì la fatidica notte della identità astratta ed indeterminata hegeliana dove tutte le vacche sono nere secondo l’antica formulazione hegeliana;2 al contempo il Croce perviene alla sua soddisfatta unità piena, dotata di intuizioni e di concetti che, però, si muovono fluidificandosi nella loro riacquistata dinamicità e positività, sicché l’intuizione estetica del bello e della sua espressione si connette senza contraddizioni con il suo uso logico. Il bello, così adeguatamente inteso, non è solo il concetto espresso, ma altresì la sua varietà storica, intemporalmente partorita dall’autentica certezza che il suo contenuto possa essere stato rappresentato in un determinato tempo che non muta neppure in parte la sua espressione. La verità storica, come la logica del suo concetto, risultano, perciò, una identica verità espressiva per mezzo della quale gli Autori offrono agli Interpreti il rilievo utile per distinguere ed unire, o riunire mediamente ciò che i primi hanno bene delineato e configurato. Il Croce, a tal punto, conferisce al rapporto tra la Logica e l’Estetica il mero riferimento ermeneutico che su può configurare ancora una volta in termini spaventi ani come conflitto inesauribile tra il pensare ed il pensato.3

Nella Tesi fondamentale di un’Estetica come scienza dell’Espressione Linguistica Generale il confronto operativo tra la Logica e l’Estetica è, così, da lui riassunta: «Ma la considerazione delle differenze specifiche tra estetico e logico mostra che il logico non può consistere se non nel pensamento dell’universale, ossia del concetto. Ma la teorica del giudizio confonde di frequente fatti logici con fatti puramente estetici».4

La risposta del Gentile non tarda a farsi sentire, tanto che nella lettera inviata al Croce da Campobasso il 19 Dicembre 1899, osserva puntualmente che non può esservi distinzione tra il momento logico e quello estetico poiché ambedue sono ridotti all’unico fondamento del pensare logico in quanto chi pensa è al contempo connesso con un giudizio di piacere estetico poiché questo inerisce all’individuo come quello spaventiano nel quale i “molti uni” sono sempre “uno”. L’attività dell’uno come pensare è, così, unica nel suo genere e che non si può, pertanto, dividere, tanto è che non si possono designare né distinzioni né opposizioni di cui il pensare può essere predicato, poiché gli infiniti e gli illimitati “uni”costituenti le più piccole individualità dello Spirito sono, in realtà l’Unico Spirito o l’Uno autentico universo bruniano da cui tutto puntualmente emana. 

«Voi dite – scrive il Gentile al Croce – «l’uomo avrà pensato o avrà sentito, avrà indagato il vero o si sarà commosso d’amore o di sdegno: quando apre la bocca per rappresentare il suo interno, ciò che sta innanzi non è già un’operazione logica da compiere o un fremito da subire, ma il risultato…ecc; un quid ch’egli vuole esprimere. Questo quid è perciò inqualificabile: non è logico, non è affettivo, etc». Non vi pare che tutto ciò che si esprime sia di natura intellettuale? Il sentimento (affetto) come tale è inesprimibile perché è al di sotto del pensiero, è sentito, non pensato. Ma il pensare è già esprimere. Cos’è il quid antecedente all’espressione, accennato da voi? Il fatto psicologico o pensiero o è al di sotto del pensiero, non si può dire né anche che sia innanzi al pensiero, come qualcosa che aspetti la propria espressione. Il pensiero conosce ciò che pensa».5

Dal pensare come atto che pensa sempre sé medesimo e che nel ritmo del progredire vivente, che è lo Spirito che procede di atto in atto, in quanto si fa sempre atto, non emergono più distinzioni, visto che il pensare conosce ciò che pensa e che se si potesse pur pensare al di fuori del pensare, non si potrebbe pensare diversamente da ciò che esso è, che sarebbe un secondo pensare, in completa distonia col primo che è, invece, legittimamente consapevole per individuare nella sua autentica regolarità ciò che vuole pure senza esclusione. Il perseguimento del proprio pensare si conforma, pertanto, ad una evidente intenzione di costituirsi come atto volontario che sa ciò che vuole in quanto unico centro di affermazioni irreversibili che non possono essere contraddette né sul piano dei principi né dalle inevitabili conseguenze che da questa discendono. La distinzione e la estinzione spaventiana delle Prime Categorie della Logica di Hegel risultano essere, così, non del tutto simile agli intendimenti gentiliani nei quali non sopravvivono né la prima né la seconda, né tantomeno i distinti e gli opposti crociani, o del pensare negativo hegeliano cui si controbilancia il positivo, ambedue soccombenti all’atto unico che li ingloba, invece, esaustivamente e definitivamente. Se la polemica dura a lungo col Croce, non si concentra però, sul dibattito sullo Spaventa che, in verità, il Gentile conduce da solo, avendo, così, di mira il proprio amico, divenuto nel frattempo avversario nella diatriba lunga e perniciosa, al quale invia le bozze delle proprie opere o delle recensioni sulla Critica che si qualificano per lo più come richieste di consigli sull’immenso lavoro da svolgere nella Rivista, ma anche le osservazioni e la puntualizzazione degli scritti spaventiani, che si risolvono, in generale, nell’approfondimento e nella esposizione critica degli stessi, per i quali merita l’elogio e al contempo il compiacimento di quello. Il Croce, così, trova ancora una volta – ma ciò accade spesso anche in regime costante di aperta polemica critica con l’avversario – l’amico per chiedergli delucidazioni intorno a frasi non adeguatamente comprese, ma per lo più per puntualizzare la dottrina dell’Atto puro che gli appare irricevibile, e allo stesso modo per ritornare sull’argomento al fine di indurlo a riflettere sull’errare e sulle pericolose conclusioni contenute nella loro conseguenza, come quella che riduce esemplarmente l’Atto a mera prassi egemonica del pensare unico privo delle distinzioni e delle opposizioni.

La convinzione del Croce dal punto di vista teorico, è che tale dottrina annulli la distinzione tra uso logico del pensare ed uso estetico in quanto al primo inerisce il discorso congiunto alla riflessione attraverso cui il pensare può essere sempre ripensato (la scepsi spaventiana n.d.r.) in una stretta condivisione del metodo spaventiano, mentre quello estetico è soggettivamente esplicante in quanto esalta il bello che si conforma ad un piacere generale intorno al vero e talora all’utile intesi come rilievi dello svolgimento dell’attività pratica del giudicare. La teoria degli opposti e dei distinti costituiscono, così, per il Croce la concreta capacità dello spirito di esercitare riflessivamente il giudizio che, in riferimento pure a quello Kantiano, è in grado di affermare il concetto che è anche un principio, del piacere disinteressato, coinvolgendo altri attori giudicanti, che esplicano la diversità delle opinioni palesate intorno al gusto estetico che è in grado di dichiarare bello un oggetto del piacere.6 Certo è che non sono state risolte tutte le questioni poste dal Croce e che, invece, il Gentile propone di approfondire, con una veracità di intenti ulteriormente l’indagine sulla già richiamata ed esaminata questione tra l’uso logico e quello estetico del giudicare che si qualifica altresì come vero e come buono, sfuggendo, così, alla dimensione etica, tanto da configurarsi come utile descritto, così dalle lusinghe del linguaggio nel quale viene nascosta la reale capacità di quello di palesarsi a soggetti che riflessivamente individuano la peculiare capacità morale di dichiarare realmente il buono come l’utile pratico da conseguire.

Tale distinzione operata altresì nella sfera morale, rispetto all’utile e a ogni utilità nelle circostanze bene individuate, viene risolta dal Gentile diversamente attraverso la teoria del giudicare dello spirito che è attività assoluta nella sua pratica estrinsecazione, ed in quanto suo atto peculiare, avoca a sé ogni giudizio che non può essere più né logico né estetico, né tantomeno buono e utile moralmente, se non assolutamente pratico, poiché la prassi, che si è nel frattempo sostituita alla riflessione, designa la capacità dello spirito assoluto costituitosi altresì come sua peculiare volontà unica che non può e non è più in grado di sottolineare le distinzioni e talora le opposizioni che sono sempre valide per la comprensione reale dei problemi da risolvere. Per esporre, di contro, le considerazioni e le valutazioni di fondo, nonché le contraddizioni che emergono dalla dottrina dell’atto volontario pratico dello Spirito, è necessario rileggere ciò che scrive il Croce in un’altra lettera indirizzata al Gentile datata 28 Dicembre 1899 la quale rifuggendo dai toni apologetici usati dall’amico, contiene ancora una volta l’invito a dialogare che non si palesa come semplice esortazione, ma come necessità a penetrare articolatamente nella esposizione discorsiva di ognuno di essi nella quale il linguaggio costituisce l’elemento focale né divinatorio né mistico in quanto inerisce – come è stato più volte ripetuto – alla rappresentazione del fatto narrato il quale implica opportunamente un ulteriore ripensamento in quanto ha da convincere l’uditore piuttosto che persuaderlo con argomentazioni frivole e bizzarre. Il tono convincente utilizzato dal Croce è singolare per intendere la bellezza estetica che non può essere, pertanto, vera, perché inerisce alla capacità del piacere, così come il vero non è sempre tale se non è contraddetto dall’opposto giudizio del falso, e ciò infinitamente, se si vogliono conformare alle capacità sillogistiche dei discorrenti tutti circa la parzialità o la contingente verità di quelli.

«Se io ammetto, - scrive, così il Croce – che pensiero (logico) ed espressione siano tutt’uno, non potrò più distinguere ciò che voi chiamate verità metafisica da ciò che chiamate verità psicologica. Il vero metafisico sarebbe il bello estetico. Che i due fatti si svolgano analogamente, sta bene, perché sono entrambi fatti conoscitivi. Ma l’analogia esclude assorbimento dell’uno nell’altro, e fa indurre che siano aspetti di un unico fatto che non si confonde con nessuno dei due nella loro distinzione».7

Il Croce, da come si arguisce, è sulla scia vichiana che distingue la certezza del fatto in quanto vero, dalla sua narrazione storico-fantastica che, in ogni modo considerate, consentono di distinguere all’interno dei fatti narrati storicamente la loro contemplazione estetica o anche linguistica, per mezzo delle quali questi sono presentati nella loro articolazione riflessiva. Ciò per dire che i due elementi del fare e del fatto si riconnettono per divenire uno, anche se permane sempre la possibilità di distinguerli e di opporli (di estinguerli e di distinguerli direbbe Spaventa n.d.r.) per separare congiuntamente la verità metafisica da quella estetica in quanto suscitatrice di immagini produttive. La verità della parola o delle parole produce significati infiniti, talora confusi ed inconcludenti, proprio perché l’oratore o il giurisprudente vichiano va al di là dell’orizzonte dei linguaggi ordinari nei quali, invece, individua i diversi significati contestuali che sono ubicati in una parola piuttosto che in un’altra, il cui uso accorto quindi, conferisce l’adeguato significato in virtù di una sana riflessione esposta. Vero è che il Croce è peculiarmente lontano dall’indirizzo delle scepsi memorativo-artistica lulliano-bruniana in cui la memoria, assurta ad arte del ricordo delle parole che sono state infuse da questo, ha solo il ruolo di palesarle tutte secondo il principio causale, tale che ognuna di esse significa, individuandolo, un determinato contesto discorsivo che esso è chiamato non solo a comporre ed al contempo a rievocare, ma anche ad evidenziare i limiti dell’azione inesauribile che alla stessa sembrava che non fossero stati attribuiti. Ciò sta pure ad intendere che la memoria, come arte ed esplicazione delle parole, genera il linguaggio che può mutare il significato contestuale delle stesse che assumono, pertanto, diversi significati in riferimento alle circostanze operative in cui la totalità delle medesime inerisce ad una funzione esplicativa della memoria, nella sua reale radicalità.

«L’arte della mente di Bruno – scrive lo Spaventa – deve servire non solo ad oppugnare e difendere, ma anche a formare nuove idee e cognizioni, vere e reali, ad appropriarsi delle cognizioni altrui, a comunicare le proprie, a stabilire in somma la unità nella varietà delle cognizioni umane, a svolgere così e a realizzare l’Uno nel multiplo, cioè a realizzare la scienza; la quale ha queste essenze: di essere universale e di attuarsi universalmente nella totalità delle intelligenze».8

La scienza, che è anche scienza delle parole e dei suoi eterni significati contestuali, è, sì, giustappunto la riconduzione del molteplice dell’Uno che vale, tuttavia, secondo il modello logico, ma altresì utile perché quelle non siano evanescenti nel loro significato, ovvero, e di contro, peculiarmente e manifestamente significative, nonché espressive dei relativi contesti mobili nei quali la fantasia s’impadronisce della capacità espansiva per far emergere quella dello Spirito che produce nuove conoscenze non rette dalla sola capacità logica limitata alla quale inerisce il compito di riferire il contesto operativo alla sua unità o al solo Uno. La spiegazione dello Spaventa – che anticipa così, la concezione sistematica del Gentile – risiede nella certezza universale che la Logica assume come ricostruzione del sistema la molteplicità che è ridotta all’Unità o al vecchio neoplatonico Uno per mezzo del quale esso unifica il molteplice e lo organizza senza, tuttavia, averlo compreso adeguatamente nella sua espressione, come vuole il Croce, poiché lo Spaventa inerisce alla logica a pieno titolo individuata come sistema espositivo, o meglio ancora, come unità sistematica che contempla tutte le differenze, come quelle tra il pensare ed il pensato estinto e distinto che si caratterizzano altresì come opposizione tra la estinzione e la distinzione entro il nucleo del pensare.9 Ma, per tornare al Gentile e alla sua polemica col Croce a proposito della interpretazione della filosofia come ricostruzione della sua storia, egli ritiene che essa è tale nella sua totalità e che chi vuole ricostruirla, la deve considerare come tale perché essa inerisce a tutto lo Spirito che non può essere né distinto né opposto ad altro, come alla natura, risultando, così, nella sua unità assoluta indifferenziata, oltre lo Spaventa medesimo, e, tuttavia, riconducibile alla dottrina plotiniana dell’Uno – tutto irreversibile e misticamente a ciò che nella sua completa e totale indifferenza non si può più né individuare né cogliere.

Si può dire, così, e confermare ancora, in ragione di questa nostra ulteriore ricerca, che la posizione teoretica dello Spaventa risulta essere più vicina a quella del Croce che a quella del Gentile, a cominciare dalla considerazione dell’Arte della Memoria lulliana che è, come abbiamo tentato di porre in evidenza, il luogo delle varie fasi del suo sviluppo, e, dunque, storia filosofica che diviene in relazione al suo divenire altro da sé, trasformandosi, così, da mero schema intellettuale statico nel dinamismo creativo dello Spirito attraverso le sue costanti e perenni diversità. La storia filosofica, divenuta, così, filosofia della storia, secondo il metodo della distinzione e della opposizione è ricostruita dal Croce sempre nella lettera indirizzata al Gentile del 28 Dicembre 1899, nella quale scrive testualmente, continuando il discorso precedente:

«L’uomo pensa (logicamente) sulle parole, ossia movendo dalle parole; ma per muovere dalle parole, deve abbandonarle, deve frangere l’individuale per cogliere l’universale. Nell’attimo che lo Spirito profonda il suo sguardo nella realtà e la produce e produce la verità metafisica, non parla, non si esprime; ma, come la verità metafisica nello spirito finito non può non assumere un aspetto individuale, ecco che il risultato del pensiero logico è sempre un’espressione. Si muove dall’espressione per ricadere nell’espressione, si abbandona un’espressione per raggiungere un’altra».10

L’abbandono di un’espressione per un’altra deve intendere la perpetuità di un uso accorto del linguaggio che si arricchisce di nuovi contenuti dinamici in cui lo spirito si districa nelle immagini particolari ed il pensiero diviene l’essenza logico-espressiva di queste che ricorda per certi versi l’antica cognizione della memoria platonica della quale s’intende non solo il ricordo di talune immagini, che è il semplice atto del ricordare, ma anche il loro porsi in movimento e che esse non devono più essere catalogate, ma collegate ad altre con uno sforzo dispendioso che deve renderle operative, onde rintracciare nuovi elementi che aprono al futuro, avendo presente la loro trascorsa immagine adeguatamente memorizzata.11 L’immagine della memoria da Platone a Bruno, e da questi allo Spaventa, è quella viva, non quella morta, nella quale essa si estingue, in quanto, storicamente rilevante, che considera la preparazione dello svolgimento degli avvenimenti futuri in palese riferimento a quelli che la stessa conserva con gelosia ed attenta custodia, che risultano peculiari per tali versi ad individui che preferiscono conservarle adeguatamente. La memoria vivente, pertanto, riguarda gli individui che nello sfidare il destino, vogliono realizzare le legittime aspirazioni per essere i protagonisti del suo svolgimento, per costituirsi come individui cosmico-storici, di hegeliana memoria, attraverso l’uso costante di tutte le umane e temporali facoltà espressive.

La dottrina dell’Atto puro gentiliano individua ciò che lo Spirito deve fare e che esso costituisce altresì il superamento della concezione della statica memoria che dal medesimo Spaventa è stata rilevata come fonte inesauribile del progresso, tanto è che essa non può raccogliersi assolutamente in sé, perché sarebbe in tal caso assolutamente estinta, costituendo, invece, per lo Spirito la spinta perché essa risorga dalla compostezza naturale in quanto all’atto del memorante non si frappongono più ostacoli per recuperare il passato storico e riportarlo, così, alla luce. Il dinamismo gentiliano, inteso sempre come atto volontario dello Spirito che si fa perennemente come sua potenza inevitabile è l’ultimo che si colloca in un ordine superiore, misticamente ed esauribilmente estinguibile, per affermarsi proprio come volontà di potenza che ha da vincere il mondo sottostante, inferiore per stimoli e per mancanza di disposizioni interiori comuni a molti individui in generale. La deriva gentiliana dell’atto puro, quella che, per bene intenderci deriva al filosofo di Castelvetrano proprio dallo Spaventa, non si è consumata attraverso il dialogante diadico “estinguersi-distinguersi”, follemente condotto ad estinguersi per sua consumazione, mentre al Croce rimane la capacità di riproporre in ogni circostanza la dialogica arte del distinguere e dell’opporre che sono i caratteri permanenti non solo dello “storicismo assoluto”, ma anche di ogni filosofia che si proclami idealistica nel suo genere.

Rimane, inoltre, il filtro spaventiano che passa per entrambe le scuole filosofiche, onde la loro filosofia, più che essere “arcaicamente” hegeliana, è in realtà spaventiana, di quello Spaventa – beninteso – che il Croce continua a denominare “teologo-monaco”, mentre il Gentile lo sostiene sempre a pieno ritmo, continuando a raccogliere i suoi Manoscritti, le Opere e le recensioni pubblicate sui giornali risorgimentali del tempo, ricevendo dal Croce medesimo, per le strette mani di Sebastiano Maturi, nella qualità di intermediario, gli scritti che al filosofo di Pescasseroli risultavano angusti e totalmente diversi dall’indirizzo storiografico-filosofico di cui sono, invece, dotati i suoi lavori, mentre permane, d’altra parte, l’impegno a schierarsi contro un nemico invincibile rappresentato dal dilagante Positivismo, giudicato ateo e materialista dal Gentile, ed empirista-sociologico dal Croce. Per concludere, così, questa breve conversazione, vogliamo, a riprova della tesi gentiliana sulla natura originaria dell’Atto puro, inteso nel suo valore storico, riferire ciò che egli scrive al Croce nella lettera del 29-XII-1906, a proposito della divergenza sulla storia della filosofia:

«Ora io sostengo appunto questo: che l’elemento rappresentativo e individuale nella storia della filosofia si risolve nella stessa filosofia in fieri. Tanto ce ne può entrare, per ciascun filosofo, quanto se ne risolve (come contenuto nella rispettiva forma) nel sistema del filosofo: il resto non ha valore filosofico; ma non ha neppure valore storico. Certo io posso pensare sub specie aeterni, p.e., l’aristotelismo, indipendentemente da Aristotele individuo e da tutta la sua biografia nel senso più largo dei termini [sic]. Posso, ma arbitrariamente e inesattamente; perché l’aristotelismo si pensa veramente nel suo sviluppo storico di cui la biografia di Aristotele è l’elemento essenziale, non per se stessa, ma appunto in quanto elemento presupposto, dell’aristotelismo. Come si può di fatto, essere buon filosofo e cattivo storico; (e con ciò rispondo a un’altra osservazione della vostra lettera); ma in realtà il filosofo non possiede davvero la sua filosofia, di cui ignora la storia poiché in sé, a prescindere dalla condizione soggettiva di chi attualmente la pensa, essa ha una sua realtà storica, dalla quale è indivisibile».12

Delle innumerevoli altre divergenze tra i due Autori fondamentali del neo-idealismo italiano parleremo, così, in un nostro futuro lavoro nel quale tenteremo di esporre la deriva gentiliana dell’Atto puro del quale abbiamo parlato solo in parte.

Giovanni Gentile studente al liceo classico di Trapani (1891-1893).   
Conservata presso l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana.

 

BIBLIOGRAFIA

B. Croce – G. Gentile, Carteggio (1896-1900), a cura di C. Castellani, Introduzione di G. Sasso, Torino, Aragno, vol. I, 2014.

B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Milano, Adelphi, 1999.

R. Franchini, Per la Storia dei Rapporti Croce-Gentile, in «Scritti in Onore di Nicola Petruzzellis», Facoltà di Lettere e Filosofia, Napoli, Giannini, 1981, pp. 113-129.

G. Gentile, La filosofia italiana tra idealismo e anti-idealismo, a cura di P. Di Giovanni, Atti del convegno svoltosi a Palermo nei giorni 24, 25, 26 Ottobre 2002 sul tema: Giovanni Gentile, La filosofia italiana tra idealismo e anti-idealismo, Milano, F. Angeli, VI ed., 2008.

G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, Firenze, Sansoni, 1976.

E. Kant, Critica del Giudizio, Traduzione di A. Gargiulo, Bari, Laterza, 1991.

G. Origo, Il Bruno lulliano visto da Bertrando Spaventa, in «Logos», Rivista di Filosofia, n.8, Napoli, Diogene, 2013, pp. 239 – 262.

S. Romano, Giovanni Gentile, Un Filosofo al Potere negli anni del Regime, Milano, Rizzoli, 2004.

B. Spaventa, Dal Saggio inedito di B. Spaventa su Bruno (1853 – 1854), M.S.3.6.4., Conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli “Vittorio Emanuele III", ora in «Giornale Critico della Filosofia Italiana», fondato da G. Gentile, sesta s., vol. IX, a. LXVIII (LXXX), Firenze, Le Lettere, pp. 66 – 77.

B. Spaventa, Le Prime Categorie della Logica di Hegel, in «Atti della Reale Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli», 1863, pp. 123 – 185.

B. Spaventa, Logica e Metafisica, a cura di G. Gentile, Bari, Laterza, 1911.

 

Note con rimando automatico al testo

1 Cfr. B. Spaventa, Le Prime Categorie della Logica di Hegel, in «Atti della Reale Accademia delle Scienze Morali e Politiche di Napoli», 1863. «Il Pensare, - scrive, così, egli – l’atto del Pensare non è niente, non è possibile, senza il pensato, il pensabile, l’intelligibile, senza di questo è non Pensare; non è realtà o essere pensante, quella realtà o essere pensante, quella realtà opposta alla realtà o Essere naturale – come dall’altra parte il pensato non è senza l’atto del pensare. Ma sebbene non possa essere così senza del pensato, il pensato pur si distingue dal pensato. Questa distinzione importa, che il Pensiero, ponendo sè, cioè questa se stessa distinzione, può fare l’astrazione da sé come semplicemente pensante (non dico, che possa non pensare, anzi), è pensare semplicemente il pensato, astrarlo dal pensare, considerarlo per sé stesso, senz’altro, senza il pensante, senza l’atto del pensare, cioè come semplice oggetto come semplice essere: - ed ecco, il pensabile» (cit., p. 127) – Tutto questo è il filosofare dello Spaventa che è tanto più logico quanto più metafisico, della metafisica hegeliana dell’essere che non può fare a meno di essere pensata dall’atto del pensare che estende la proiezione di sé oltre sé, non ritenendo, essa, spaventianamente di essere pensata a sufficienza, visto pure che il pensiero dell’essere non coincide assolutamente con quanto si può pensare. Di qui il pensabile dell’essere medesimo, che , tradotto in sistema aperto, in quanto organicamente costruito, s’intende estenderlo ogni oltre ulteriore pensabile e non limitarlo, invece, all’arcaica cognizione hegeliana dell’essere indeterminato assolutamente privo di qualunque determinazione particolare. Questa vuole essere la difesa dell’essere, ma più accortamente quella della storia della filosofia che il Gentile, secondo le sue benemerite dichiarazioni afferma che è stata ricondotta all’unità logica, ma che è poi, priva della sua peculiare storiografia in grado di agitare il complesso mondo storico che è quello dei viventi filosofi il cui filosofare non è per un solo attimo morto, poiché è in grado di scandagliare in ogni tempo la vita dello spirito per sollecitare le continue risposte dell’umanità. La polemica sulla concezione dell’arte e sulle sue configurazioni produttive e riproduttive è l’esempio tipico del disaccordo tra il Croce e il Gentile, il quale ultimo, nel precisare la confutazione dell’hegelismo avvenuta sul campo della revisione dottrinaria, che segue pure e per certi versi quella promossa e voluta dallo Spaventa, che scrive al primo nella lettera indirizzatagli da Palermo il 28 Gennaio 1907. «A un punto solo forse dovrei darvi subito risposta: in che io mi distinguo da un alt-hegelianer? Voi sapete che questa domanda da un pezzo mi ha alquanto imbarazzato. E né anche ora mi sento in grado di darvi una precisa risposta netta e determinata come vorrei darvela: cioè come risultato di uno studio molto preciso. Ma per dirvi soltanto quello a cui miro, e a cui mi pare tenda il mio pensiero, vi dirò che la riforma sostanziale dell’hegelismo mi pare debba consistere in una ricostruzione della logica in cui si possa risolvere tutta la filosofia (anche come filosofia della natura e dello spirito): come logica veramente trascendentale, e quindi costruttiva eterna del reale empirico. Nella natura e nello spirito, in quanto distinti dalla logica vedo quello stesso dato illusorio che Kant opponeva all’attività trascendentale dello spirito. Fuori della logica come sistema di categorie non vedo che potrà mai porsi nulla di speculativamente reale, di definitivamente assoluto. Eccovi il mio martello. Non è che una esigenza profonda del mio pensiero: ma non potrò seriamente parlare fino a quando non potrò tentare questa costruzione d’una logica veramente trascendentale. La potrò tentare mai?» (Cfr. G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, Firenze, Sansoni, vol. V, p. 29). Per una corretta e completa esposizione della biografia sul Gentile, si veda il Volume di Sergio Romano, ex Ambasciatore d’Italia a Mosca (Cfr. S. Romano, Giovanni Gentile, Un filosofo al Potere negli anni del Regime, Milano, Rizzoli, 2004) Gentile – si sa – scrive egli – è il filosofo dell’azione o della prassi elevata a norma che non distingue il pensiero dall’azione in quanto ridotta alla sola prassi che è la pratica attuativa dotata di sola volontà che deriva, tuttavia, dal pensare direttamente e che per tali versi non si distingue più da esso, annullando, così, anche la distinzione, tutta spaventiana tra il Denken (Pensare) ed il Nach-Denken (Riflessione), per costituirsi, invece solo come Denkung-Akt unico in quanto Pensare attivo decisamente e completamente contrari ed opposti all’epistemologia crociana fautrice, nonché depositaria della filosofia dei distinti e degli opposti intesi come categorie ermeneutiche della revisione critica operata dal filosofo di Pescasseroli. L’opposizione e l’intransigenza del Croce manifestata contro il Gentile, l’amico e collaboratore della Critica di un tempo, si palesa come legittima tensione ideologica attraverso cui si mostra la loro distanza per la quale non si potrà più prefigurare una riappacificazione che avrebbe potuto consentire anche un incontro bonario per dipanare la vertenza ideologico-culturale. In una pagina memorabile della “Storia d’Europa” il Croce, pur non citando direttamente il Gentile, sferra, un attacco violento contro di lui, anche se il contesto preso, per così dire, a prestito, inerisce alla conseguenze nefaste prodotte dalla fine del primo conflitto mondiale dal quale emergono i rilievi del nascente nazionalismo esasperato la cui pratica politico-ideologica in Italia è sicuramente l’attivismo filosofico inteso come prassi vivificante del neo-idealismo italiano. «L’attivismo – scrive il Croce – nell’Epilogo alla “Storia d’Europa” – imperversa largamente: ma dov’è in esso la serenità dell’animo, la fiducia, la gioia del vivere? La tristezza è impressa sulla fronte di quegli uomini, dei più degni tra loro, perché, dove neppur quella si vede, c’è di peggio, c’è rozzezza e stupidità. E forse gli eccessi medesimi ai quali l’attivismo si lascia andare, la passione in cui si batte, gli scotimenti che minaccia, danno segno di una non lontana guarigione della febbre in cui l’Europa e il mondo sono stati e sono ammalati; febbre e non ideale, se pur non si voglia sublimare a ideale la febbre» (Cfr. B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, a cura di G. Galasso, Milano Adelphi, Epilogo, p. 431.)

2Cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, trad. di E. De Negri, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, pref, p.13. «La considerazione della determinatezza qual si voglia esserci – scrive egli – come si dà nell’Assoluto, si riduce al dichiarare che se ne è bensì parlato, come di un alcunché; ma che peraltro nell’ Assoluto, nello A = A, non ci sono certe possibilità, perché il tutto è uno. Contrapporre alla conoscenza distinta e compiuta, o alla conoscenza che sta cercando ed esigendo il proprio compimento, questa razza di papere, che cioè nell’Assoluto tutto è eguale - oppure gabellare un suo Assoluto per la notte nella quale, come si suol dire, tutte le vacche sono nere, tutto ciò è l’ingenuità di una conoscenza fatua» Ibid.

3 Cfr. B. Spaventa, cit., p. 125 «In questa opposizione, - scrive, infatti, egli, proseguendo – Pensare ed Essere sono due realtà, due mediati. Essa vuol dire realtà opposta a realtà, realtà naturale a realtà cosciente; e non già; Pensare opposto ad Essere, come se il Pensare non fosse Essere e solo l’Essere fosse Essere, come se il Pensare non fosse, e solo l’Essere fosse; come se il Pensare non fosse realtà, e solo l’Essere fosse realtà, o come si dice, di niente ed essere. Questa opposizione significa dunque solo: una determinazione della realtà (dell’Essere), opposta a un’altra determinazione della realtà (dell’Essere): una determinazione opposta a un’altra determinazione» (cit., p. 126)

4 Cfr. B. Croce, Tesi Fondamentali di un Estetica come scienza dell’Espressione e linguistica Generale, rist. anastatica dell’edizione del 1900, a cura di F. Audisio, Napoli, Bibliopolis, 2002, p. 35.

5 G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, cit., vol. III, pp. 222–223. «E pensare è già esprimere – continua – ripeto. E se è così, la dualità psicologica di fatti affettivi e fatti intellettuali non regge come criterio di distinzione letteraria, non già perché la dualità psicologica non sia il precedente del fatto letterario, dell’espressione, ma perché essa dall’espressione viene risoluta nell’unità del fatto intellettivo» (p. 223)

6 Cfr. E. Kant, Critica del Giudizio, trad. di A. Gargiulo, Bari, Laterza, 1991. Parlando dell’universalità del piacere in un giudizio estetico quando esso è rappresentato come elemento della soggettività, il Nostro osserva: «Questa particolare determinazione dell’universalità di un giudizio estetico, che si rinviene in un giudizio di gusto, è un fatto degno di nota non veramente per il logico, bensì per il filosofo trascendentale, che spende non poca fatica per scoprire la sua origine, ma con essa viene a scoprire una proprietà della nostra facoltà di conoscere che, senza questa ricerca, sarebbe rimasta ignota. In primo luogo, bisogna convincersi pienamente di questo col giudizio di gusto (sul bello) si prende da ognuno il piacere riguardo ad un oggetto, senza fondersi però su qualche concetto (perché allora si tratterebbe del buono); e questa esigenza dell’universalità appartiene così essenzialmente ad un giudizio col quale si dichiara bella qualche cosa, che, senza di essa, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di usare tale espressione, ma tutto ciò che piace senza concetto sarebbe stato riportato al piacevole, nel quale si lascia ad ognuno il proprio parere e nessuno esige dagli altri il consenso al proprio giudizio di gusto; ciò che nel giudizio di gusto sulla bellezza avviene in ogni caso» Ibid.

7 B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, a cura di A. Croce, intr. di G. Sasso, Milano, Mondadori, 1986, p. 71.

8 B. Spaventa, Dal Saggio Inedito di B. Spaventa su Bruno (1853 – 1854), trascritto dal M.S.3.6.4, conservato presso la Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli, ora in «Giornale Critico della Filosofia Italiana» fondato da G. Gentile, VI s., vol. IX, a. LXVIII (LXXX) Firenze, Le Lettere, p. 70. «Quindi – scrive ancora egli – la memoria per Bruno è come un compendio dell’Universo, un Tesoro, il quale bisogna conservare, ingrandire ed esplicare nel sistema della scienza; è la vivente depositaria della tradizione e della storia eterna del mondo ideale, la cui regina, anzi creatrice è la scienza stessa; essa è la custode del tempio dell’immortalità, la Dea che gli antichi chiamavano Mnemosine, madre delle muse. Essa deve non solo appropriarsi i fatti ordinari della storia etc, ma la storia eterna del mondo e della umanità, non tanto ciò apparisce, ma ciò che è, ciò che è stato, sotto la forma di una cosa eterna. Deve conservare riproducendo l’universo catenam auream quae a coelo fingitur ad terram neque tensa» Ibid.

9 Cfr. B. Spaventa, Logica e Metafisica, a cura di G. Gentile, Bari, Laterza, 1911, p. 146. Scrive, infatti, così egli «Quando dunque, si dice: «conoscere, intendere è pensare il pensiero, pensiero del pensiero; il pensiero non intende, non pensa che sé stesso», non si deve intendere che l’essere, la realtà, sia insieme essere e pensiero, una semplice somma di due opposti e che sia pensato solo il pensiero nell’essere e l’essere che è nell’essere non sia pensato punto, sia sopra il pensiero, cioè assolutamente sovrintelligibile. Questo pensare sarebbe vuoto pensare: l’essere, come essere, sarebbe fuori dal pensiero sempre. Pensare, intendere, conoscere è pensare il pensiero, non altro che il pensiero – vuol dire, invece, che l’essere è in sé pensiero, e perciò pensare l’essere è pensare il pensiero» (La Coscienza percettiva, cap. II, cit., p. 45)

10 B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 71. «Ma il pensiero logico è al di là dell’espressione; continua egli – è in quel profondersi del reale, nello sciogliere l’individuale. Se il pensiero logico diventa espressione, lo diventa non in quanto logico (una forma esclude l’altra), ma in quanto oltre ad essere logico, è un fatto psicologico: oltre ad essere una forma, è una materia che lo spirito estetico elabora. Dico meglio: la forma logica deve dar luogo ad un fatto psicologico (esser pentita) perché sorga il fatto estetico. Ecco i concetti dai quali io non so uscire; e ho cercato di indicarveli in tutta la loro solidità. Se mi aiutate a romperli, uscirò volentieri a riveder le stelle. Ma vi prego di badare che il mio problema è di trovare la distinzione tra la forma logica e forma estetica, non tra forma estetica e contenuto» (ibid.)

11 Cfr. G. Origo, Il Bruno lulliano visto da Bertrando Spaventa, in «Logos», Rivista di filosofia, n. 8, Napoli, Diogene, 2013, p. 258 «Infatti, - scrive lo Spaventa, del quale abbiamo tentato di commentare la concezione dell’arte lulliana in Bruno - Bruno ammetteva nell’essere un’arte, un movimento dialettico: lo stesso ammetteva nel pensiero: dichiarava identici questi due movimenti. Non è questa la negazione del formalismo? Non era un dichiarare la possibilità della scienza assoluta , della conoscenza di Dio e della natura delle cose? Ma poi che faceva Bruno? Adoperava alla logica ordinaria il semplice ragionamento, negava la possibilità di conoscere Dio, rappresentava sensibilmente e con figure e sensi matematici, cioè con determinazioni morte e schematiche le proprietà viventi dell’essere» (Cfr. B. Spaventa, M.S.3.6.4., cit.).

12 G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, Vol. II, cit., pp. 348–349.