Fortuna e virtù nell’età della formazione dello stato moderno

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Lo stile e l’arte del segretario fiorentino

Sin dalla metà del Quattrocento, dopo il declino della città-stato italiana, l’attenzione degli studiosi si polarizza sul principe (“ruler”, governante, o, più genericamente, “leader”, dice Tim Parks rivolgendosi agli inglesi).

Le riflessioni di Bartolomeo Sacchi detto il Platina (1421- 1481), di Francesco Patrizi (1413 – 1492) - da non confondersi con l’omonimo filosofo del secolo successivo - e di Giovanni Pontano (1429 – 1503) preparano la fondazione della scienza politica che avverrà a opera di Niccolò Machiavelli (1469 – 1527); una scienza in cui si intrecciano volontà soggettiva e determinazione oggettiva e che sfuma spesso in una psicologia dell’agire politico: “La prima condizione per governare l’uomo – dice Machiavelli – è quella di capire l’uomo”. Si può perciò ragionevolmente affermare che il realismo di Machiavelli, anche se appare spesso duro e amaro, non si tinge mai di livido cinismo. Vengono in mente le famose parole di Spinoza (1632 – 1677): “Res humanas nec lugere nec ridere, nec detestari, sed intelligere”. Un realismo, comunque, tutt’affatto particolare, come si capisce dalla chiusura della lettera (siamo alla fine del giugno 1527) con la quale il figlio Pietro annunciava a Francesco Nelli, professore in Pisa, la morte del padre, uomo semplice: “[…] ci ha lasciato in somma povertà come sapete”.

 

Il Principe

Il Principe, com’è noto, è un trattato scritto da Machiavelli nel 1513 (cinque anni dopo l’uccisione del duca Valentino, ossia di Cesare Borgia) durante il confino all’Albergaccio (a Sant'Andrea in Percussina presso San Casciano in Val di Pesa) e probabilmente completato in epoca successiva:. Costituita da 26 capitoli, in prosa, di diversa complessità (l’ultimo dei quali consiste in un’Esortazione) dai titoli in latino, preceduti da una Dedica, l’opera, che gli diede l’immortalità, è breve e concisa, benché lo spartito prodotto nel tempo sconti nel complesso un che di disorganico.

Con la sua stesura, l’Autore cercò probabilmente di riconquistare la fiducia dei Medici, condizione necessaria per poter riprendere l’attività politica: egli intendeva dedicare il trattato a Giuliano, figlio di Lorenzo il Magnifico; in seguito alla morte di questi, avvenuta nel 1516, l’opera venne invece dedicata al nipote e nuovo signore di Firenze, Lorenzo II de’ Medici duca di Urbino (il quale, narrano i cronisti dell’epoca, gradì di più la coppia dei cani che Machiavelli, nell’occasione, gli donò che lo stesso trattato).

Proprio nella dedica c’è vi è un passaggio che pare debba essere messo subito in evidenza.

La quale opera io non ho ornata né ripiena di clausole ample, o di parole ampullose e magnifiche, o di qualunque altro lenocinio o ornamento estrinseco, con li quali molti sogliono le loro cose descrivere et ornare; perché io ho voluto, o che veruna cosa la onori, o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata (…)”. Non viene forse in mente “Ornamento e delitto” di Adolf Loos? Ancora: come non ricordare i monocromi bianchi di Franco Cannilla, Fontana, Calderara e altri? Un accostamento, questo, che ci piace sottolineare, tra un autore del primo Cinquecento che rifiuta ogni evasione dal reale ed esponenti della terrarum ultima Thule dell’astrattismo contemporaneo (stile limpido e pensiero, il “cogito”, moderno): per Verdiglione Machiavelli è un “dipintore con le parole” (cfr. C. Sini, “La politica dell’esperienza”, armandoverdiglione.com). Comunque sia, certo è che la lettura del Machiavelli - non solo delle commedie - fa parte dell’educazione linguistica di tanti scrittori contemporanei, proprio grazie al connotato dell’essenzialità, dell’aderenza immediata al mondo rappresentato; limpido omaggio al dono di Cadmo (le lettere dell’alfabeto). (Ricordiamo qui il successivo “Dialogo intorno alla nostra lingua”, nel quale è sostenuta la tesi della fiorentinità della lingua.)

E se Il Principe appare “opera non finita” (come osserva Mario Martelli ne La storia della letteratura italiana diretta da E. Malato per i caratteri de Il Sole 24 Ore, 7, vol IV, parte I, p.285) è urgente osservare che il non-finito è una modalità esecutiva piuttosto frequente nell'arte moderna, da Medardo Rosso al citato Lucio Fontana e oltre. Disse una volta Mario Soldati: “L’artista vero pensa soltanto a ciò che scrive, a ciò che dipinge, a ciò che filma, ma senza riuscire – se è un artista vero – a non avere uno stile”; uno stile maturato nello studio e nell’esperienza.

La famosa lettera di Machiavelli a Vettori del 10 dicembre 1513, in cui si preannuncia la stesura dell’opera col titolo latino De Principatibus, permette di comprendere una delle due fondamentali fonti di ispirazione del Principe. Innanzitutto, gli insegnamenti provenienti dalla lettura dei classici e, come viene chiarito nell’opera, è l’esperienza della verità effettuale, ovvero delle cose così come sono e non come desidereremmo che fossero.

L’autore, all’interno di una sofferta visione della storia, mira a mettere a fuoco il problema fondamentale illustrato nell’Esortazione conclusiva. Egli si propone, cioè, di indicare le vie per un’azione politica vincente.

La materia è divisa in sezioni. I capitoli I – XI esaminano il principato (nei suoi vari tipi) e mirano a individuare i mezzi per conquistarlo e mantenerlo, dandogli la necessaria stabilità.

I capitoli XII – XIV affrontano il tema delle milizie. Machiavelli censura l’utilizzo degli eserciti mercenari, abituale nell’Italia del tempo: essi, combattendo soltanto per avidità di guadagno, non sono affidabili e perciò costituiscono una delle cause principali della debolezza degli Stati italiani; la forza di uno Stato consiste infatti, soprattutto, nel poter contare su armi proprie, su un esercito composto da cittadini che combattano per difendere i loro averi e la loro stessa vita.

I capitoli XV – XXIII trattano del comportamento del principe nei confronti dei sudditi e degli amici e degli errori nei quali egli potrebbe cadere (per esempio, ascoltando gli adulatori). In questa parte, Machiavelli non elenca le virtù morali di un principe e considera, con il suo stile “tutto pepe e midollo” (I. Montanelli), la “verità effettuale” piuttosto che la “immaginazione” di essa: poiché gli uomini sono malvagi, avidi, violenti, il principe, che è costretto ad agire tra loro, non può seguire in tutto le leggi della morale. Sono questi i capitoli in cui si dipana la parte centrale dell’opera e che hanno offerto i più cospicui argomenti alle esecrazioni e agli anatemi secolari contro Machiavelli. Circa cent’anni dopo, per esempio, con il suo libro scritto in volgare L’ateismo trionfato, Tommaso Campanella, come aveva scritto in una lettera di qualche anno prima, intese dar corpo a “un volume contra politici e machiavellisti, che son la peste di questo secolo”. Nella sua Breve storia della letteratura italiana - siamo negli anni Venti e Trenta del Novecento - Eugenio Donadoni spiegava agli studenti dell’Italia fascista che questa separazione della politica dalla morale è l’aspetto “più odioso” del Machiavelli maggiore (rilievo che non urtava certo con l’ipocrisia della censura di regime). Se poi si vuole arrivare sin quasi ai giorni nostri, giova ricordare il volume postumo dei discorsi di Giorgio La Pira, intitolato Il sentiero d’Isaia; discorsi nei quali - spes contra spem - il famoso uomo politico, seguendo ciò che gl’ispirava lo spirito e il cuore, sostiene una diversa arte politica, armata solo di negoziato e fondata, se possibile, sull’amore, cosicché le opere dell’ ”insinuante Machiavelli” risultavano “gettate a far muffa in cantina” (P. Maffeo, Giorgio La Pira, Bologna: Edizioni Dehoniane, 1986, p.190): ma in cantina sono finite poi, purtroppo, le illusioni lapiriane e, fortunatamente, anche l’idea di un Machiavelli malvagio (in effetti, come ci ha ben spiegato Verdiglione, Machiavelli era non quel Genio del Male che la Chiesa di Roma a lungo ci assicurò che fosse, mettendo all’indice le sue opere, ma un lucido realista che non poteva credere al mito della naturale bontà umana). Si vedano, a tal proposito, altre righe della citata biografia maffeiana, laddove viene riportata un’intervista pubblicata sul Corriere della Sera! (Domanda Enzo Biagi: “Si può fare della politica nel rispetto della morale?”. Risponde La Pira: “Si deve. La legge è una per tutti. San Tommaso ha sull’argomento delle pagine splendide”.) Di qui, un interrogativo: l’accostamento etica e politica “suona lievemente ossimorico” come quello tra etica e letteratura? (G. Antonelli, “La leggerezza etica è pura etichetta”, Il Sole-24 Ore, Domenica, 16 maggio 2010). Proveremo a rispondere nelle conclusioni.

Ma si ritorni al Principe.

Il capitolo XXIV considera le cause della perdita dei loro Stati subita da alcuni prìncipi nella crisi successiva al 1494 (il crollo della libertà italiana: la “passata del re Carlo” inaugurò l’epoca del predominio straniero, che sarebbe terminata soltanto nel 1861 con la proclamazione del Regno d’Italia).

La causa, per lo Scrittore, è essenzialmente la loro inettitudine: quei prìncipi “ne’ tempi queti” non hanno pensato alla tempesta che si avvicinava e perciò non hanno saputo difendersi Si giunge così agli ultimi due capitoli.

Nel XXV, riprendendo un problema filosofico caro a tutta la cultura umanistico-rinascimentale, Machiavelli analizza, con riferimento all’opera del Principe, il conflitto tra virtù e fortuna (su cui v. infra)

L’ultimo capitolo è un commosso appello a un principe nuovo che, avvalendosi dell’esperienza del Valentino, sappia mettersi a capo del popolo italiano e liberare l’Italia dai barbari. (Detto fra parentesi, Machiavelli giudicava la Chiesa l’unica colpevole del frazionamento politico della penisola: v. Discorsi, I, 12, 2).

 

La fortuna e le virtù

Per Machiavelli, lo Stato è una necessità storica, la cui costruzione può essere avviata soltanto se ci sono le “circostanze” e se c’è l’“artefice”: nel linguaggio machiavelliano la prima variabile è denominata “fortuna”, la seconda prende il nome di “principe virtuoso”. (Egli riterrà comunque che la moltitudine sia ”piú savia e piú costante di un principe” -Discorsi, I, 58 – anche quando riceve da questi la volontà ordinatrice, essenziale per la fondazione della città; il che, ma non è l’unica incongruenza del Machiavelli, non gl’impedisce di considerare qui l’ignoranza e l’immaturità civile del volgo). 

Per meglio comprendere la prima delle due categorie - la variabile delle circostanze -, calandola nella storia del pensiero politico e della letteratura del tempo, si possono fare alcuni cenni a due commedie: Mandragola (1518) di Machiavelli e Il Candelajo (1576) di Giordano Bruno (Accademico di nulla Accademia). Ha scritto Nuccio Ordine: “Le considerazioni sulla Fortuna” contenute in queste opere “non potrebbero essere afferrate nella loro profondità senza leggere in parallelo il capitolo XXV del Principe per la Mandragola e l’orazione della dea bendata nello Spaccio per Il Candelaio. Entrambi gli autori sanno che i torti della sorte, accusata di aver favorito due mariti imbecilli (Nicia e Bonifacio), possono essere riparati con l’uso della virtù, dell’azione, della fatica. Così Callimaco potrà far innamorare la bella Lucrezia fiorentina (nella Mandragola: n.d.a.) e Gioan Bernardo la splendida Carubina napoletana (ne Il Candelajo: n.d.a.)”. (Come non ricordare qui che, per Machiavelli, la fortuna è donna!)

Nello Spaccio, la bestia che deve essere spacciata, cioè scacciata, dal mondo è costituita dai vizi più gravi, che rendono l’uomo simile ai bruti: l’ozio e la rassegnazione. L’Ocio dovrà far posto alla Sollecitudine, che viene esaltata da Giove: i suoi due volti, l’intelletto e le mani, sono gli strumenti grazie ai quali l’uomo (homo faber) può affiancare Dio nella sua opera di trasformazione della natura (“And all knowledge is vain save when there is work” ha insegnato Gibran Kahlil Gibran: Bisharri 1883 – New York 1931).

Oggi noi sappiamo che le capacità naturali hanno avuto un ruolo decisivo nello sviluppo dell’intelletto umano, grazie a un reciproco scambio tra mani e cervello. Per dirla con Christian de Duve, Nobel per la medicina nel 1974, “gli ingegneri sono venuti prima dei filosofi”.

Che cos’è, dunque, la fortuna per Machiavelli? E’ “l’insieme degli eventi non prevedibili o determinabili dalla volontà” (D. Romano). Anche per il principe è possibile contrastare la fortuna, che condiziona al 50 per cento la sua libertà d’azione ( “…iudico potere esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi” Il Principe, capitolo XXV), se saprà sempre tener conto di questa pesante ipoteca e costruire, a tempo debito, argini adeguati contro le forze contrarie e violente come un fiume rovinoso ( “La Fortuna col becco di rasoio”, dice oggi il Nobel Seamus Heaney). Ciò è possibile in quanto non si tratta né di una divinità né di una volontà trascendente, bensì di un automatismo casuale, che deriva dalla complessa dinamica delle forze della natura. Questo pensiero è il frutto di una concezione laica e immanentistica, che mette tra parentesi la presenza nel mondo della Provvidenza, intesa come disegno divino indirizzato consapevolmente a un fine, e porta in primo piano il combinarsi delle forze puramente casuali e accidentali. Anche secondo Bruno la fortuna non ha alla base una volontà misteriosa, ma, a suo parere, ciò che influisce sulla fortuna è la sollecitudine: “la fortuna esercita una scelta necessitata, giacché pochi sono necessariamente quelli che comandano, tuttavia se tale scelta è necessaria in quanto a sé, essa è (per quel che riguarda le persone) condizionata dalla loro sollecitudine. Il valore della sollecitudine è un precedente e non un conseguente rispetto alla scelta in quanto personale. La sollecitudine può influire sulla scelta (…)” (N. Badaloni).

Riguardo al “principe virtuoso” è opportuno un riferimento a Educazione del principe cristiano, un’opera di Erasmo da Rotterdam composta nei medesimi anni in cui Machiavelli scrive Il Principe “che ne è l’antitesi” (N. Bobbio); Erasmo, infatti, sintetizza così le virtù del sovrano, posto a guardia della pace universale: magnanimità, temperanza, onestà. E ne indica i vizi che non dovrebbe avere: “Se vorrai entrare in gara con altri principi, non ritenere di averli vinti perché hai tolto loro parte del loro dominio. Li vincerai veramente se sarai meno corrotto di loro, meno avaro, arrogante, iracondo, precipitoso”.

Machiavelli, nel capitolo XVIII del Principe, scrive, al contrario: “Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre saranno iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati (…)”. In questa “sentenza” si è voluto vedere il nocciolo del c.d. “machiavellismo”, che, però, con Machiavelli ha ben poco a che vedere se lo traduciamo nel noto aforisma, creato dalla coscienza popolare, “il fine giustifica i mezzi”. Questo Machiavelli non lo ha mai detto ed è del resto una fuorviante banalizzazione del suo pensiero. Infatti, se il fine giustificasse i mezzi, il primo renderebbe “giusti” i secondi, ma il Machiavelli non considera i mezzi sul piano morale, bensì su quello dell’efficacia.

Funzionale all’azione politica, la quale, come detto, si traduce nella creazione e conservazione dello Stato, è la virtù, che non ha alcuna connotazione etico-religiosa; si parla perciò di virtù politica (“positive qualities” o “strength of character”, secondo il già citato Tim Parks), che il principe deve esercitare cercando di apparire però dotato di tutte le virtù morali agli occhi del volgo, che bada alle apparenze più che alla sostanza. Scrive l’Autore nel capitolo XVIII: “Ma è necessario questa natura saperla ben colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare”. Per Machiavelli, dunque, la virtù è ciò che rientra nell’agire umano libero e consapevole, nella previdente intuizione delle possibilità che si aprono all’azione. Riguardo, in particolare, alla virtù politica del principe, la magnanimità e la temperanza di cui parla Erasmo non sono viste da Machiavelli come virtù in se stesse: esse vanno infatti praticate soltanto se servono a conservare lo Stato, perché l’arte di conservare lo Stato coincide con la virtù politica del principe.

Il patrimonio politico del principe deve consistere in doti intellettuali e doti fisiche: gusto del potere e senso dello Stato, conoscenza delle regole generali della natura e della storia dell’uomo, determinazione nell’applicarle con audacia e prudenza; violenza e astuzia, crudeltà e clemenza; forza fisica e allenamento alla guerra. Grande importanza ha poi l’elasticità mentale del principe, la cui coerenza consiste nel “riscontrarsi” con i tempi, cioè nel saper adattare il suo comportamento al mutamento delle condizioni, che egli stesso, per primo, ha contribuito a trasformare (cosa che, purtroppo, annota pessimisticamente Machiavelli, quasi mai gli uomini sanno fare). Quasi due secoli dopo, il polemista inglese Jonathan Swift (i cui scritti sono stati recentemente pubblicati nella Bur Rizzoli) sosterrà che “il diritto di inventare e diffondere menzogne politiche spetta in parte anche al popolo”. Se la democrazia si riduce alla possibilità di far cadere i governi senza ricorrere alla guerra civile, anche la bugia diventa uno strumento di lotta politica, considerato perfino come un diritto.

Diversa dalla virtù del sovrano è, infine, la virtù civile, autentica opera d’arte dell’uomo di Stato, poiché le collettività umane sono esposte al male dell’individualismo, della faziosità, dell’ambizione. Secondo Machiavelli, il paganesimo ha assolto un’alta funzione civile nel mondo greco-romano, il Cristianesimo, invece, in quanto ridotto a una religione fiacca e conformista, non contribuisce certo a irrobustire la vita collettiva con le virtù civili. Eppure, il nostro Autore, in un passo dell’Arte della guerra, si domanda: “Come possono coloro che dispregiano Iddio riverire gli uomini?”. Ciò si collega con quanto Machiavelli stesso dice nel cap. VI del Principe riguardo al Savonarola: se questi non fosse stato disarmato e fosse riuscito a radicare in Firenze gli “ordini nuovi” che aveva creato, la religione cattolica avrebbe potuto svolgere la stessa funzione, diremmo oggi, di coesione sociale assolta in Roma dall’antica religione pagana.

In questa breve ricognizione, che ha come oggetto specifico Il Principe, del quale si sono commentati soprattutto i temi della fortuna e della virtù, vengono accennate due commedie: una dello stesso Machiavelli (Mandragola) e l’altra del vulcanico Bruno Nolano (Il Candelajo). Ad avviso di chi scrive, pare che questi riferimenti contribuiscano a rendere più vivo il rapporto con il dato storico, perché le opere letterarie, poesie comprese, ci parlano del cuore degli eventi e del vissuto dei fatti storici in modo non meno efficace di quanto facciano le opere scientifiche di carattere storico o filosofico.

Afferma il Segretario fiorentino: “Sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi l’intende, mi è parso più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa, che all’immaginazione di essa (…)”.

Così, trovandosi davanti a un volgo ignorante, egli tenta di insegnare al principe come adattarsi alla mancanza del “cittadino”, cioè del soggetto consapevole, oltre che dei suoi diritti, dei suoi doveri, che costituisce – insegnava, se ricordiamo bene, Indro Montanelli - la materia prima per il funzionamento del sistema politico, qualunque esso sia. Ci presenta quindi un principe che è piuttosto lontano dall’idea del politico giudicato “onesto” in quanto serio, impegnato, discreto, alieno dalla demagogia e dalla teatralità. Eppure, senza sottovalutare l’importanza dell’onestà nell’agire politico (ma la dirittura morale non basta a fare il buon governante), dobbiamo riconoscere che ancor oggi serve una laica sintesi di idealità e di forza (e che definire Il Principe “un manuale per gangster”, come fece Bertrand Russel, non aiuta certo a capire le cose, ma confonde piuttosto l’uomo con i tempi, l’autore con chi ne ha manomesso le teorie). Abbiamo infatti bisogno non solo di corretti amministratori, ma forse soprattutto di uomini colti e di buona volontà (magari “per qualche intervento divino” – siamo al Platone della VII lettera – se non proprio votati alla filosofia, capaci di leggere dove altri hanno la vista appannata), espressione di una collettività che abbia ritrovato forza nelle proprie radici, nella propria tradizione e fede nel futuro; e per la quale sia inaccettabile una politica sfilacciata - come cascame del machiavellismo - nella vuota concorrenza di interessi, ove tutto si compera perché tutto si vende. Un sostegno al divisato bisogno è perentorio: per Spinoza, grande lettore di Machiavelli, la saggezza dei reggitori dello Stato rende la società meno esposta alle alternative della fortuna. Affiora, quindi, l’insegnamento weberiano: gli individui (e, in particolare, i governanti) sono messi di fronte a due etiche: quella della convinzione, che li induce a tener conto soltanto dei principi, e quella della responsabilità, che li spinge ad agire pensando non a un’astratta purezza, ma alle conseguenze dei loro atti.

E’ certamente arduo definire il quadro delle certezze valoriali della nostra identità collettiva, la quale non potrà, ad ogni modo, sottrarsi al rispetto di alcuni princìpi del “senso comune” accettati da tutti (e riassumibili nei “diritti inviolabili dell’uomo”: art. 2 Cost.). Una società che abbia individuato i propri valori fondamentali e le proprie regole, potrà anche, probabilmente, dirsi pronta ad accogliere culture diverse, le quali paiono chiamate ad integrarsi secondo il principio dei diritti e dei doveri. Eccoci di nuovo al tema del Principe: l’attuabilità del rinnovamento politico, in cui la società attuale sembra inevitabilmente chiamata a credere con fermezza.

 

 

Nota bibliografica

Del Principe si leggano l’edizione commentata con introduzione di Delio Cantimori, Milano, Garzanti, 1976 oppure quella curata da Giorgio Inglese, Torino, Einaudi, 1995. Vedasi altresì Il Principe di Niccolò Machiavelli. Annotato da Napoleone Buonaparte (in realtà, il famoso abate Guillon – pseudo Napoleone -), per i tipi di S. Berlusconi ed., Milano, 1992. Notevole l’edizione nazionale delle opere di Machiavelli, cominciata nel 2002 dall’editore Salerno ( Il Principe è uscito nel 2006). Vedasi altresì N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 2000.

Sul Principe e, in generale, sul suo Autore, la bibliografia è sterminata (a partire almeno dall’autorevole monografia, èdita a Firenze tra il 1877 e il 1881, di Pasquale Villari); al lettore comune gioverà compulsare:

  • I. Montanelli – R. Gervaso, “Niccolò Machiavelli”, in L’Italia della Controriforma (1492 – 1600), Milano, Rizzoli, 1975, p.355 ss. (per gustare un rapido ritratto del personaggio e del suo tempo);

  • G. Procacci, “Niccolò Machiavelli”, in Storia delle Idee Politiche Economiche Sociali, dir. da L. Firpo, III, Torino: UTET, 1987, p. 253 ss.;

  • G. Barberi Squarotti e Altri, Dall’Umanesimo alla Controriforma, Bergamo: Atlas, 2002, p. 94 ss..

  • D. Romano, “Machiavelli e la fondazione della scienza politica”, in Filosofìa, donatoromano.it;

  • A. Guetta, Invito alla lettura di Machiavelli, Milano: Mursia,1991;

  • A. Verdiglione, Niccolò Machiavelli, Spirali: Milano, 1994;

  • F. Focher, Libertà e teoria dell’ordine politico. Machiavelli, Guicciardini e altri studi, Milano: Franco Angeli, 2000.

  • L. Villari, Niccolò Machiavelli, Milano: Piemme, 2003;

  • M. Martelli e Francesco Bausi, “Politica e letteratura: Machiavelli e Guicciardini”, in Storia della letteratura Italiana. Il Primo Cinquecento. L’apogeo del Rinascimento dir. da E. Malato, 7, IV, I, Milano, Il Sole 24 Ore, 2005, p.251 ss.;

  • G. Inglese, Per Machiavelli. L'arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma, Carocci, 2006.

 

Su Il Candelajo di Giordano Bruno:

  • N. Badaloni “Giordano Bruno e Tommaso Campanella” in Storia della letteratura italiana dir. da E. Cecchi e N. Sapegno, V, Il Seicento, Milano: Garzanti, 1967, p.101.

Su Lo Spaccio della bestia trionfante dello stesso Giordano Bruno:

L’articolo di Tim Parks, cui si fa riferimento nel testo, è il seguente: “E il «principe» diventa leader. Parks aggiorna Machiavelli”, Corriere della Sera, 27 giugno 2009 (R. Polese, “Tim Parks aggiorna Machiavelli. E ‘principe’ si traduce con ‘leader’”, Ibid.). Nello stesso paragrafo è riportata una frase dei Gibran Kahlil Gibran “E ogni sapienza è vana senza agire”: Il profeta, Parma, Ugo Guanda Editore, 1980, p.40 s.

Sulla decadenza che avremmo evitato se l’astuto Cesare Borgia avesse costituito in Italia uno Stato nazionale, v. G. Galasso, “Se il Valentino fosse riuscito a unificare l’Italia nel ‘500”, Corriere della Sera, 15 luglio 2004;

Nel testo, si fa riferimento al dono di Cadmo: il poeta racconta che questi, vagando alla ricerca della sorella Europa rapita da Zeus, “sparpagliò sulla terra greca (…) un piccolo e impalpabile dono: le lettere dell’alfabeto …” (v. S. Bartolini, “Per una identità culturale europea”, in Nuova Antologia, fasc. 2201, gennaio-marzo 1997, p.168).

Per i monocromi bianchi di Cannilla, Fontana e Calderara, v. G. Di Genova, Storia dell’arte italiana del ‘900. Generazione anni dieci, Bologna, Bora, p.403.

La frase di Mario Soldati sullo stile è tratta da L. Luisi, Lo scrittore e l’uomo, poeti e narratori allo specchio (prefazione di C. Marabini), Modena, Mucchi, 2000, p.38. Sul concetto di “stile”, v. L. Grassi - M. Pepe, Dizionario di Arte, Torino, UTET, 1995, p.818 ss.

La citazione di N. Ordine, riportata tra virgolette nel testo è tratta dall’articolo “L’arte del comico ha un Maestro: Niccolò Machiavelli”, Corriere della Sera, 22 gennaio 2007.

L’espressione “la Fortuna col becco di rasoio” è tratta da una poesia di Seamus Heaney: “Tutto può accadere”, in District and Circle, Milano, Mondadori, 2009 (traduzione di Luca Guerneri).

Ricordiamo poi: Tommaso Campanella, L’ateismo trionfato overo riconoscimento filosofico della religione universale contra l’antichristianesmo macchiavellesco, a cura di Germana Ernst, vol. I, Edizione del testo inedito, vol. II, Riproduzione anastatica del Ms. Barb. Lat. 4458 della Biblioteca Apostolica Vaticana, Pisa, Edizioni della Normale, 2004. (La lettera di Tommaso Campanella citata nel testo fu indirizzata, il 30 agosto 1606, al cardinale Odoardo Farnese: v. A. Torno, “Campanella inedito contro Machiavelli”, Corriere della Sera, 3 luglio 2004).

Infine: J. Swift, L’arte della menzogna politica e altri scritti, Milano: Bur Rizzoli, 2010 (cfr. G. Ferrara, “Swift, l’ultrà del relativismo che elogiava la menzogna”, Corriere della Sera, 22 maggio 2010)

 

 

Appendice

(Senza pretendere di offrire una mini-selezione delle frasi più significative del Principe, trascriviamo qui di seguito solo tre passi, che ci hanno suscitato gli interrogativi riportati sinteticamente a fianco).

“(…) E debiasi considerare come non è cosa più difficile a trattare, né più dubia a riuscire né più perniciosa a maneggiare, che farsi capo ad introdurre nuovi ordini. Perché lo introdurre ha per nimici tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene et ha tepidi difensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbano bene (…)” (cap. IV). Forse è per questo che, nonostante se ne parli da circa 25 anni, ancora non siamo riusciti ad approvare una riforma vasta e organica della Costituzione italiana? Né maggior fortuna ha avuto quella europea.

“(…) Concluderò solo che a uno principe è necessario avere el populo amico: altrimenti non ha nelle avversità rimedio (cap. IX). E’ vero che, come scrisse una volta Montanelli, non si è mai sentito di una comunità di mariuoli governata da un puritano, ma mi domando: oggi preferiamo il “principe” che sappia fare scelte lungimiranti ma impopolari oppure che parli del popolo come della “più grande e alta bellezza” (Eva Duarte Peròn) ?

“E qui è da notare che uno principe debbe avvertire di non fare mai compagnia con uno più potente di sé per offendere altri, se non quando la necessità lo stringe (…) perché, vincendo, rimani suo prigione: e li principi debbono fuggire quanto possano lo stare a discrezione di altri”(cap. XXI). Se Mussolini, convinto che Hitler avesse ormai vinto la guerra, avesse meditato su queste righe (anziché limitarsi alla nota, generica considerazione di Machiavelli come “spregiatore” di uomini), la nostra sorte sarebbe stata diversa? (Ma Mussolini non seppe dar retta neppure ai secondi futuristi, in particolare a Enrico Prampolini, che, sulla rivista Stile Futurista (1934-35), aveva preso posizione contro le “tesi culturali reazionarie” di Hitler.)