Vita, mondo, persona. L’antropologia metafisica di Julián Marías

  • Stampa


 (cfr. "La vita umana e la sua struttura empirica" di Juliàn Marías)

 

1. Ragione e vita

Ragione e vita, che è il sintagma che riassume perfettamente la cifra del pensiero di Ortega y Gasset (1883-1955) – tant’è che lui stesso ha sempre usato definirlo come una forma di “razio-vitalismo” –, può fungere da sigla per qualificare anche la prospettiva teoretica di quello che è stato uno dei suoi allievi più importanti: Julián Marías (1914-2005)1. E, non a caso, Ragione e vita è anche il titolo dell’edizione italiana di un testo di introduzione alla filosofia di quest’ultimo, per cui è proprio da esso che intendiamo partire per procurarci un accesso al cuore della sua prospettiva speculativa.

Julian MariasMuovendo dal concepire la sua introduzione alla filosofia come «una presa di possesso della circostanza dell’uomo attuale»2, Marías afferma di voler descrivere e analizzare la situazione spirituale del nostro tempo relativamente non tanto alle idee della realtà o visioni del mondo prospettate in sede teorica, quanto all’«uomo “non intellettuale”», il quale inizialmente ignora i problemi, «non cerca di costruire nessuna teoria, ma di vivere semplicemente nella circostanza in cui si trova»3. Si tratta, cioè, di avvicinarsi alla vita, prima che essa sia pensata, di assumere i documenti scritti della nostra epoca «non tanto per quello che dicono quanto per ciò che li rende possibili», cercando di portare allo scoperto i loro «presupposti» non espressi, ossia quelle «cose che per essere […] implicite, si tacciono»4.

Viviamo in un tempo, inoltre, in cui l’uomo, sapendo che sta nella storia e che tutto passa, finisce per esperire ogni cosa come realtà storica. Ciò fa sì che noi ci autocomprendiamo come uomini che appartengono non tanto, in generale, al presente, quanto proprio a questa epoca:

un’epoca alla quale tocca essere adesso presente, però che sarà sostituita nel futuro da altre. […] L’uomo attuale, come uomo “della nostra epoca”, […] si sente, cioè, storico in modo costitutivo. […] La storicità non è per noi semplicemente una condizione reale, […] ma è una radicale convinzione nella quale stiamo5.

Trovandosi immerso profondamente nella storia, l’uomo d’oggi assiste, così, alla crisi profonda di questa sua inserzione radicale in essa:

sappiamo di non avere, in ultima istanza, un ambito storico dove stare.

Avvertiamo, cioè, che tale ambito, in quanto ci manca, deve essere fatto e che «bisogna farlo adesso», ma ci rendiamo anche perfettamente conto che «non disponiamo dei requisiti – intellettuali, sociali, politici, economici – per realizzare questo compito urgente che esige il nostro stesso essere»6.

A tutto ciò, si aggiungano, poi, due fenomeni che sono tipici della nostra epoca. Inprimis, l’intervento sempre più massiccio dello Stato in tutti gli aspetti della vita sociale, il darsi della sua presenza sempre più come “totalitaria”, così che siamo arrivati al palese controsenso che noi chiediamo allo Stato proprio che ci liberi da esso. Ne è derivata un’esagerata ipertrofia della vita pubblica, dove quest’ultima ha soppiantato quasi completamente quella familiare, privata, nel senso che «sono pubblici molti degli stimoli che fanno attualmente funzionare la vita privata di ciascuna persona»7. In altre parole, l’uomo contemporaneo si dà come “socializzato” a tal punto che ciò ha determinato una profonda crisi della sua personalità e intimità.

Invece di vivere apartiredasestesso, l’uomo del nostro tempo vive dallagente, dagli “altri”, ed egli stesso funziona come “uno qualsiasi”, come “uno dei tanti”8.

L’altro dei due fenomeni in questione riguarda la religione. Per quanto il Cristianesimo abbia «caratterizzato la sfera delle vigenze religiose […] in tutti i paesi di cultura e storia occidentali», è un’innegabile realtà di fatto che «il mondo in cui viviamo non è cristiano».

Fino ad ora avevano perso vigenza sociale i presupposti cristiani, perònonlideacheessicontinuavanoadesserevigenti9.

Concretamente, a partire quantomeno dal Rinascimento, l’uomo moderno si è allontanato in misura crescente dall’orizzonte escatologico delle realtà ultime, orizzonte che si è fatto «sempre più remoto e meno operante»10. Si è avuto, così, che altre credenze sono andate ad occupare lo spazio lasciato vuoto da «questa “ritrazione religiosa”», credenze di contenuto sì storico-sociale, ma interpretato escatologicamente: il progresso, l’umanità, la nazione, la classe.

In conseguenza della crisi che, negli anni a noi più recenti, ha investito tutte le credenze appena menzionate, «la vita dell’uomo attuale ha perso […] il suo fine ultimo, il suo orizzonte di “ultimità”».

Oggi si sta facendo il tentativo di vivere considerando solo le “prossimità”, le realtà più vicine ed apparenti.

La forma di vita dell’uomo attuale consta, perciò, sempre di due polarità – “prossimità” e “ultimità” –, solo che lo svuotamento quasi totale della seconda a vantaggio della prima ha provocato un’«alterazione» in quella «prospettiva» nel cui segno «funzionano gli ingredienti “costanti” della situazione»11: «alterazione» che ha riguardato, specialmente, «i concetti di libertà e di sostanzialità nella vita»12.

In merito a ciò, teniamo conto che, per Marías, la situazione in cui l’uomo, volta a volta, si trova può dirsi, a tutti gli effetti, “storica” solo ad una condizione: che si dia un’articolazione organica fra la dimensione «ritentiva» e quella di «protenzione»13, progetto, anticipazione. Ebbene, è proprio circa il modo di concepire la seconda che si sollevano, oggi, le maggiori perplessità, vista la diminuzione, nell’uomo, dei desideri puramente personali o di contenuto interindividuale, nonché il crollo di tutte le sue “pretese” in riferimento alle “ultimità”.

A partire da questa schematica ricostruzione della nostra situazione storica, Marías vede come connaturato ad essa un doppio movimento di apertura e di chiusura, nel senso che, se la situazione è sempre «un repertorio» o «un sistema di […] possibilità date», a rigore, esse lo sono solo nella forma di compiti da soddisfare. Nell’interstizio fra i due movimenti si colloca, poi, uno degli elementi costitutivi della vita umana: l’incertezza. Essa consiste non in un generico non sapere, nel senso di ignorare, ma in «un concreto non sapere a che cosa attenersi»:

l’uomo non sa a che cosa attenersi, deve “farsi carico” della propria situazione, e per cercare di farlo esercita certi tipi di atti […] che sono ciò che si suole chiamare pensare. Il risultato di quest’azione che è il pensare, quando compie il suo proposito, non è necessariamente una conoscenza, ma un sapere a che cosa attenersi o, in altre parole, una certezza14.

La certezza cui si perviene è sempre il superamento di uno stato anteriore di incertezza, la quale è preceduta, a sua volta, da uno stato di certezza diverso dal primo: quello in cui “già si sta”, ma che risulta inabitabile e da cui, perciò, si desidera uscire. Ebbene, proprio l’incertezza è, forse, il tratto più caratteristico della nostra epoca.

Non riusciamo quasi a trovare neanche una vigenza tradizionale che non [ne] sia minacciata […]; la perplessità e il disorientamento dominano quasi tutti gli aspetti della nostra vita15.

Ora, per Marías, è appunto in questa situazione che mette radici il concetto di verità in quanto «risorsa effettiva del nostro vivere»16. Se la nostra incertezza è, infatti, sempre motivata da una “cosa”, di cui, addirittura, in certi casi, già disponiamo, la verità di cui abbiamo bisogno, ma che non possediamo, ha a che fare, invece, con «un nuovo “modo di presenza”» di essa. Nel senso che – stando a quanto visto in precedenza – solo a partire dalla «verità conosciuta» cui perveniamo noi possiamo prendere coscienza dello «stato di verità»17 in cui già ci trovavamo all’inizio, ma senza saperlo.

Venendo, poi, alla forma più importante e generale che assume la verità, Marías la individua nelle credenze. Corrispondentemente alle due tipologie di essa, cui si è fatto appena accenno, le credenze, ossia «i modi normali di “presenza” della maggior parte delle realtà»18, si distinguono in credenze in senso stretto e in idee19. Distinzione dal carattere solo funzionale, in quanto come la verità cui si perviene diventa, dopo un certo periodo, un qualcosa in cui “si sta”, così ciò che, in un primo tempo, era idea funziona, in un secondo, come credenza.

In seguito, Marías passa ad individuare i rapporti possibili che l’uomo intrattiene con la verità. Dopo i primi due modi, che sono tipici di chi vive nell’“ambito” oppure nell’“orizzonte” di essa, in un caso, facendovi cieco affidamento, nell’altro, tanto più cercandola quanto meno è posseduta, ce n’è un terzo, ossia quello che è proprio della maggioranza degli individui. Coincide con lo status di chi vive ai margini della verità, in un repertorio di credenze, più o meno coerenti, alle quali, però, non aderisce. Tale forma di vita è detta della «verosimiglianza» e la sua radice ultima è la superficialità.

Ma c’è anche un quarto modo: quello di chi vive contro la verità e che, purtroppo, pervade ampiamente la nostra epoca.

Le grandi masse percepiscono la verità come la grande nemica, trovando facilmente accordo per opporvisi. […] Ci si chiederà: perché si vive contro la verità? […] La ragione, in realtà, non è poi così difficile da trovare; essa è, nel fondo, paura della verità20.

Un ultimo punto, in merito al tema in questione, riguarda «il vincolo di fondazione» che deve darsi fra le varie verità, nel senso che esse devono essere «ordinate gerarchicamente e dipendenti l’una dall’altra».

La nostra circostanza, per essere vivibile, deve avere una figura di “mondo”, e per averla, bisogna che le nostre convinzioni si ordinino in una prospettiva.

E si ordinano in un prospettiva solo se sono interpretate nel segno di «una certezza radicale, di una certezza che sia, cioè, la radice di tutte le altre».

Una siffatta certezza postulerà un certa universalità, però non nel senso che semplicemente contenga tutte le altre, ma che esse si ordinino e si articolino in sua funzione21.

Sorge, a questo punto, la domanda: quale via sarà la più adatta a farci guadagnare questa «certezza radicale»? Non la scienza, ma la filosofia, la quale, tradizionalmente, proprio di essa è andata sempre alla ricerca.

In merito al problema della verità, in quanto tale, Marías vede che esso si involge in un’«intrinseca aporia». Egli così la formula: 

L’uomo ha bisogno della realtà a prescindere dalle sue interpretazioni e teorie; d’altra parte, però, solo per mezzo di queste egli può sapere a che cosa attenersi rispetto alla realtà stessa.

Il quadro si complica, poi, ulteriormente, se una tale «aporia» è da noi messa in relazione con la storia, per cui la nuova domanda che ora si impone riguarda la natura del vincolo che lega le due dimensioni costitutive della vita umana: la verità e la storia, appunto.

Nel tentativo di dare una risposta ad essa, Marías muove dal concetto di «vivenza del tempo», ossia dall’idea del «tempo come distruttore». La storia può essere vista, però, non solo come un qualcosa che il tempo distrugge, ma anche come ciò che perdura, si conserva, che «si fa in esso»22. Ed eccoci, così, alla nascita di quella «nuova emozione umana», di quella postura non solo intellettuale, definita come «la coscienzastorica». Tratto distintivo di quest’ultima è, ad esempio, l’affermarsi di una nuova sensibilità per le date, prima percepite solo come un «qualcosa “di aggiunto” alla realtà storica»23, poi come un ingrediente decisivo di essa, di cui è impossibile fare a meno.

Complessivamente, la storia non deve essere una ragione per l’uomo per rinunciare alla verità. Bisogna solo partire dal principio secondo cui nessuna verità, da sola, esaurisce l’intera realtà, ma tutte – se sono, effettivamente, verità –, senza mai escludersi l’una con le altre, la conoscono e la manifestano. Il punto è chela connessione fra le varie verità va concepita in chiave non meramente logica, ma reale, nel senso che è, prima di tutto, la realtà stessa che «è intrinsecamente sistematica e conseguentemente dovranno esserlo anche la verità e la conoscenza»24.

Ciò comporta che ogni situazione storica, per quanto possa essere compresa pienamente solo se vista come una concretizzazione dinamica di altre situazioni che le sono anteriori, non è mai un mero risultato, ma contiene in sé sempre un elemento d’invenzione e di innovazione. La presenza del passato in essa è, infatti, un qualcosa non di statico, ma che, continuamente, si va facendo. In sostanza, la verità è storica non solo per il fatto che è immersa nella storia e da essa è condizionata, ma anche perché «è storicamente vera», ossia «è vera solo perché corrisponde ad un punto di vista determinato al quale si è arrivati grazie alla storia intera». In poche parole, «unicamente con la storia – sebbene non solo con essa – è possibile dare ragione della realtà»25.

Ora, «dare ragione della realtà» significa trovare una via d’accesso ad essa: quel cammino che i Greci hanno chiamato, appunto, methodos. Tanto più che alla realtà – proprio come alla physis di Eraclito – “piace nascondersi”, nel senso che, sebbene essa mi sia sempre data, noi comunque dobbiamo raggiungerla.

Alla “nuda” realtà si arriva solo “spogliandola” dal velo o patina che la ricopre26.

Marías definisce come «descrizione» quel metodo tipico della prima fenomenologia husserliana il quale, apprendendo la realtà in quanto tale, si attiene alla sua «pura concretezza circostanziale»2727. Certamente, tale metodo non potrà mai esaurire le esigenze della conoscenza, perché, ad esempio, non ci dice a che cosa attenerci rispetto alla situazione in cui ci si trova. Tuttavia, esso è intrascendibile, in quanto tutto quel che sopravanza ciò che è semplicemente descrittivo va postulato a partire dai requisiti stessi della descrizione. Bisogna comunque partire dalle «connessioni descrittivamente evidenti» che vigono tra gli ingredienti primi della realtà e, solo a partire da esse, arrivare alle «forme mentali superiori e più complesse»28.

Il metodo o via di accesso alla realtà consiste, così, in quel modo di apprenderla che chiamiamo ragione. Al riguardo, non è un caso che il termine greco logos, di cui quest’ultima è la traduzione, contenga in sé, innanzi tutto, un senso di connessione. E la connessione è, appunto, quel riconoscimento relativo alla consistenza delle cose che, permettendomi di contare su di esse, mi consente di fare la mia vita, nonché di avere un orizzonte in vista di cui progettarla.

Possedere la verità radicale significa, quindi, dare ragione della realtà29.

Ora, il primo ad aver introdotto la ragione nella storia sarebbe stato Hegel. Solo che egli parte, piuttosto che da quest’ultima come realtà, da un’interpretazione di essa: si serve della ragione per comprendere la storia e non fa sì che la prima scaturisca naturalmente dalla seconda. Un passo in avanti sembra farlo Comte, ma egli intende la ragione sotto un profilo prevalentemente naturalistico. E arriviamo, così, alla seconda metà dell’Ottocento e alla prima del Novecento: una fase in cui predominano impostazioni del problema in questione che oscillano fra l’irrazionalismo e il formalismo. Ad eccezione, però, di Dilthey, il quale scopre la piena reversibilità fra storia e vita: la vita è, nella sua essenza, storia e la storia è la vita stessa nella totalità delle sue relazioni. Egli coltiva sì il progetto di una ragione storica, ma lo fonda, in ultima istanza, su un’idea storicizzata della ragione e non sul principio secondo cui quest’ultima è una funzione essenziale della vita e della storia.

La vita stessa è ragione, e la ragione è sistematica30.

Come si sa, quest’ultima è proprio la prospettiva di Ortega, per il quale, infatti, è la realtà, nella sua effettiva concretezza, ad essere sistematica. E, conseguentemente, lo è anche la ragione. Ragione che, sulle orme sempre di Ortega, va vista come fornita di un profilo eminentemente narrativo, nel senso che la narrazione, il puro racconto, è quella forma che meglio ci restituisce le articolazioni interne del ritmo vitale.

La realtà si fluidifica, i fatti sono contemplati nel loro farsi originario; questo è, in definitiva, il risultato ultimo della ragione narrativa31.

Il racconto, enucleando la vera figura del mondo umano, consente di mettere capo, così, ad un’analitica di esso: suo scopo è quello di individuare quegli universali, validi per ogni vita, i quali, in virtù del loro «carattere puramente funzionale, acquistano […] implementazione significativa solo quando si riempiono di un contenuto circostanziale»32. Ed è proprio in tal modo che noi progettiamo la nostra vita, facendo sì che da quell’“urto” che scaturisce dal nostro incontro con le cose si produca l’istanza del nuovo. La nostra vita non ci è data, infatti, neanche come possibilità: prima ancora di attualizzare queste ultime, noi stessi dobbiamo farle e crearle.

Per vivere devo […] anticipare, al mio effettivo vivere, la mia vita come possibilità. […] La vita è anticipazione di se stessa33.

Il che è proprio ciò che Marías chiama l’«apriorismo della vita», nel senso che vivere, per l’uomo, è possibile solo in quanto è un «qualcosa che include essenzialmente un previvere»34, esattamente come un autore letterario, con l’immaginazione, prefigura scene e personaggi prima di crearli.

Si mostrano, qui, profonde analogie con la logica aristotelica, la quale, non a caso, è stata definita dallo Stagirita come analitica e dalla tradizione a lui posteriore in termini di organon: strumento. Per essa, si tratta, infatti, di una riduzione agli elementi, di un regresso da quel che è dato ai principi, dove questi ultimi, però, sono inclusi nelle cose principiate, per cui ciò che è ultimo in rapporto all’analisi è ciò che è primo in ordine genetico. Il fatto che la logica sia stata connotata come uno strumento scientifico, fa poi pensare alla convinzione secondo cui essa sarebbe investita di un’utilità eminentemente funzionale, in vista di una priorità che le è sovraordinata.

Date queste premesse, il concetto va visto sì come un puro schema logico, ma tale che la sua funzione significativa si esplica quando esso è attualizzato nei differenti contesti concreti, quando è riferito ad una realtà data per determinarla attraverso il giudizio. È questa una precisazione importante, perché la tradizione ha valorizzato il concetto e, più in generale, la logica, per lo più, solo nel senso di pensiero astratto. Unicamente Husserl avrebbe intrapreso la fondazione di un “logica mondana” e di un’ontologia corrispondente.

Ma la nostra tradizione si è caratterizzata anche per un’altra fondamentale decisione: almeno fin da Parmenide in poi, ha identificato «ciò che c’è (lo que hay)» con un modo concreto e determinato di esserci, con «ciò che è (lo que es)», in quanto modo di esistere proprio di certe cose. Identificazione che, per di più, si dà pure nell’uso di molte lingue. Se all’uomo appartiene, essenzialmente, di avere a che fare con le cose, di essere aperto ad esse, per cui in «ciò che è» egli si muove nel suo elemento naturale, ebbene, da un certo preciso momento tale ambito non viene più lasciato alla sua indeterminatezza, ma interpretato come ente:

l’essere è l’interpretazione del reale – di quello che c’è – quando la mia relazione con questo è […] il conoscere. Non appena mi installo nell’atteggiamento che consiste nel conoscere […], quello che c’è mi si presenta sub specie entis, sotto l’aspetto o la figura dell’essere35.

Tra l’altro, ciò che, per Marías, prova che l’essere è già una interpretazione della realtà è che il concetto di esso non esiste in molte culture, è sconosciuto all’uomo primitivo e – come già notata Ortega – si forma tardi in tutte le lingue3636.

Le cose, pertanto, hanno essere, però non per se stesse; l’essere è qualcosa che faccio io, però con le cose; in pratica, il mio fare è fare che le cose – le cose che ci sono – siano37.

Marías deriva da tutto ciò una distinzione fra metafisica e ontologia, laddove l’equiparazione fra l’una e l’altra, privando la prima della sua radicalità, finirebbe per identificarla, appunto, con una delle declinazioni di essa. La metafisica, infatti, non ha un metodo, è metodo, nel senso che è quella via verso la realtà che consiste nella sua stessa costruzione effettiva: aristotelicamente, è “scienza ricercata”, ossia funge da certezza radicale proprio perché fa del pervenire a se stessa una parte integrante della ragione del suo autogiustificarsi.

E come la metafisica non coincide con l’ontologia, così – antropologicamente parlando –, l’io non coincide con l’uomo. Anzi, proprio questo «è stato l’errore di gran parte della filosofia moderna». Mentre, in un primo senso, mi colgo come un io che trova se stesso nel momento preciso in cui incontro gli oggetti che abitano la mia “circostanza”, in un secondo, successivo al precedente, invece, mi colgo, propriamente, come un uomo. A questo livello, tutto quel che è saputo «è consaputo»38, nel senso che, in ogni sapere, io so me stesso insieme a ciò su cui verte un tale sapere.

Tornando al tema secondo cui la nostra vita «avviene o si realizza solo come giustificazione»39, nel senso che il fare umano si dà sempre in vista di un perché e di un affinché, ciò prova, tra le altre cose, che la responsabilità non è un semplice momento accessorio dell’atto umano, ma un suo elemento costitutivo.

La moralità appartiene solo per accidens a ciò che è fatto, e ricade principalmente e pienamente sul fare nella sua concretezza e integrità, cioè, nella misura in cui si giustifica e, pertanto, si esegue40.

E giustificarsi significa anche fare i conti con la propria vocazione, nel nostro sentirci “chiamati” a realizzare una figura determinata di vita. Nel far ciò, noi, nell’atto in cui produciamo una modificazione decisiva nella circostanza data, immettendovi i desiderata di un io concreto, unico e irrepetibile, sperimentiamo anche una resistenza del mondo, individuale e collettivo, che si oppone a subire una tale trasformazione. La nostra vocazione rischia, così, di rimanere incompiuta, con la conseguenza che la mancata adeguazione fra l’istanza personale e la circostanza si converte in infelicità41.

A conclusione del suo percorso, Marías torna ad occuparsi dell’orizzonte delle questioni umane cosiddette “ultime”: quelle che mettono sempre radici nella nostra vita, ma che corrispondono a «realtà latenti», il cui modo di apparire in essa è di «non stare lì», di «stare occulte», su cui «contiamo senza possederle, senza che ci siano date». Si tratta della sfera di ciò che chiamiamo, tradizionalmente, trascendenza, intesa come quel fondo della nostra prospettiva vitale in rapporto al quale si ordinano tutti gli altri piani e che le conferisce, così, piena «integrità e figura»42.

L’assoluto radica nella mia vita nella forma concreta che consiste in trascenderla; in pratica, si costituisce nella mia vita come realtà indipendente43.

Si annuncia, in tal modo, il problema filosofico di Dio, ossia di un qualcosa di cui nella mia circostanza mi è data solo la sua idea e dove ciò che, per me, è in questione è proprio se ad essa corrisponda o no un oggetto.

La filosofia deve prendere in considerazione la mia possibilità di scoprire un’altra realtà – quindi, in quanto tale, radicata nella realtà radicale che è la mia vita – diversa dalla mia vita, superiore ad essa e, in definitiva, fondamento di essa44.

 

2. Antropologia metafisica

Secondo Marías, l’antropologia filosofica tradizionale dovrebbe convertirsi in antropologia metafisica, in quanto, mentre la domanda che fa da filo conduttore alla prima (“che cos’è l’uomo?”) è posta sempre in terza persona, quasi si trattasse di un oggetto impersonale, neutro e senza sesso, le domande che fanno da filo conduttore alla seconda (“chi sono io?”, “che ne sarà di me?”) sono poste, invece, alla prima persona e con riferimento empirico alla vita, biograficamente intesa45. È così che la nostra tradizione avrebbe procurato una reificazione dell’uomo e ciò perché è sempre partita da un concetto di realtà intesa essa stessa come una “cosa”:

non ha nessun senso parlare di “realtà” senza riferimento a me […]; a me, in quanto sono persona; in tal senso, la realtà […] in quanto realtà risulta improntata a questa condizione personale46.

Le “cose” – così come anche il “mondo”, l’“universo”, la “totalità dell’ente”, la “coscienza” – sono, infatti, solo astrazioni rispetto a quell’«unità reale entro cui esse si costituiscono».

La connessione effettiva della realtà è il sistema della vita stessa. La realtà nella sua forma concreta è la mia vita. Nell’“io vivo” si danno la concrezione e la connessione della realtà. Vivere è apprendere la realtà nella sua connessione effettiva.

Si ripropone, così, quel binomio inscindibile – alcune delle cui articolazioni abbiamo già seguito – che si dà fra ragione e vita, nel senso che la seconda si configura, propriamente, come la «forma concreta» che assume la prima.

La vita non è possibile senza ragione, la cui funzione si esegue solo vivendo47.

Poco fa, dicevamo che, per ammissione stessa di Marías, il contributo teorico più importante arrecato dall’opera che stiamo esaminando consisterebbe nell’elaborazione del concetto di «struttura empirica della vita umana». Esso si era affacciato, per la prima volta, alla mente del nostro Autore già nel testo di introduzione alla filosofia del 1947, laddove egli aveva parlato delle strutture della vita come di quelle forme o schemi che sono gli «elementi costitutivi della sua realtà data»4848. Dopodiché, nel 1952, era stato oggetto di un breve contributo, dal titolo La vida humana y su estructura empírica4949, da noi presentato, nelle pagine precedenti a queste, in traduzione italiana. Qui, in continuità con il testo di introduzione alla filosofia, si trova affermata l’idea secondo cui è possibile rendere conto della vita umana solo mediante quella forma di ragione che è detta “narrativa”:

l’unico modo di parlare realmente di essa [la vita] è di raccontarla. Laforma di “enunciato” in cui la vita concreta è accessibile è la narrazione, il racconto50.

Marías precisa che la struttura di cui egli parla in riferimento alla vita se, da un lato, è «sì empirica, ma è struttura», dall’altro, è «sì struttura, ma è empirica»:

[essa,] senza essere un requisito a priori della vita umana, inerisce di fatto e in un modo stabile alla vita concreta che empiricamente mi si fa incontro. […] La struttura empirica è la forma concreta della nostra circostanzialità. L’uomo non semplicemente è nel mondo, ma sta in questo mondo; non solo ha una realtà corporea, ma ha questa struttura corporea e non un’altra51.

«Struttura empirica della vita umana» significa, inoltre, che a quest’ultima inerisce una dimensione decisiva per la quale la filosofia, tradizionalmente intesa, non ha mai trovato un luogo teorico appropriato: la sessualità. Heidegger, ad esempio, che pure si è proposto di restituire all’uomo il suo carattere essenziale di storicità, fatticità e concretezza, ha prospettato un’analitica esistenziale in cui l’essere sessuato non è presentato come un requisito della vita umana.

Marías ne può concludere, così, che la nostra condizione sessuata non è un mero elemento “naturale” che procede dal corpo, non è una semplice situazione fattiva propria di ciascun individuo. È piuttosto un qualcosa che inerisce proprio alla nostra «struttura empirica», nel suo doppio carattere di stabilità e di storicità. In tal senso, la «struttura empirica» non costituisce, propriamente, una realtà, ma è «una teoria o interpretazione, attinta però a partire dalla realtà», ossia tale che i suoi contenuti sono quelle «condizioni senza le quali la mia vita non è possibile», per cui esse «devono darsi in ogni vita».

Riarticolando il confronto con l’analitica esistenziale heideggeriana, il filosofo spagnolo precisa che, seppure ci sono alcuni punti di contatto fra essa e la sua nozione di «struttura empirica», laddove, ad esempio, l’una e l’altra corrispondono ad uno stesso livello e si avvalgono di una descrizione di tipo fenomenologico, la grande differenza fra entrambe sta nel fatto che la seconda, a differenza della prima, fa uso di un concetto – quello di «ragione vitale» – disconosciuto da Heidegger, per il quale, infatti, «il Dasein, l’“esistere”, non è la “vita umana” (io più la mia circostanza), ma il modo di essere (Seinsweise) di quell’ente che noi siamo»:

mentre la Daseinanalytik funge da “propedeutica” rispetto alla metafisica […], la teoria della vita umana, in quanto realtà radicale, è già metafisica.

Essa fornisce all’analisi paradigmi universali che, riempiendosi, caso per caso, di «concrezioni circostanziali», permettono di «apprendere la realtà singolare di ogni vita». E tutto ciò, appunto, raccontandola:

la teoria analitica non è conoscenza reale […], ma la realtà concreta può essere appresa solo attraverso di essa. L’elemento decisivo è che tali strutture, per quanto previe rispetto ad ogni vita individuale, sono date; non hanno un carattere speculativo, essendo date in quella realtà effettiva, singolare, che è la mia vita, in rapporto alla quale sono ottenute per via di analisi52.

Ora, secondo Marías, la filosofia tradizionale avrebbe completamente trascurato il tema che stiamo, qui, trattando. Aristotele, ad esempio, scoprirebbe sì che fra l’essere essenziale e quello accidentale si dà il proprio, l’ídion, solo che quest’ultimo è pensato, sempre e comunque, come una determinazione che si riferisce a cose, laddove nella teoria in questione «non si tratta di cose, ma della vita umana». La quale, appunto, «non è una cosa determinata, ma una realtà drammatica», ossia un qualcosa che accade e che «funge, al tempo stesso, da area o da ambito entro cui si danno le cose».

Vista in questo modo, la «struttura empirica» appare come il campo in cui si dà ogni «possibile variazione umana dentro la storia»5353. Suo tratto caratteristico è di articolarsi, di fatto, in forme stabili e durature, che per principio sono variabili, di dar luogo a concrezioni non meramente singolari, ma, appunto, empiriche, dotate, cioè, sempre di un profilo strutturale.

La ricognizione del «luogo teorico del problema dell’uomo» mette capo, così, alla seguente conclusione:

L’antropologia nel senso pieno e adeguato del termine è la scienza di questa struttura empirica, mentre la metafisica è la teoria della vita umana come realtà radicale54.

Complessivamente, solo se si articolano fra loro queste due istanze è possibilefornireun’interpretazione rigorosamente personale e, al tempo stesso, empirica dell’uomo, sfuggendo alle aporie di quell’antropologia che ha preteso di definirsi come “filosofica”, nonchéevitando qualsiasi residuo di un’interpretazione dell’uomo stesso come “cosa” (tanto materiale, quanto spirituale).

 

3. La felicità

Marías ha messo a punto un’impostazione di tipo antropologico-metafisico nell’opera da lui dedicata al tema della felicità umana. Passiamo a vedere alcuni degli spunti che egli ci suggerisce. Ebbene, quello della felicità umana è stato un tema eluso dalla riflessione filosofica tradizionale, sempre ancorata alla tacita convinzione secondo cui la realtà sarebbe costituita, esclusivamente, da “cose”. Ovviamente, non che il tema in questione non includa in sé un collegamento anche a “cose”, ma è che esso, oltre a «ingredienti materiali», ne presenta pure altri, «dinamici, drammatici». Ne discende che bisognerebbe rinnovare radicalmente i concetti della vecchia ontologia, pensata per comprendere sostanze o, tutt’al più, funzioni, laddove qui ci troviamo davanti ad “oggetti” che «appartengono a un altro tipo di realtà», ossia che «non si chiariscono con semplici osservazioni o esperimenti»55.

Su certe materie, sorprendentemente, si è pensato poco, e una di queste è la felicità; il che farebbe pensare che non le sia stata data troppa importanza […]; tuttavia l’uomo non cessa di cercarla56.

E, nel cercarla, dà prova che essa non è «uno schema, un modello applicabile a qualsiasi caso», ma è sempre «la mia felicità», nel senso che ha «un carattere individuale», nonché «un collegamento con l’essere progettuale che ognuno di noi è».

È questo il carattere essenziale della felicità, non vi è nulla che richieda di più l’unicità della persona. In questa prospettiva bisogna impostare il problema57.

Esattamente qui, tra l’altro, si gioca una delle differenze essenziali fra l’uomo e l’animale, del quale, infatti, non si può propriamente dire che cerchi la felicità. E ciò perché quest’ultima «non è […] una condizione “naturale”», ma un qualcosa che noi dobbiamo scegliere, immaginare e poi tentare di realizzare, con esito positivo o negativo. L’uomo è segnato, così, da una contraddizione interna fra l’assoluta necessità di essere felice e l’impossibilità di esserlo stabilmente, per cui la felicità appartiene inesorabilmente a lui, innanzi tutto, come aspirazione.

L’essere uomo consiste nel tentare di essere ciò che non si può essere, ed è questo che chiamiamo, con un verbo stupendo, vivere. Questa parola non ha lo stesso significato quando viene applicata alla pianta, all’animale o all’uomo58.

Per questa via, Marías perviene ad una definizione della felicità come «l’installazione della vita umana»5959, dove il termine «installazione», nella sua radice, allude, appunto, ad uno stare, ad una permanenza o stabilità conseguita cercando di dominare sempre, nel segno di ciò che di volta in volta è il presente, la nostra insicurezza e inquietudine esistenziale:

lo “stare”, quando andiamo oltre ciò che è puramente fattivo e accidentale, ha una struttura; essa, però, non è originariamente estatica, ad esempio spaziale, ma biografica. […] Quando ci occupiamo della struttura biografica dello stare, ossia quando consideriamo lo “stare” in chiave biografica e strutturale, perveniamo ad un concetto imprescindibile entro una teoria dell’uomo come struttura empirica della vita, ossia entro un’antropologia nel senso rigoroso del termine: l’antropologia dell’installazione. […] Non posso vivere rivolto in avanti se non a partire da una certa struttura previa dello stare – previa rispetto ad ogni singolo fare e progetto – nella quale io sono “installato”60.

Analizzando il concetto di felicità nel modo in cui si configura nel mondo greco e in quello romano, Marías nota che nell’uno e nell’altro essa è definita attraverso due termini: eudaimonía e makariótes (o makaría), nel primo, e felicitas e beatitudo, nel secondo. Qui, ai quattro concetti manca, però, ancora un qualcosa di fondamentale, di profondamente radicato nell’idea stessa di felicità: la dimensione del progetto, nonché quella dell’amore. Affinché ciò sia acquisito, bisognerà attendere l’era cristiana: era in cui, nel vocabolario della felicità, entra, per la prima volta, sia «un riferimento al futuro», sia un «collegamento con qualcosa che è proprio dell’uomo, atteggiamento, modo di vita, condotta»61. Poiché, in ottica veterotestamentaria, Dio è, innanzi tutto, colui che promette, in cui si può confidare, nell’idea di felicità si fa strada, cioè, «un elemento decisivo di proiezione nel futuro, di anticipazione, di promessa». In più, si afferma una consapevolezza assolutamente inedita e nuova, ossia quella secondo cui «la vita umana è la vita di ognuno, non è la vita in generale, in astratto: è la mia, la tua, la sua»62. E proprio parlando dell’idea cristiana di felicità come promessa, Marías aggiunge che essa è sostanzialmente arricchita dal fatto che gli uomini sono «figli di Dio, eredi della sua gloria, partecipi della vita divina»63.

Riguardo, poi, al nesso tra la felicità e l’amore, esso, in particolare, si trova al centro della mistica cristiana, il cui tema centrale è, infatti, l’unione soprannaturale dell’anima con Dio non in un’altra vita, main questa vita:

la mistica significa un’anticipazione della beatitudine, un pregustare in questo mondo ciò che sarà la contemplazione di Dio nell’altra vita64.

Passando a considerare l’età moderna, Marías vede come il concetto di felicità tocchi il suo culmine nell’utilitarismo inglese, in quale, riducendola a benessere e privandola di qualsiasi drammaticità, «giunge a quantificarla»65.

Se si intende la felicità come benessere si compiono due riduzioni. In primo luogo, intendendola nel senso di star bene o sentirsi bene, cioè come uno stato d’animo o una situazione, la si spoglia del suo carattere di attività, di tensione o proiezione. In secondo luogo, si tende a confonderla con ciò che rende possibile o facilita tale situazione o tale stato66.

In virtù di questo nesso stabilito tra la felicità e il benessere, ne discende che la prima, destituita di qualsiasi carattere personale, «perde il suo contenuto proprio» e «diviene un’equivalente delle sue condizioni»67, per cui essa, oltre ad assumere un aspetto prevalentemente statico, ora appartiene a tutti in generale e a nessuno in particolare.

Riprendendo il concetto di «installazione», Marías precisa che essa ha sempre un carattere vettoriale6868. E ciò per preservare tanto il carattere di unità o medesimezza della vita, quanto quello della «straordinaria molteplicità delle sue dimensioni e dei suoi contenuti». La vita, cioè, non è un mero accadere, ma è sempre uno “star-vivendo”, un insediarsi nel punto di vista non delle cose, ossia delle diverse dimensioni parziali che la costituiscono, ma della connessione unitaria a partire dalla quale esse, individuandosi e specificandosi, ricevono la loro realtà.

La felicità si riferisce alla vita stessa […]. Per quel carattere di installazione che ha la felicità, chi è felice si sente nella felicità; tuttavia, essendo questa instabile, è installato in “presenti” o “momenti” di felicità che concernono dimensioni parziali. Ma a una condizione: che quei momenti siano riferiti alla vita stessa69.

E installarsi nella felicità significa anche che essa avanza sempre «una pretesa di durata»:

essere felici è pretendere di continuare a essere felici. […]; non appena c’è la felicità, c’è la pretesa di continuare a possederla70.

Ma la felicità non solo avanza «una pretesa di durata», ma, in virtù del suo profilo vettoriale, presenta anche un carattere di anticipazione:

Essere felici significa essenzialmente stare per essere felici. È più importante l’anticipazione che il godimento attuale: […] non sono felice ma sento che lo sarò71.

La felicità ha a che fare, così, essenzialmente, con il tempo: proprio perché so che essa finirà, colgo ogni singolo momento della vita nella sua pienezza come unico e irripetibile.

In questa chiave, Marías, reinterpretando il carpe diem latino, lo riformula nel senso di un carpe rem. Mentre il primo, nel suo privilegiare il momento puntuale, potrebbe avere, infatti, come conseguenza di isolarlo e di snaturarlo, solo il secondo, invece, è quel modo di fruire delle cose offerteci dalla vita che le mantiene sempre in connessione con la vita stessa.

Se paragoniamo la felicità con il piacere, […] ci accorgiamo che il piacere disperde; la felicità, invece, ha un effetto contrario: concentra, condensa. Mobilita verso un punto unitario tutte le energie della vita, le intensifica e rende la vita qualcosa di unitario72.

Studiando il fenomeno della felicità nella sua dimensione sociale, Marías passa poi ad affermare che, se la prima consiste nella realizzazione di un’aspirazione vitale, essa può essere favorita oppure no dalla struttura complessiva della società entro cui viviamo. In particolare, il mondo che abitiamo è diventato così complesso che, in esso, non ci sembra più possibile essere felici. Ciò ha fatto sì che, cessando di dare importanza a quello sforzo con cui cerchiamo di vincere le difficoltà, si è «smesso di progettare la felicità».

Questa concezione non era mai esistita prima. […] È un cambiamento che tocca l’intimità dell’uomo73.

Il punto è che, poiché la felicità ha perso il suo profilo individuale, personale, quando pensiamo ad essa, raramente rivolgiamo gli occhi a noi stessi per domandarci se siamo felici o no: guardiamo piuttosto verso la sfera collettiva, per vedere se si è felici, mediamente, a partire dalla condizioni date.

E, a proposito del fatto che, nel nostro tempo, si è «smesso di progettare la felicità», Marías afferma che essa, facendo leva sull’immaginazione, accompagna, sempre e comunque, il nostro progetto vitale, il quale, dunque, presenta in ogni caso «un certo contenuto “felicitario”».

L’immaginazione si mette in gioco […], in ogni fase della vita, con un contenuto più o meno felicitario74.

Ne discende che ciò che caratterizza l’uomo è, soprattutto, la sua «fedeltà creatrice», per dirla con Marcel, ossia il fatto che, se noi siamo essenzialmente «una realtà che si progetta», ebbene, il nostro abito antropologico non consiste altro che in una «fedeltà al futuro, al progetto originario che ci costituisce»75.

In precedenza, vedevamo come, per Marías, alla felicità sarebbe connaturata la dimensione dell’amore. A questo punto della sua ricognizione, egli afferma che, poiché il desiderio di essere amato è essenziale per essa, la persona che dà più felicità «è quella che possiamo amare, è quella che permette la realizzazione dell’autentica vocazione personale»:

scegliendola, scegliamo noi stessi nella nostra medesimezza76.

 

4.La persona

L’ultima fase della riflessione di Marías (successiva all’opera Antropología metafísica, quindi, dal 1970 in poi, fino alla morte) vede venire prepotentemente in primo piano il tema della persona. Il testo in cui la sua riflessione in merito a questo punto si condensa è Persona, del 1996.

Qui, egli inizia rilevando come quello della persona umana, visto lo «stranissimo modo di realtà» che la caratterizza, sia un problema che la filosofia, nella sua millenaria storia, ha sempre disatteso e non ha mai posto in maniera adeguata. Esso costituisce, invece, «la realtà più importante di questo mondo, ad un tempo la più misteriosa ed elusiva»: la «chiave di ogni effettiva comprensione»77. Una realtà ben distinta, irriducibile, di un altro ordine, la cui scoperta avviene mediante «un dato primario ed essenziale […]: la corporeità».

Ciò che immediatamente incontriamo è un corpo, estraneo o proprio, e tale corpo è una “cosa” sebbene poi risulti che è qualcosa di più, possibilmente alcunché di irriducibile ad ogni cosa. Il supporto carnale rende possibile l’inserzione dell’uomo nel mondo.

L’uomo, dunque, si manifesta originariamente agli altri e a se stesso attraverso il corpo, si “installa” e si incarna in esso secondo una modalità che sembrerebbe primaria, ma che, invece, antropologicamente non lo è, perché egli sta sempre “al di là”: è «una realtà progettuale, futuribile (futuriza), che sfugge al presente e lo trascende».

In quanto progettuale, tutto ciò che è personale è primariamente futuro – anzi futuribile, per l’essenziale insicurezza di tutto l’umano […] – cioè una forma di realtà tanto diversa dalle cose da essere, rispetto ad esse, irreale78.

In tal senso, proprio perché la persona unisce in sé intimità e trascendenza, l’errore di prospettiva in cui si è incorsi tradizionalmente è di averla avvicinata esclusivamente «“dal di fuori”, come qualcosa che “sta qui”», come una “cosa”, piuttosto che come «un evento drammatico, […] consistente nellaccadere». Ne discende che la realtà della persona è tale che essa conosce «gradi, differenze di pienezza e di intensità», passibile com’è di decadere ad uno stato di spersonalizzazione, di «dismissione della condizione personale»79.

Per Marías, la scoperta autentica della persona si dà quando facciamo uso del pronome “io”, senza l’articolo davanti, in quanto esso «“cosifica” la cosa nominata», «annulla la [sua] posizione di realtà». La persona va pensata, cioè, sì come una sostanza, ma come un nucleo di permanenza entro il vettore di un progetto, sganciata da ogni ancoraggio alle “cose”.

Alla persona appartengono attributi che non si possono applicare alle cose, ma richiedono categorie ben distinte: medesimezza (e non identità), evento, imprevedibilità, costitutiva libertà di qualcuno che si fa in essa.

Alla persona, inoltre, proprio perché essa «ha un grado di realtà incomparabilmente superiore a quello di ogni altra “cosa”», appartiene anche un «elemento di irrealtà che le è costitutivo». Per questo, più che il concetto di futuro, le si addice quello di «futuribile (futurizo80, così che ad ogni proiezione personale è conservato sempre un tratto di insicurezza strutturale, ossia l’orientazione verso un qualcosa che, mancando di realtà, può realizzarsi o meno. E la vita umana è orientata non solo verso il futuro, ma si nutre anche della presenza del passato, che è un’altra forma di irrealtà, giacché esso non è, ma, appunto, è stato.

Due sono i caratteri che qualificano, innanzi tutto, una persona: l’opacità e la trasparenza. L’una la sperimentiamo nel fatto che l’aspetto primario sotto cui essa ci si manifesta è dato dalla scoperta del tu, dell’altro, per cui la forma con cui ci cogliamo originariamente come un io è quella di vederci come un me, un alter tu. In virtù dell’altra, invece, la persona può essere definita come un «ambito», un’«interiorità aperta», ciò che «può stare […] non solo “con” un’altra persona, ma in ella»: accedere alla sua intimità e abitarla81.

L’apertura ad altre persone è, così, condizione intrinseca della vita personale, per cui il solipsismo «non è solo un grave errore filosofico, ma contraddice ogni evidenza». Come a dire che alla persona non appartiene originariamente la solitudine, la quale è sempre il risultato di una ritrazione: non si sta soli, ma si resta soli. La vita umana consiste, inoltre, anche di immedesimazione (ensimismamiento), di ritiro nell’interiorità, di inabitazione dentro di sé. E ciò perché essa è sempre transitiva:

non accade all’interno di se stessi, ma dal di dentro82.

Tutto ciò conferisce alla persona anche un carattere arcano, a misura della difficoltà di sapere chi ognuno veramente è, compreso noi stessi, nella sua ultima radicalità. In noi, infatti, decisivo è l’elemento dell’autenticità, ossia l’essere fedeli o meno alla nostra vocazione, entro le possibilità che la circostanza ci offre. Possibilità che, essendo illimitate, impediscono di conoscere, una volta per tutte, la realtà di una persona, per cui in quest’ultima sussiste sempre un largo margine di trascendenza, al di là di ogni situazione data.

Due, sostanzialmente, sono le interpretazioni intellettuali che sono state date della realtà umana: una sostanzialista, l’altra funzionalista. Mentre, nel primo caso, l’uomo è stato inteso come una cosa, anche se di quella specie molto particolare definita dalla razionalità, nel secondo, invece, è stato dissolto nel complesso dei suoi atti psichici e dei suoi vissuti. Relativamente al concetto di sostanza, il punto è, allora, se dobbiamo identificarlo con quello di cosa, oppure pensarlo come distinto da essa. Ebbene, nel Nuovo Testamento compare un concetto di sostanza (hypóstasis) in senso personale, laddove si parla della fede come «sostanza delle cose sperate» (Eb 11, 1). Un concetto che sarebbe da mettere in relazione con quello di caritas della PrimaLettera ai Corinti (13, 1-13).

Ne discende che una volta che abbiamo identificato la chiave di una persona, ossia il centro sostanziale da cui scaturiscono tutti i suoi atti, ecco che proprio «questo contatto ci dà la possibilità di “abitarla”» o, all’inverso, di «essere “abitati” da essa», ossia di raggiungere «la forma suprema di convivenza e compagnia»83.

Due sono i modi in cui una persona è “abitata” da un’altra: l’amore e l’esperienza religiosa. L’amore, in particolare, è ciò in cui consiste il principio di individuazione per il quale ogni persona è quella che è: uomo o donna. La relazione fra i quali si muove sempre nell’elemento dell’amore, anche se poche volte si realizza esplicitamente sotto questo segno: 

la persona umana, prima di essere intelligente o razionale, è creatura amorosa84.

Vedendosi nello specchio di chi l’ama, ognuno di noi è chiamato al suo vero progetto, per cui è «la vigenza dell’amore» ciò che condiziona «la pienezza “media” delle persone in quanto tali», ossia ciò che, in ultima istanza, decide del «fattore di personalizzazione»85. E sarebbe interessante anche vedere fino a che punto la realtà personale dell’amore è stata influenzata dalle interpretazioni letterarie, dalle canzoni popolari, dalla poesia lirica, dal teatro, dal romanzo, dal cinema o dalla televisione.

Un’altra categoria costitutiva della persona è poi quella di illusione. E ciò perché essa, in quanto «ingrediente di ogni vocazione autentica», «concerne la dimensione futuribile della vita umana, l’anticipazione incerta». L’illusione è, cioè, l’unica forma di infinitezza che può essere appropriata alla nostra realtà finita.

Il concetto di illusione può essere lo strumento adeguato per la comprensione di quella situazione che sembra contenere una contraddizione paradossale. L’illusione non termina, non ha motivo di finire con la sua realizzazione; ciò permette di intendere che cosa potrebbe essere la perfezione della persona, nonostante non sia mai compiuta; la sua pienezza personale sarebbe qualcosa che, giunta al vertice, non termina né si esaurisce né ristagna, ma continua a sgorgare incessantemente86.

In una parola, «si è persona nella misura in cui si è capaci di illusione» e laddove questa «si realizza e raggiunge i maggiori gradi di intensità ed autenticità»87.

Passando a riflettere sull’origine della persona, Marías afferma che essa è data dalla nascita, evento che segna un’innovazione radicale nella realtà: l’apparizione di un qualcosa di unico, di assoluto, di irriducibile al già dato. Nascita che, in quanto non la ricordiamo, continua ad agire sempre in ciò che noi, volta a volta, andiamo scoprendo.

La nascita si produce in uno stato della persona che possiamo chiamare “implicito”; per un periodo relativamente lungo è latente, e si va manifestando e prendendo possesso di se stessa, di ciò che già era88.

Il fatto che la nostra vita ha un’origine non necessaria, ci fa scoprire, inoltre, la contingenza, con tutto il margine di insicurezza che vi è connesso: sapendo che potremmo non essere mai nati, ci sentiamo obbligati a progettare la nostra vita, a darle un senso, a giustificarla. Ciò ci porta ad avere coscienza anche della nostra radicale finitezza, indipendentemente dal dato che noi vediamo gli altri, intorno a noi, morire.

In definitiva, per comprendere la persona abbiamo bisogno di una riforma radicale dell’ontologia tradizionale, per pensare la nostra vita non come una cosa, ma come un fare, una realtà drammatica, progettuale: una realtà che, propriamente, non è, ma accade. 

L’ultimo residuo di difficoltà consiste nel pensare non già la vita umana […] ma la persona che vive. Quando diciamo io (o tu), scopriamo che è qualcosa che accade, non una cosa, non un subjectum, un supporto inerte o quiescente di atti89.

 

  

Note con rimando automatico al testo

1 M. T. Russo, Corporeità e relazione. Temi di antropologia in José Ortega y Gasset e Julián Marías, Armando, Roma 2012 (cap. II: «Julián Marías: la corporeità come struttura empirica della vita umana», pp. 89-172), afferma che Marías è, senz’altro, «il discepolo e l’interprete più autorevole di Ortega»: quello che «ha saputo elaborare un pensiero originale a partire dalla intuizione del maestro senza esserne un pedissequo ripetitore» (p. 89).

2 J. Marías, Ragione e vita. Unintroduzione alla filosofia (1947), tr. it. di F. De Nigris, Edizioni Università della Santa Croce, Roma 2004, p. 22. Significativamente, questo testo è dedicato proprio alla memoria di Ortega. Una ricostruzione della fase di apprendistato filosofico di Marías alla scuola di Ortega è in J. Soler Planas, El pensamiento de Julián Marías, Revista de Occidente, Madrid 1973 (cap. I: «Filiación intelectual orteguiana», pp. 25-61).

3 Ragione e vita, cit., p. 40.

4 Ivi, p. 42.

5 Ivi, pp. 61-3.

6 Ivi, p. 68.

7 Ivi, p. 72.

8 Ivi, p. 106. Questa distinzione fra vivere a partire da se stesso oppure dalla gente si rifà alle tesi di Ortega esposte nel suo Luomo e la gente (1957), tr. it. di L. Infantino, Armando, Roma 1996. Qui, ciò che noi chiamiamo la gente, la collettività, si riferisce a quei «fatti propriamente sociali, irriducibili alla vita umana individuale» (p. 26).

9 Ragione e vita, cit., pp. 98-9. Per il concetto di «vigenza», qui tematizzato, cfr. J. Marías, La estructura social (1955), in Id., Obras, vol. VI, Revista de Occidente, Madrid 1970 (cap. III: «Las vigencias social», pp. 230-65). In tale opera, essa è definita come «ciò che è in vigore, che ha vivacità, […] forza; tutto ciò che incontro nel mio contorno sociale e sul quale faccio affidamento» (p. 230). Sul tema del Cristianesimo, cfr., inoltre, J. Marías, Sul Cristianesimo (1997), tr. it. di J. P. Gómez Carriquiri, Mursia, Milano 2001.

10 Ragione e vita, cit., p. 106. Questo giudizio è ribadito anche inJ. Marías, San Anselmo y el insensato (1944), in Id., Obras, vol. IV, Revista de Occidente, Madrid 1969, laddove leggiamo, ad esempio, che «la religione è quasi del tutto inoperante nel mondo attuale» (p. 61). Più precisamente, con l’età moderna, «Dio smette di essere l’orizzonte della mente, per convertirsi nel suolo di essa», nel senso che «l’uomo si indirizza a Dio non perché a lui interessa quest’ultimo», ma solo perché è «la condizione per riconquistarlo [il mondo]» (p. 50).

11 Ragione e vita, cit., p. 107.

12 Ivi, p. 113. Marías usa il termine «alterazione» nel senso tecnico che attribuisce ad esso Ortega, quando lo contrappone a quello di «immedesimazione (ensimismamiento)». Mentre il primo significa vivere sempre alienato, fuori di se stesso, il secondo, invece, il ritirarsi dentro di sé, nella propria intimità, per raccogliersi e meditare. Cfr. il cap. I («Immedesimazione e alterazione») de Luomo e la gente, cit., pp. 29-48.

13 Ragione e vita, cit., p. 109.

14 Ivi, pp. 119-21.

15 Ivi, p. 122.

16 Ivi, p. 126.

17 Ivi, pp. 123-4.

18 Ivi, p. 143.

19 Questa distinzione fra idee e credenze è prelevata anch’essa da Ortega, laddove, mentre le seconde sono definite, paolinamente, come ciò in cui «viviamo, ci muoviamo e siamo», come ciò che, quindi, «ci possiede e ci sostiene», le prime sono, invece, «opera nostra» e siamo noi a possederle. Cfr. J. Ortega y Gasset, Idee e credenze (1940), in Id., Aurora della ragione storica, tr. it. di L. Rossi, pp. 241-71: pp. 246 e 243. Sulle credenze come «il sostrato basico, più profondo, dell’architettura della nostra vita. Viviamo di esse e per ciò stesso non siamo soliti pensarle», cfr. anche Storia come sistema (1935), in ivi, pp. 197-238: pp. 202-3. Da Marías, la distinzione fra idee e credenze è articolata, soprattutto, in La estructura social, cit. (cap. IV: «Creencias, ideas, opiniones», pp. 266-310).

20 Ragione e vita, cit., p. 147.

21 Ivi, pp. 149-50.

22 Ivi, pp. 161-2. Su Erodoto come «il primo tentativo, serio e tematico, […] di sfuggire alla caducità per via della storia», cfr. J. Marías, El saber histórico de Herodoto (1946), in Id., Obras, vol. IV, cit., pp. 443-53: p. 447.

23 Ragione e vita, cit., pp. 162-3.

24 Ivi, p. 172. Al riguardo, Ortega scriveva quanto segue: «La realtà, perché è tale e perché si trova fuori delle nostre menti individuali, può giungervi soltanto moltiplicandosi in mille volti o aspetti. […] [Essa] si spezza in innumerevoli facce, […] ognuna delle quali si volge su un individuo. Se questi ha saputo essere fedele al suo punto di vista, […] quello che vede sarà un aspetto reale del mondo». Cfr. J. Ortega y Gasset, Verità e prospettiva (1916), in Id., Lo Spettatore, 2 voll., tr. it. di C. Bo, Bompiani, Milano 1949; vol. I, pp. 23-31: pp. 28-9. In seguito, questa tesi sarà ripresa da Ortega nel cap. X del suo Il tema del nostro tempo (1923), tr. it. di C. Rocco e A. Lozano Maneiro, SugarCo, Milano 1985, pp. 131-7. Qui, leggiamo: «La prospettiva è una delle componenti della realtà. Lungi dall’essere la sua deformazione, è la sua organizzazione» (p. 134).

25 Ragione e vita, cit., pp. 173-4.

26 Ivi, pp. 189-90.

27 Ivi, p. 195.

28 Ivi, p. 197.

29 Ivi, p. 218.

30 Ivi, p. 249.

31 Ivi, p. 260. Sulla rilevanza metodica che il romanzo può assumere per la filosofia, cfr. J. Marías, Miguel de Unamuno (1943)e La Escuela de Madrid (1959), in Id., Obras, vol. V, Revista de Occidente, Madrid 1969, rispettiv. pp. 69-78 e 503-18. In particolare, nel testo La imagen de la vida humana (1956),in ivi, il romanzo è definito come una «narrazione circostanziata, dando a questo aggettivo la sua significazione più completa» (p. 553)

32 Ragione e vita, cit., p. 264.

33 Ivi,p. 292.

34 Ivi, p. 299.

35 Ivi, p. 388.

36 «Risulta infatti che in tutte le lingue i vocaboli che denominano “l’essere” hanno la caratteristica di essere recenti». Cfr. J. Ortega y Gasset, Lidea del principio in Leibniz e levoluzione della teoria deduttiva (1947), a cura di S. Borzoni, Saletta dell’Uva, Caserta 2006, p. 289.

37 Ragione e vita, cit., pp. 393-4.

38 Ivi, p. 414.

39 Ivi, p. 424.

40 Ivi, p. 430.

41 Su questo punto, cfr. J. Marías, La felicità umana: un impossibile necessario (1989), tr. it. di G. e L. Ferrero, San Paolo, Cinisello Balsamo 1990.

42Ragione e vita, cit., p. 476.

43 Ivi, p. 496.

44 Ivi, p. 502. A proposito del problema dell’esistenza di Dio, Marías riconosce che uno degli approcci più interessanti ad esso si deve a X. Zubiri, Intorno al problema di Dio (1935), in Id., Natura, storia, Dio, tr. it. di G. Ferracuti, Augustinus, Palermo 1985, pp. 251-71. Qui, Zubiri afferma che il problema in questione andrebbe impostato su basi completamente nuove, laddove la filosofia, sino ad oggi, lo ha sempre prospettato «basandosi sul presupposto secondo cui essa [tale esistenza] sarebbe un factum». Cfr. San Anselmo y el insensato, cit., p. 72.

45 Cfr. J. Marías, Antropología metafísica (1970), in Id., Obras, vol. X, Revista de Occidente, Madrid 1982, pp. 11-217: pp. 61 e 43. Fin dal «Prólogo», l’Autore afferma che la «maggiore novità intellettuale» di questo lavoro consisterebbe proprio nella «scoperta di quel livello della realtà» che è da lui definito come «la struttura empirica della vita umana» (p. 11).

46 Ivi, p. 39.

47 Ivi, pp. 55-6.

48 Ragione e vita, cit., p. 263.

49 In Ensayos de teoría, in Obras, vol. IV, cit., pp. 355-61.

50 Ivi, p. 357.

51 Ivi, pp. 359-60.

52 Antropología metafísica, cit., pp. 64-5.

53 Ivi, p. 68.

54 Ivi, p. 71.

55 J. Marías, La felicità umana. Un impossibile necessario (1987), tr. it. di G. e L. Ferrero, Paoline, Cinisello Balsamo 1990, p. 14.

56 Ivi, pp. 18-9.

57 Ivi, pp. 22-3.

58 Ivi, pp. 25 e 27.

59 Ivi, p. 35.

60 Antropología metafísica, cit., pp. 73-4. Secondo M. T. Russo, Corporeità e relazione, cit., questa categoria dell’«installazione» sarebbe «desunta dal pensiero di Zubiri» e si gioverebbe «anche delle considerazioni di Ortega sulla circostanza in cui necessariamente si svolge ogni vita umana» (p. 114). In particolare, lo «stare, contenendo il riferimento alla durata, esclude qualsiasi concezione istantaneista o attualista dell’essere e rappresenta l’orizzonte di riferimento della progettualità, il punto di partenza di ogni movimento vitale, la circostanza concreta in cui si è collocati e da cui si parte» (p. 115).

61 La felicità umana, cit., p. 112.

62 Ivi, pp. 116-7.

63 Ivi, p. 119.

64 Ivi, pp. 137-8.

65 Ivi, p. 169.

66 Ivi, p. 171.

67 Ivi, p. 173.

68 A proposito di questo concetto di vettore o traiettoria, Marías ne ha fatto una delle chiavi ermeneutiche per la comprensione del pensiero di Ortega in una delle sue monografie dedicate a quest’ultimo. Cfr. J. Marías, Ortega. Las trayectorias, Alianza Editorial, Madrid 1983.

69La felicità umana, cit., pp. 227-8.

70 Ivi, p. 263.

71 Ivi, p. 268.

72 Ivi, p. 274.

73 Ivi, pp. 255-6.

74 Ivi, pp. 277-8.

75 Ivi, p. 300.

76 Ivi, p. 316.

77 J. Marías, Persona. Mappa del mondo umano, a cura di A. Savignano, Marietti, Genova 2011, p. 51.

78 Ivi, pp. 54-5.

79 Ivi, pp. 56-7.

80 Ivi, pp. 59-60.

81 Di opacità e trasparenza, riferite alla persona umana, Marías aveva già parlato nell’Antropología metafísica e, più precisamente, nel cap. XIV: «La sensibilidad como trasparencia» (pp. 92-8). Qui, leggiamo: «In quanto cosa, il corpo è “opaco”; in quanto corpo sensibile, è un medium “trasparente” che mi inserisce nel mondo. […] Questa trasparenza generale che permette a noi di inserirci nel mondo e di “stare” in esso» è il risultato dell’«“intersezione” della struttura del mondo con quella del corpo umano» (pp. 94-5). In merito alla trasparenza, più in particolare, Marías poi precisa cosa intende esattamente con essa. «Non è solo la trasparenza del corpo, attraverso il quale, per mezzo della sensibilità, “accedo (llego)” al mondo che mi è presente; è anche la trasparenza dello stesso mondo, il suo lasciarsi penetrare dai miei progetti, come se le frecce di essi fossero raggi luminosi. Il mondo è “transitabile” grazie alla sensibilità; ha una profondità in cui si può entrare; è capace di cammini che si possono aprire e seguire all’interno di esso» (p. 96).

82Persona, cit., pp. 72-3.

83 Ivi, p. 102.

84 Ivi, p. 164.

85 Ivi, pp. 114-5. Anche sul tema dell’amore, inteso non in chiave psicologica, ma come «una realtà della vita biografica», Marías si era pronunciato già nell’Antropología metafísica. Qui, infatti, leggiamo: «l’amore è primariamente un’installazione, in cui si sta e a partire dalla quale si eseguono atti […]; in altre parole, quando si è installati nell’amore, si fanno molte cose, una delle quale è amare» (pp. 151-2).

86 Persona, cit., pp. 118-9.

87 Ivi, p. 120.

88 Ivi, p. 133.

89 Ivi, p. 135.