AZIONI PARALLELE 
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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
Gabriella Baptist,
Giuseppe D'Acunto,
Aldo Meccariello
e Andrea Bonavoglia.
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AUTORI

Mounier
di A. Meccariello e G. D'Acunto
ed. Chirico

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Modern/Postmodern
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Solitudine/Moltitudine
ed. MANIFESTO LIBRI

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di A. Meccariello e A. Infranca
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L'eone della violenza
di M. Piermarini
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La guerra secondo Francisco Goya
di A. Bonavoglia
ed. ASTERIOS 

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Avere tanti anni. Il tentativo di una Auto-Poesia

 

Il termine “poesia” proviene dall’etimo greco “poiein”, che significa “fare”, la cui forma sostantiva “poiesis” ha il senso di “produzione”, “costruzione”, “composizione” o “preparazione”. Se una poetessa come D’Amato scrive la sua autobiografia in forma di poesia, non vuol forse questo dire che anche il contenuto di questa narrazione si trasforma e che la sua vita diviene qualcosa di “fatto” da questa stessa persona, un prodotto vivo, in cui si prepara qualcos’altro rispetto a quanto fin qui esisteva? Non si trasforma così anche questa vita (la cosiddetta autobiografia) in un’immagine della fantasia matura, più che dell’arida memoria, non diviene un sogno trasparente delle cose, anche se non facilmente intuibile, un delirio sottile, ma non confuso, quando la poesia diventa più forte e dice l’ultima parola? Leggendo la “Nota dell’Autore” dovremmo rispondere di sì:

I testi dell’avere trent’anni più che poesie sono dei tentativi di raccontare l’approssimarsi della perdita, l’andarsene dell’innocenza verso una fedeltà più matura alla propria infanzia (p. 41).

“L’approssimarsi della perdita” è un’espressione che implica il fatto che la perdita non sia ritrovabile, ma che sono un avvicinarsi sia possibile. Come è strutturato il tempo di questo avvicinamento che può continuare tutta la vita, ma anche per un’infinità? E che succede durante questo tempo, che cosa incontriamo per la strada, a metà della strada, al passaggio dall’infanzia alla maturità? L’autrice scrive:

La catarsi è ritrovarsi vivi, nonostante tutto ancora esili creature in cammino (ibid.), 

allora, non si tratta di trovare la perdita, ma solo di “ritrovarsi”. Questo non è forse una specie di suicidio, un trovare il nostro cadavere, se la perdita riguarda una parte essenziale di noi stessi?

Cominciamo con il problema del tempo, nella cui struttura vedo una chiave importante per comprendere questa poesia lucida, ma complessa. L’entrare in contatto con la perdita accade, si propone all’attenzione nella figura degli istanti, delle “volte”. Ma che cosa significa la “volta”. Il dizionario dà questo significato: “momento in cui a qualcuno tocca o spetta di fare una cosa”, ma anche “occasione favorevole, momento opportuno”. Se qualcuno viene a contatto con qualcun altro o con qualcosa, questo è il momento di un incontro, dove si profila un “tra”, una “relazione” a “distanza”, ma che avviene nell’insieme; un tra nel senso che siamo temporalmente e spazialmente nel mezzo di una vita prima che avvenga qualcosa e aspettiamo il kairos, il momento giusto per dire o fare. Tutto questo è implicito nei versi di D’Amato

l’istante di silenzio soluto
perfezione dei mondi
incontrati una sola volta,
l’istante che prepara l’aprirsi della piena
dove poi non c’è un volto da salvare
ma la sola ragione è la furia che affonda (p. 15).

Ma l’istante è uno solo, un momento isolato. Come è possibile che questo momento tanto fragile abbia anche la capacità di contenere la pienezza (“l’aprirsi della piena” dove non si ha bisogno più di salvare niente dall’affondamento), la piena del “silenzio soluto”? La risposta a questa domanda sta all’inizio della prima strofa della poesia da cui abbiamo citato e nella strofa successiva:

A trent’anni capii che l’unica calma
non dico gioia non dico
o no!
non dico quiete, maturità raggiunta –

l’unica calma era scrivere.
A volte. (Ibid.) 

Ma come è possibile allora che questo silenzio, che questa “unica calma” avvenga “a volte”, ossia non una volta, ma molte volte, quando si tratta della silenziosità dello scrivere? Da un canto, abbiamo l’impressione che la “volta” implichi una ripetizione degli istanti in modo tale che ogni volta si dia come se fosse la stessa volta; la stessa cosa ancora una volta. E per questo motivo le “volte” sono – in un certo grado – contabili (prima, seconda, terza volta, ecc.). Ma d’altro canto sappiamo paradossalmente che ogni istante è unico, che ogni volta è un’altra volta non reiterabile, con il risultato che la stessa cosa non è mai la stessa e non riviene mai, è fuggita infinitamente. Se l’aspettiamo (come un kairos) sperimenteremo un ritardo all’infinito che viene dalla natura delle cose stesse. Allora cominciamo a capire che questa parola “volta” è la traccia di un ritardo, di un ritiro essenziale dei momenti della nostra vita, la traccia di uno spostarsi, di uno scivolare (forse anche di un cadere). La “volta” è sempre differente. I tedeschi dicono in proposito: “Einmal ist keinmal”: “una volta è come nessuna volta”. La volta è un niente. Scrivere poesia è seguire le tracce di questo niente, di questa nessuna volta, del ritardo di un evento che si inserisce tra gli altri, col risultato che il perduto sfugge alla presa, ancora una volta. Una caccia impossibile di un tempo perduto, della perdita stessa, ma che ogni volta lascia la traccia della sua assenza, del suo silenzio, della sua nullità come “volta”. Il ritardo di qualcosa che non è mai arrivato, oppure di una cosa che, arrivando di nuovo, non sarà mai la stessa cosa determina la temporalità dei vari momenti.

Così scrive D’Amato:

Lo capii tardi perché tutto era da sempre
in ritardo sulla via degli infuocati
bottoni urlante giovinezza –

Tutto in ritardo (ibid.). 

Comprendiamo adesso che cosa significa la pienezza: una pienezza delle cose al cui sguardo la poesia apre i nostri occhi. L’essenza della “volta” non è il “c’era una volta” nostalgico, ma è sempre quel “un’altra volta” del ritardo, le “molte volte”, una pienezza di “volte”, tutte in una volta. Ma anche una volta per tutte, l’ora del fatto avvenuto. La pienezza di “una volta o l’altra” riempie il vuoto dell’essere di trent’anni, perché scrivendo versi si ha trent’anni e questo avere è un avere “a volte”. Nella poesia di D’Amato il tempo stesso sta in ritardo è così gli istanti si svolgono, si volgono, si trasfigurano, cambiano tutti i loro valori. L’ultima riga misteriosa e paradigmatica di questa poesia traccia una nuova curva o una s/volta all’interno di questo tableau, dove tutte le cose sono già trasformate, ma così anche giunte ad una triste tranquillità.

La prima riga aveva sempre cento anni. (p. 16) 

Quest’ultima riga esprime qualcosa sulla prima riga, che nel momento della scrittura aveva sempre cent’anni, ossia la prima riga non è mai la prima, magari è addirittura l’ultima. Questo non significa forse che non c’è alcuna differenza tra la prima volta e l’ultima volta? Ma dobbiamo anche aggiungere che questa indifferenza delle volte, del ritardo – il fatto cioè che ogni volta è una volta e insieme un’altra volta, uno o molto allo stesso tempo –, questo fermarsi del movimento del tempo fa una differenza, una grande differenza, oppure possiamo anche dire che questo “ritardo d’ispirazione” è l’ispirazione stessa.

Anche in un’altra poesia “la prima volta” e l’“ultima volta” si scambiano di posto dal punto di vista del movimento sospeso degli istanti in questione.

L’ultima volta che ti ho visto eri vestita d’alloro
una frase cadeva era la fine di febbraio
in un errore marzo si preparava alla pioggia.
[…]
Poi cosa venne se non la seconda la terza la quarta
l’ultima volta, cosa avvenne se tu eri una pazza
io una camicia, una ninnananna ti piangeva dalle mani
se l’ultima volta è il primo giorno da quando
non ti ho mai più incontrata. (p. 13) 

Qui l’ultima volta è l’ultima delle altre volte, di una serie di volte che vengono fin qui, fin a questo momento, ma l’ultima volta è anche “il primo giorno”, da cui comincia un altro spazio di tempo. Lo stesso istante unisce il prima e il dopo, la frazione del tempo ripresenta possibilmente tutto il tempo.

A questo punto vediamo più chiaramente come D’Amato reinventa la temporalità della sua vita come una auto-poiesis: per lei l’istante rappresenta il tutto, tutto ciò che ha vissuto in questi trent’anni. L’istante è la prefigurazione di questa “somma”, ma anche il momento di trasfigurazione, in altre parole la rappresentazione quasi pittorica di tutti gli eventi. L’evento non c’è se non è dato in un istante assoluto, come ad esempio l’ora diviene imprescindibile, indipendente e per sé di contro al giorno che invece la contiene per ridargli vigore:

È l’arrivo di un fatto vero
e lo senti per la prima volta intero
[…]
Ora d’assoluto non c’è che un giorno. (p. 22) 

Non c’è sempre un’identità spezzata per la nostra esistenza nel mondo! Non sempre una storia o un racconto ambiguo dai caratteri fluidi crea un evento riferendosi a se stesso in senso tragico. Ma questa poesia significa anche un elogio della in-finitezza, della “metà strada”:

e accanto al fuoco è vero
che una metà è più completa
di un intero paradiso. (p. 38) 

Il rapporto della metà, della parte, al tutto, di “una volta” a “tutte le volte” non è un rapporto topologico puro, ma anche un rapporto esistenziale in cui il tutto sente la colpa della “volta” come qualcosa di impresso sul tutto che lo fa tremare, come una ricreazione senza paragone nella poesia: “Conservano un cuore a Varsavia”:

sia benedetta la pensione e i pazzi
in questa capanna di tumulti
dove sigilla la neve sul volto
una canzone infine questa l’anima
del mondo fermare il chicco di neve
nel fremito del tutto (p. 37). 

Il mezzo poetico e retorico per esprimere questo rapporto esistenziale della parte al tutto, dell’istante ai “trent’anni” (che a sua volta può essere solo la metà della vita intera) è sicuramente la sineddoche (la parte per il tutto) oppure la metonimia (la causa per l’effetto o l’astratto per il concreto) che D’Amato usa abilmente – insieme con la metafora. Sulla base dei suoi riferimenti alla vita quotidiana si può paragonare questa poesia con la poesia di Walt Whitman (la poesia della vita ordinaria), di Majakovskij (i problemi della vita quotidiana) e di Blaise Cendrars (il senso immaginativo della realtà stessa). Ma in contrasto con questi poeti, nei versi dei quali affiorano grandi avvenimenti storici e grandi questioni del mondo come la democrazia, la rivoluzione, la guerra ecc., D’Amato tocca gli istanti e i dettagli della nostra vita di ogni giorno, trovandovi il tragico e il paradisiaco allo stesso tempo, e riscopre l’individuale, che oggi è divenuto inseparabile dagli eventi universali del mondo, in un modo per cui il lontano diviene sempre più vicino, al di là di tutti i confini regionali, politici e culturali delle nostre vite.

Se vogliamo tirare una conclusione da quanto abbiamo scritto, possiamo dire solo questo: la poetessa ha avuto questi trent’anni nel mezzo del suo viaggio dall’infanzia alla maturità. Ma se c’è un senso di questo itinerario, questo non può essere né l’infanzia (che è per tutta la vita perduta), né la maturità (che può essere sempre più perfetta), ma la fedeltà a “una volta” dell’amicizia e dell’amore per “tutte le volte”, ossia la fedeltà a se stessa.

In questa fedeltà hic et nunc il futuro è l’evento.

 

Federica D’Amato, Avere trent’anni, [Pescara], Ianieri Editore, 2013 (Collana di poesia L’Angiolo), ISBN 978 88 97417 57 6, € 8,50