L’uomo senza quantità. Decostruzione del privilegio e anarchismo socio-rivoluzionario

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Il borghese è soprattutto munito di un’arma contro la quale il proletario resterà sempre senza possibilità di difesa, finché quest’arma, il capitale, che è diventata ormai in tutti i paesi civili l’agente principale della produzione industriale, finché questo alimentatore del lavoro sarà rivolto contro di lui…

Michail A. Bakunin, Tre conferenze sull’anarchia e altri scritti sulla Comune (1871), Roma, manifestolibri, 2013, p. 46.

Si sapeva quali erano state le frequentazioni di suo padre, dunque si sapeva quali erano le sue, con quali persone era “in grado” di avere rapporti. […] Volendo a tutti i costi applicare a Swann un coefficiente sociale che lo distinguesse fra tutti i figli di agenti di cambio economicamente equivalenti ai suoi genitori, tale coefficiente sarebbe stato per lui leggermente inferiore dal momento che, molto semplice di modi e da sempre affetto da una “cotta” per gli oggetti antichi e la pittura, egli abitava allora in una vecchia palazzina dove stipava le sue collezioni e che mia nonna sognava di visitare, ma che si affacciava sul quai d’Orleans, quartiere dove la mia prozia trovava indecente aver casa…

Marcel Proust, Dalla parte di Swann (1913), in Alla ricerca del tempo perduto (1913/27), Milano, Mondadori, 2014, p. 14.

Il principio di equa opportunità può essere realizzato soltanto in modo imperfetto, almeno fino a quando esisterà qualche forma di famiglia…

John Rawls, Una teoria della giustizia (1971/99), § 12, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 87.

 

Come ho già avuto più volte occasione di sostenere in precedenti interventi, il cosiddetto “discorso preliminare sul privilegio” – decostruzione antropologica di ogni principio di destinalità sociale delle traiettorie esistenziali dei gruppi come degli individui che li compongono – trova, fuor di ogni ragionevole dubbio, una sua non trascurabile anticipazione storica in alcune precise prese di posizione politiche (e topiche) che appartennero all’anarchismo rivoluzionario ottocentesco di Michail A. Bakunin.

Fino a un certo livello (solo preliminare) di orchestrazione teorica della questione, il discorso sull’origine storica del disonore dei più (e, per converso, del privilegio dei pochi) non può che rinviare alla rivolta anarchica contro ogni organizzazione dall’alto della lotta per l’emancipazione sociale e contro il perpetuarsi, da una generazione dominante all’altra, del dispositivo socialmente discriminatorio dell’ereditarietà dei capitali economici e materiali.

Al tempo stesso, la decostruzione del regime antropologico del privilegio non può che prendere consapevolmente le distanze dai limiti storici e ideologici più contingenti che si riscontrano come ancora operanti nell’impostazione ideologica rivoluzionaria bakuniana.

In primo luogo, per la sua incapacità strutturale (che in questo lo accumuna anche alla teoria rivoluzionaria marxiana) di cogliere il differenziarsi, nelle loro reciproche relazioni oggettive, dei capitali ereditari che, trasmigrando teleologicamente da una generazione all’altra, riproducono e rinsaldano i rapporti sociali oggettivi di dominazione delle élites del potere volta per volta egemoni a danno delle classi dominate di turno.

Occorre quindi aggiornare, rivedere, integrare e riscrivere da cima a fondo dal punto di vista antropologico, il programma di lotta politica contro il dominio delle minoranze privilegiate redatto dall’anarchismo rivoluzionario ottocentesco alla luce di alcune delle acquisizioni teoriche più significative e durature fornite, in primo luogo, dalla teoria sociologica della pratica (Pierre Bourdieu), dalla dottrina neo-contrattualistica della giustizia come equità (John Rawls), del rovesciamento in senso politico-sovversivo della chiusura nel privato dei gruppi di psicoterapia (James Hillman) e della timotica psico-politica (Peter Sloterdijk).

Le classi sociali privilegiate (e solo di conseguenza dominanti), da tempo immemorabile, non si riproducono più da una generazione all’altra soltanto facendo ricorso alla trasmissione in eredità, propria alle loro consorterie economico-affettive di riferimento, dei soli capitali economici e finanziari ma anche – e soprattutto – in forza del trasferimento in senso lato “genetico”, dei capitali simbolici, ossia dei loro capitali sociali e culturali, entrambi egualmente ereditati.

Spiega bene questo passaggio Pierre Bourdieu:

Il rischio implicito nelle posizioni più arrischiate diminuisce, soggettivamente ed oggettivamente, nella misura in cui aumenta il capitale ereditario, le probabilità di profitto aumentano quando aumenta il capitale, in qualsiasi forma – cioè, non solo il capitale economico, che consente di aspettare l’avvenire delle posizioni dell’avvenire, o il capitale culturale, che permette di creare questo avvenire, con quei colpi di mano simbolici indispensabili per produrre ed imporre prodotti nuovi, ma, forse, soprattutto il capitale sociale, che, in questi settori poco istituzionalizzati, in cui il reclutamento avviene per cooptazione, consente di entrare in lizza o di rimanervi.1

Sotto questo aspetto, tra l’altro, la teoria sull’importanza dei capitali in funzione dell’affermazione sociale di Bourdieu è stata in parte considerevole anticipata dalla dottrina delle élite di Gaetano Mosca:

Una prevalenza assoluta della tendenza democratica potrebbe aver luogo se i figli non ereditassero i mezzi, le relazioni e le cognizioni che hanno servito ai padri per conseguire i posti migliori. Si è voluta indicare la proprietà privata della terra, dei capitali e di tutti gli strumenti di produzione come causa precipua dell’ereditarietà dell’influenza politica. Non si può negare che in questa affermazione vi sia una parte di vero, ma crediamo di avere già dimostrato che, se la proprietà di questi strumenti venisse attribuita allo Stato, coloro che amministrano lo Stato, i quali sono sempre una minoranza, cumulando il potere economico e quello politico disporrebbero di larghissimi mezzi per agevolare la carriera dei propri figli ed anche delle persone da loro protette.2

Non sarebbe di conseguenza una “banale” – si fa per dire – questione di accumulazione di natura privata o, al contrario, di origine pubblica di capitali virtualmente ereditari. L’accumulazione (e la conseguente trasmissione in eredità, impareggiabile sorgente del privilegio ascritto) del plusvalore sociale può avvenire anche laddove, come si verificava in una burocrazia statale del vecchio realismo socialista sovietico, i poteri politici ed economici accumulati sarebbero “solo” – anche qui, si fa per dire – quelli legittimati dal Popolo, dalla Rivoluzione, dal Partito, dal Leader carismatico, ecc. 

È di conseguenza la contingente e immeritata accumulazione di capitali che genera il regime delprivilegio, e quindi l’ereditarietà sociale, e quindi il vantaggio sociale immeritato, e quindi l’ingiustiziasociale endemica, e quindi la radicale impossibilità dei disonoratidi ricevere riconoscimento da parte della ristretta élite di coloro che, in conseguenza della loro nascita contingente, possono far affidamento sull’eredità di numerosi tipi di capitale, ecc.

Ma è soprattutto l’eredità transgenerazionale dei capitali che determina in modo del tutto contingente e moralmente arbitrario – ossia in maniera non logicamente deducibile da un principio ontologico o morale necessario o, in alternativa, a prescindere da ogni considerazione etica di merito e di giustizia distributiva – il destino di integrazione o di esclusione sociale di ogni nuova venuta al mondo che sia propriamente definibile come umana.

Le “classi agiate”, accumulatrici a scopo di onore e di distinzione sociale dei massimi capitali finanziari, hanno avvalorato ideologicamente soprattutto il momento dell’eredità del capitale, a scapito dell’impegno attivo individuale in vista del suo accumulo:

Con un ulteriore raffinamento, la ricchezza acquistata passivamente per eredità dagli avi o da altri progenitori diventa adesso persino più onorifica che la ricchezza acquistata dal possessore con sforzi.3

L’eredità dei capitali materiali e simbolici costituisce la porzione privilegiata di un organismo sociale double face la cui altra porzione è costituita dall’eredità materiale e simbolica della propria condizione disonorata, in quanto economicamente e spiritualmente dominata e quindi priva di capitali socialmente riconosciuti ed efficaci in funzione del rispetto, del prestigio e del riconoscimento sociale.

Di tutto ciò sembrava essere perfettamente consapevole il Mahatma Gandhi nei suoi urticanti discorsi politici: «L’espletamento della propria funzione ereditaria è prima di tutto un dovere, poi, naturalmente, anche una fonte di guadagno dei mezzi di sussistenza».4

Poco importa ai fini della lotta contro il regime del privilegio che, come insegna lo studio antropologico della società castale indiana, sia possibile istituire un nesso tra la prassi dell’eredità sociale e il mantenimento del principio della divisione del lavoro: «Si istituisce l’eredità per eliminare il rischio – in verità immaginario – di una scomparsa della divisione del lavoro».5

Se anche il nesso causale eredità sociale/divisione del lavoro fosse storicamente comprovato e non soltanto immaginario, non lo sarebbe altrettanto il fatto che il fine utilitaristico della divisione del lavoro, in vista della massimizzazione dei profitti e dei vantaggi economici per i proprietari dei mezzi di produzione, sia il frutto di una negoziazione paritaria (e in senso lato “democratica”) tra coloro che ne hanno ricevuto e ne ricevono evidenti benefici e coloro che non possono che subirla, a loro rischio e pericolo.

Dal punto di osservazione della decostruzione del regime antropologico del privilegio, una delle più insopportabili e irricevibili “lezioni” etiche impartite dall’esistenzialismo europeo sarà quindi da individuarsi nella metafora heideggeriana (e solo in seguito sartriana) della gettatezza nell’esistenza (Geworfenheit).

Non l’“Uomo” con la U maiuscola – non l’uomo in quanto tale, il Da-Sein di cui parla l’esistenzialismo novecentesco – sarebbe da considerarsi come un ente gettato dall’essere nella sua finitezza ontologica.

Soltanto gli uomini senza eredità di capitali, o tutt’al più con in dotazione capitali irrilevanti ai fini di una adeguata ammortizzazione della loro caduta antropologica nell’esistenza del mondo sociale oggettivamente esistente, si possono effettivamente definire come “gettati nell’esistenza”.

Se si vuole lasciare dischiuso almeno uno spiraglio di emancipazione sociale e di riconoscimento antropologico alle moltitudini dei disonorati, è necessario prima mettere a punto degli strumenti di lotta letterale e simbolica, contro l’accumulo arbitrario e indiscriminato dei capitali, di nuova generazione “2.0”.

Occorre procurarsi dispositivi d’offensiva antropologica sofisticati al punto giusto, in grado di contestare/contrastare l’indebita accumulazione e la trasmissione arbitraria in eredità dei capitali sociali e culturali (vere e proprie fonti primigenie dell’“energia sociale” secondo Bourdieu) ai soliti predestinati al dominio, da una élite del privilegio a un’altra e così via.

Vale così la pena di studiare più a fondo e in modo ben più sistematico l’origine storica e la redistribuzione dei capitali sociali e, insieme a essa, quella dei dispositivi istituzionali e simbolici attraverso i quali essi si accumulano e si trasmettono da una generazione all’altra.

Così come è altrettanto necessario liberarsi un volta per tutte dall’idea ingenua e fuorviante, propria del senso comune anarchico corrente, secondo la quale, per i lottatori dominati, sia più che sufficiente riuscire a “mettere le mani” sui forzieri economici posseduti dalle classi dominanti.

Occorre prendere di mira, nei modi più adeguati ed efficaci possibili, i forzieri sociali e simbolici sulla base del cui possesso si costruiscono i privilegi ereditari (e ogni vero privilegio è per definizione ereditario) di cui godono le élites dominanti.

Questa è forse la sfida più difficile da accogliere e da articolare in un dettagliato e concreto piano di lotta antropologica dal basso contro il dominio antropologico dei privilegiati a danno dei non-privilegiati.

Si dovrà partire da una plausibile determinazione della genesi storico-antropologica dei capitali sociali e simbolici. E non soltanto a livello delle diverse classi sociali dominanti, ma sul piano biografico dei singoli individui privilegiati contro i quali si voglia rivolgere la nostra lotta.

Un ruolo di primo piano, inevitabilmente, sembra quello esercitato dalla famiglia di origine.

La famiglia patriarcale sarebbe in sé e per sé il luogo primario di produzione, ri-produzione e infine di accumulazione dei capitali (al primo posto di quelli sociali) come, tra gli altri, è stato efficacemente messo in luce da Wilhelm Reich:

La famiglia patriarcale è la sede strutturale e ideologica della riproduzione di ogni ordinamento sociale basato su princìpi autoritari. L’abolizione di questo ordinamento minava automaticamente l’istituto familiare.6

La rete dei contatti efficaci di cui un dato individuo si trova effettivamente in possesso trova la sua sorgente primaria nella struttura sociale di partenza del proprio nucleo familiare di base. È il plusvalore dei contatti socialmente efficaci – il “coefficiente sociale” di cui parla Marcel Proust – più ancora del medesimo patrimonio economico su cui si concentra lo sguardo del senso comune rivoluzionario e non, che in primo luogo si eredita dalla propria famiglia o dal clan di provenienza.

Se, come ho più volte ribadito, nell’anarchismo rivoluzionario di Michail Bakunin non si riscontra una chiara presa di consapevolezza dell’importanza dell’ereditarietà dei capitali sociali per il mantenimento della società divisa in classi e dei privilegi su cui essa si regge, una eccezione sembra essere messa a nostra disposizione dal Catechismo del rivoluzionario, storicamente attribuito a un giovanissimo collaboratore (e infine acerrimo antagonista) dello stesso Bakunin come Sergej Nečaev.

Nel Catechismo del rivoluzionario(II, 18), osserva Nečaev a proposito delle classi sociali dominanti:

Il bestiame altolocato, cioè gli individui che non si distinguono né per intelligenza, né per energia, ma che, grazie alla posizione che occupano, godono di ricchezze, di conoscenze, di influenza e di potere. Bisogna sfruttarli in tutti i modi, imbrogliarli, disorientarli e, dopo essersi possibilmente impossessati dei loro sporchi segreti, farne i nostri schiavi. Il loro potere, la loro influenza, le loro conoscenze, la loro ricchezza e la loro forza diventeranno così un tesoro inesauribile e un grande contributo per varie imprese.7

Si tratterebbe soprattutto di impossessarsi degli “sporchi segreti” custoditi dal “bestiame altolocato”, facendo ricorso a tutte le risorse messe machiavellicamente a disposizione dall’imbroglio sistematico, dal disorientamento metodico e dalla lusinga elevata a sistema di relazione. Si cerca in tal modo di entrare in possesso del loro potere, tramite la conquista della loro influenza e della loro rete di conoscenze attive, senza rinunciare ovviamente all’accaparramento delle loro risorse materiali.

Il Catechismo evita tuttavia di scendere nei dettagli circa le strategie che il rivoluzionario di professione dovrebbe adottare al fine di sottrarre le conoscenze strategiche e l’influenza sociale che ne deriva al suo acerrimo nemico storico.

In che modo, tramite il disorientamento e l’inganno sistematici, sarebbe possibile sottrarre il capitale sociale a chi lo detiene per status ascritto?

Nel Catechismo del rivoluzionario non si trova una risposta dettagliata a questa che, secondo il discorso sul privilegio, rimane la questione decisiva: il trasferimento o, nel caso non sia realizzabile, l’azzeramento dei capitali sociali di coloro che, sulla base del loro possesso ereditario, dominano le classi sociali che ne vengono escluse.

Di conseguenza occorre operare la distinzione programmatica e operativa tra relazioni incidentali e relazioni costruite:

la distinzione tra relazioni incidentali – relazioni che siano cioè il sottoprodotto di qualcos’altro, ad esempio relazioni che mettano insieme quelli che erano i compagni di scuola del passato – e relazioni “costruite” con esplicite finalità relazionali, nonché quella tra relazioni aventi una valenza solo informativa – in cui i partecipanti si scambiano soltanto informazioni, ma non si vendono l’un l’altro le informazioni (in cambio di denaro o altro) – e relazioni in cui avvengono invece veri e propri scambi, di mercato o anche solo di “favori”.8

Mentre è pur sempre possibile per un individuo qualsiasi, in linea di massima, accumulare con le proprie forze un qualche principio di capitale economico (p. es. attraverso il risparmio, una serie di rinunce, una vincita fortunata, un’eredità…) e un vero e proprio capitale culturale (p. es. mediante letture spontanee, studi formali, autodidattismo…), altrettanto non potrà verificarsi nel caso della costituzione di una rete di conoscenze sociali efficaci. Ossia il network di quelle conoscenze oggettive e attive il cui possesso o la cui assenza possono, rispettivamente, favorire o impedire sul nascere la realizzazione di un progetto di vita all’altezza dei nostri bisogni e delle nostre competenze effettive.

I contatti utili a ottenere benefici e vantaggi efficaci nella società reale si ereditano o direttamente dalla famiglia o dal proprio clan di provenienza. Difficilmente si possono acquisire ex-novo, in caso di assenza di capitali sociali pregressi in quanto ereditari, per propria libera iniziativa, ecc.

Un esempio: se in base ai parametri di visibilità pubblica in vigore nella struttura di base della società attuale sono un emerito sconosciuto, nulla vieta in linea di massima che possa pur sempre riuscire a prendere la parola durante un pubblico dibattito (comizio, conferenza, convegno…) allo scopo di attirare l’attenzione di un notabile di turno che detiene ingenti capitali sociali. (Notabile, poniamo, la cui conoscenza diretta e una cui “parola buona” a mio vantaggio sarebbero effettivamente capaci, a vario titolo, di cambiarmi la vita, ecc.) Se anche questo individuo eminente mi dedicasse per un istante la sua preziosa attenzione e mi riconoscesse una certa quale simpatia personale o, anche, se gradisse la pregnanza nel mio intervento, questi miei semplici espedienti di primo contatto non mi avranno reso a nessun titolo socialmente creditore nei suoi confronti.

Non potrò, di conseguenza, realisticamente attendermi che, una volta “agganciatolo” tramite una mia domanda particolarmente interessante, o mediante la messa in atto di una mia cortesia estemporanea (p. es.: gli porgo un bicchiere d’acqua, gli raccolgo la penna che gli è caduta, ecc.) il notabile di turno debba sentirsi in obbligo di ricambiare. Poniamo il caso, segnalandomi a un datore di lavoro facente parte della sua rete di relazioni appetibile o anche facendo il mio nome presso un editore con il quale mi piacerebbe pubblicare, ecc.

Nella struttura di base della società oggettivamente esistente, l’unica alternativa all’eredità familiare contingente (e come tale immeritata, secondo il suggerimento di Rawls) dei capitali sociali sembra ancora consistere nel loro acquisto tramite il dispositivo antropologico clientelare della raccomandazione “previo pagamento brevi manu” (D.L. Zinn): un disonorato privo di capitali sociali efficaci compra letteralmente un contatto efficace da un privilegiato (erede senza merito di capitali sociali), che gliene cede una porzione chiedendo in cambio denaro, prestazioni a vario titolo “in natura” (prestazioni sessuali, lavori manuali, corvée, voto di scambio, ecc.).

Anche in questo caso, il capitale sociale viene ceduto in relazione al capitale economico previamente posseduto, anche se solo fino a certi limiti. Tutto questo dispositivo risultava già noto fin dal primissimo albeggiare dello spirito imprenditoriale borghese: «Sono atte le ricchezze ad acquistare amistà e lodo, servendo a chi ha bisogno».9

In questo dispositivo di dare/avere/ricambiare, chi si trova messo in condizioni di erogare capitali sociali (il privilegiato) ne esce ancora più socialmente confermato nella propria posizione onorata e onorabile di privilegio ascritto.

Chi, al contrario, si trova nella necessità di dover chiedere/restituire il favore ricevuto (il disonorato), viene ancora di più fatalmente risospinto ed etichettato nei ristretti confini sociali del proprio disonore antropologico di partenza, rimandando all’intera collettività (plasmata dai valori sociali imposti dalla minoranza privilegiata) l’immagine di un ancora più marcato senso di fragilità, debolezza, povertà, dipendenza, passività della sua statica posizione sociale:

Quelli che sono sprovvisti di capitale sono tenuti, sia fisicamente sia simbolicamente, a distanza dai beni socialmente più rari, e condannati a frequentare le persone e i beni più indesiderabili e meno rari. La carenza di capitale intensifica l’esperienza della finitezza: incatena a un luogo.10

Il culmine differenziante dei processi ereditari viene infatti raggiunto proprio nella trasmissione in eredità, da una generazione all’altra, della rete dei capitali sociali attivi, delle “conoscenze” personali e oggettivamente spendibili e ricambiabili nel commercio sociale do ut des.

In questo senso – verrebbe da dire, per reazione uguale e contraria – i singoli disonorati, incontrandosi, dovrebbero mirare non tanto a costituire una famiglia “naturale” che, nata dalla condivisione sentimentale “spontanea” di due vite già in partenza disonorate, non potrebbe che costituire la somma algebrica tra due voragini antropologiche di assenza (o penuria) strutturale di capitali sociali efficaci.

L’organizzazione in verticale frutto di calcolo minuzioso dei vantaggi sociali della famiglia socialmente dominante (aristocratica o borghese che sia), accumulo di capitali e di privilegi da trasmettere in eredità alle nuove generazioni di Delfini, dovrebbe essere contrastata dalla costituzione in orizzontale di reti affettive/combattenti di disonorati che inizino a mettere sistematicamente in condivisione le loro acquisizioni cognitive sul funzionamento delle leggi del privilegio/esclusione, la loro costitutiva e irrinunciabile rabbia antropologica, e le loro esperienze (ferite, sconfitte, ma anche micro-vittorie o parziali rivincite, qualora ci siano state) in vista della costituzione di una zona temporaneamente autonoma dall’influsso socio-antropologico delle logiche gerarchizzanti del privilegio.

Solo nei margini di quelle zone (inizialmente) temporanee di autonomia antropologica, al riparo dall’influsso delle logiche e delle simboliche del privilegio, sarebbe possibile pianificare, pur se a sprazzi e a intermittenza, il progetto a lungo termine di un differente ordine antropologico di paradigmi di esistenza e di condizioni sociali di condivisione del senso ontologico dello stare assieme tra quei disonorati che non intendono cogliere la prima occasione buona per spostarsi nella zona grigia del tradimento antropologico, sulla portata storica e antropologica della quale ha riflettuto in modo definitivo Primo Levi nella sua opera.11

Nella cornice della lotta antropologica contro il regime del privilegio, quella di “zona grigia” rimane la metafora in qualche modo definitiva di tutto ciò che, con la sua semplice presenza, contribuisce a decretare il fallimento storico di ogni rivoluzione dall’alto e la difficoltà o persino l’impossibilità strutturale di ogni organizzazione dal basso della rivolta dei disonorati.

Da che mondo è mondo, pochi ricchi governano la società dall’alto verso il basso, all’unico scopo di preservare i propri privilegi ascritti, mentre la gran massa dell’umanità rimane loro sottomessa e gettata nella più totale e mortificante condizione di anonimato.

Sarebbe tipico della condizione dominata aspirare non tanto all’abolizione del regime storico della deprivazione antropologica delle loro possibilità di autorealizzazione, quanto di realizzare una loro ascesa ai livelli delle élites che le opprimono.

Questa potrebbe essere considerata, d’altra parte, come la visione tipica di una certa concezione liberal ancora in fasce dell’emancipazione sociale. Visione che ritiene di potere mantenere intatto il regime antropologico del privilegio illudendo una porzione di dominati circa la possibilità che sarebbe loro riservata di ascendere alla condizione di dominanti. Poco importa se questo non si verifica, tanto la responsabilità del fallimento non ricade sull’ingiustizia strutturale del regime antropologico del privilegio, ma sulla contingente incapacità del singolo aspirante a una posizione di vantaggio.

I governi del mondo, sono città e governi dei ricchi; le masse non sono composte da uomini, ma da uomini poveri, ovvero uomini che aspirano a essere ricchi; ecco il ridicolo di questa classe: nonostante le pene, il sudore e l’accanimento non arriva da nessuna parte; quando tutto è stato fatto è stato fatto per niente. Essi sono come chi interrompe la conversazione per fare il proprio discorso e poi dimentichi quel che stava per dire. Ovunque l’occhio è colpito dall’apparenza di una società senza meta, di nazioni senza meta. Erano dunque i fini della natura così grandi e irresistibili da esigere questo enorme sacrificio dagli uomini?12

I disonorati devono imparare sulla loro pelle (e non soltanto nelle loro teste) a non confondere, nel loro cuore e tramite la loro mente, i loro pur legittimi bisogni di una vita sentimentale, sessuale e affettiva piena e appagante con la necessità di non sottomettere le loro esistenze, in scala minore, al servizio dei modelli di unione sociale che funzionano come accumulatori di privilegi solo qualora si salga molto in alto nella gerarchia della struttura di base della società realmente esistente.

Il più delle volte i modelli affettivi e sessuali circolanti nella società dominata dal privilegio e umiliata dal disonore sono quelli imposti, dall’alto verso il basso, dalle diverse élites del privilegio. E quasi esclusivamente per mere ragioni commerciali, sotto l’ispirazione del Dio-marketing.

Anche il “cuore” dei disonorati, nei secoli e forse persino nei millenni, è stato educato a funzionare ingenuamente in base a quanto stabilito in partenza dagli interessi (materiali e simbolici) di parte e dai dettami ideologici fissati dalle diverse élites del potere.

Occorre imparare ad amare in modo diverso. Non è facile, senza dubbio, ma occorre decontaminare il proprio immaginario erotico-sociale dall’influsso subdolo dei modelli fissati dai vari sistemi di riproduzione sociale imposti (ovviamente dall’alto verso il basso) dalla società dello spettacolo: moda, cinema, loisir, vario intrattenimento, musica commerciale, letteratura di genere, ecc.

La battaglia contro il regime del privilegio deve, quantomeno nella sua prima fase, fare largo affidamento sugli strumenti storici, sociologici, antropologici e psicologici di ricostruzione/decostruzione archeologica di ogni singola posizione privilegiata contro la quale si è deciso di combattere.

Si dovrà partire dall’analisi dell’auto-narrazione che il singolo individuo privilegiato fornisce di sé, direttamente o indirettamente.

Spesso l’auto-rappresentazione biografica del singolo individuo si appoggia, in larga misura del tutto inconsapevolmente, sull’autorappresentazione che gli mette prontamente a disposizione il suo gruppo sociale di appartenenza e di riferimento.

Se si tratta dell’autorappresentazione mitica (nel senso di ideologica) che la borghesia industriale ha fornito di sé e delle proprie “gloriose” e rivoluzionarie radici storiche – per inciso, ogni rivoluzione borghese tende ad auto-raffigurarsi come “Glorious Revolution”… – a partire dal capitalismo puritano statunitense, non può non notarsi come essa culmini nella nota tesi teologica dell’autocreazione sociale della propria posizione di vantaggio. Il Self-made man, “l’uomo che si è fatto da solo”, è la personificazione di senso comune del motivo teologico cristiano dell’autocreazione ex-nihilo.

Occorre partire dalla decostruzione storico-antropologica meticolosa e distaccata di ogni singolo tentativo di presentare la propria posizione sociale privilegiata, da parte dei membri delle classi dominanti, come miracoloso effetto di una auto-poiesi sociale spontanea.

Nessuno – nemmeno il ricco borghese – sociologicamente parlando, può onestamente dimostrare, dati storici alla mano, di essere approdato alla posizione sociale occupata solo con le proprie forze: o ci è nato, o vi è stato cooptato per ragioni di utilità e di calcolo da parte di chi già si trovava in alto prima di lui, o lo ha ereditato.

È tipico di chi occupa posizioni elevate voler convincere prima di tutto se stessi, da un lato, di esserci arrivati facendo affidamento sui propri mezzi e, dall’altro, di meritare dal punto di vista morale la posizione sociale occupata per via ereditaria.

Se nel concetto di “mezzi propri” si facessero surrettiziamente rientrare l’ereditarietà sociale o la propria cooptazione, si alimenterebbe l’illusione di essersi fatti da soli, ma è una operazione destinata a durare poco o niente sotto l’assalto della decostruzione del regime antropologico del privilegio:

È chiaro che non si entra in questo cerchio magico con una decisione istantanea della volontà, ma soltanto con la nascita o con un lento processo di cooptazione e di iniziazione che equivale ad una seconda nascita.13

L’altra faccia dell’auto-rappresentazione ideologica all’insegna dell’auto-poiesi di classe è la considerazione sprezzante e svalutativa delle classi dominate, tipica delle élites privilegiate, che dal loro punto di vista sarebbero moralmente “colpevoli” o “responsabili” della condizione socialmente degradata e disonorata in cui si trovano.

Meglio di ogni altro l’ha espresso Céline:

Un padrone si sente sempre un po’ tranquillizzato dall’infamia dei suoi dipendenti. Lo schiavo dev’essere a ogni costo un po’ o anche molto spregevole. Un insieme di piccole, croniche tare morali e fisiche giustifica il destino che lo soverchia. La terra gira meglio così perché ognuno si trova al posto che si merita.14

 

Note con rimando automatico al testo

1 P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto (1979), trad. it. di G. Viale, presentazione di M. Santoro, Bologna, il Mulino, 2012, p. 365. Il corsivo è mio.

2 G. Mosca, Storia delle dottrine politiche (1937), Roma-Bari, Laterza, 1978, p. 303. I corsivi sono miei.

3 Th. Veblen, La teoria della classe agiata. Studio economico sulle istituzioni (1899), trad. it. e premessa di F. Ferrarotti, introduzione di F.L. Viano, prefazione di Ch. Wright Mills, Torino, Einaudi, 2014, pp. 26-27.

4 M.K. Gandhi, Harijan, 28 settembre 1934, pp. 260-261, trad. it. di L. Angelini, in La voce della verità (1968), Roma, Newton Compton, 1991, p. 290.

5 L. Dumont, Homo hierarchicus. Il sistema delle caste e le sue implicazioni (1966), § 13, trad. it. di D. Frigessi, Milano, Adelphi, 1991, p. 103.

6 W. Reich, La rivoluzione sessuale (1936), trad. it. di V. di Giuro, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 132.

7 In M. Confino, Il catechismo del rivoluzionario.Bakunin e l’affare Nečaev (1973), trad. it. di G. Bartoli, Milano, Adelphi, 2014, p. 129. Il corsivo è mio.

8 P. Sestito, “I diversi concetti di capitale sociale: differenze e similarità”, in G. de Blasioe P. Sestito (a cura di), Il capitale sociale. Che cos’è e che cosa spiega, Roma, Donzelli, 2011, p. 52.

9 Leon Battista Alberti, I libri della famiglia (1443), II, a cura di R. Romano e A. Tenenti, nuova edizione a cura di F. Furlan, Torino, Einaudi, 1994, p. 174.

10 P. Bourdieu,Effetti di luogo, trad. it. di P. Di Vittorio, in P. Bourdieu (a cura di), La miseria del mondo (1993), a cura di A. Petrillo e C. Tarantino, Milano, Mimesis, 2015, p. 192. Il corsivo è mio.

11 Cfr. p. es. P. Levi, Se questo è un uomo (1947/58), postfazione di C. Segre, Torino, Einaudi, 2005, p. 82; P. Levi, I sommersi e i salvati (1986), prefazione di T. Todorov, postfazione di W. Barberis, Torino, Einaudi, 2007, p. 29.

12 R.W. Emerson, Natura (1844), trad. it. di M. Matullo, introduzione di I. Tattoni, Roma, Donzelli, 2010, p. 90.

13 P. Bourdieu, Il senso pratico (1980), trad. it. di M. Piras, Roma, Armando, 2005, p. 106. Il corsivo è mio.

14 L.-F. Céline, Viaggio al termine della notte (1932), trad. it. di E. Ferrero, Milano, Corbaccio, 2011, p. 471.