LUOGHI non troppo COMUNI

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Il luogo comune è anzitutto una declinazione linguistica e insieme un tratto linguistico, un sintagma irrigidito, una parola doppia che in realtà può scriversi come parola unica.

I luoghi comuni sono le facili spiegazioni, gli stereotipi innocui e infondati insieme, gli idola che accettiamo passivamente senza soffermarci nemmeno un attimo a riflettere sulla loro validità. Non è sempre facile individuarli, perché «i luoghi considerati indiscutibili sono utilizzati senza essere espressi».1

Da tecnica formidabile di persuasione (ossia la retorica) e nozione comune all’umanità figlia del logos stoico nel mondo antico, il luogo comune è diventato locuzione volgare nella modernità, protesa a giustificarne l’inevitabilità e insieme a criticarne l’impianto, superandone il limite intrinseco di giudizio senza riflessione nel percorso che conduce alla verità-scienza. Ripetuto dal linguaggio collettivo, codificato, privo di spontaneità, il luogo comune rinvia nel tempo presente alla divisione sociale e politica della piazza, ad una condizione tipica dello spazio pubblico fisico e virtuale diviso in barriere linguistiche, sociali e culturali, in comparti ineguali e altrettanto distinti.

Nei luoghi e nei non luoghi virtuali e reali, privati e pubblici, di comunicazione e scambi, il comune è babelico, confuso, sovrapponibile, in un certo senso, anche «un’arma del potere e/o un’arma di seduzione per imprimere idee, valori e alibi che finiscono col funzionare come una vera natura mentale» (Roland Barthes) o addirittura come una seconda natura. Il luogo comune è anche il luogo fisico della banalità artistica che disvela la lucida consapevolezza da parte dell’artista-filosofo dell’inutilità e della banalità di ogni critica nell’orizzonte del mondo omologato dal consumismo universale. Andy Warhol è il grande filosofo pop artista del ’900 (Dal Lago) e nella sua arte i «luoghi comuni quotidiani dello star-system o della società dei consumi [...] non sono né [pienamente] approvati, né rifiutati [...], ma in qualche modo esasperati, spinti al parossismo»:2 si tratta, per Warhol, di appropriarsi per farne altro delle immagini della sfavillante «fantasmagoria delle merci» del mondo capitalista, e infine di «produrre un luogo comune esagerato, supplementare, un “luogo comune del luogo comune”»,3 il tutto senza esprimere alcun giudizio di valore né alcuna critica.

E in parallelo c’è un luogo “del” comune come luogo condiviso, come sapere diffuso (pur banale), il luogo comune come universale, cioè lo spazio comune il momento originario da cui può sorgere la confusione babelica, ma soprattutto ciò che è comune a tutti, perché no, i mercati rionali e/o i supermercati. Ora questo spazio rischia di dissolversi perché negli interstizi delle nostre metropoli si sviluppano spazi quasi uguali, anonimi, spazi atopici e privi di qualsiasi riferimento temporale. Sono i luoghi del tra che ognuno di noi attraversa durante la giornata e che si collocano indifferentemente nel centro e nelle periferie, al cui interno è difficile cogliere un modello di convivenza e di scambio.

Nella critica del luogo comune c’è brechtianamente la dissidenza e la resistenza. Tante questioni della contemporaneità, blog, rete, flessibilità, multiculturalismo, consulenza filosofica, sono un insieme di luoghi comuni che tendono ad esprimere lo stile di un’epoca. C’è, contemporaneamente, il desiderio di un pensiero che sia sempre più costruzione in comune, istitutivo dello spazio di comunanza tra uomini e cosmo, tra uomini e “oggetti”, tra flussi e desideri. Rileggendo il dizionario flaubertiano dei luoghi comuni, si impone una chiarificazione filosofica, oggi più che mai necessaria, anche per la nostra rivista.

 

Note

1 C. Perelman, L. Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Torino, Einaudi, 1989 (II ed.), p. 101.

2 G. Scarpetta, L'artificio. Estetica del XX secolo, trad. it. di D. Bellomo, Milano, SugarCo, 1991, p. 99.

3 Ibid.