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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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Fiorinda Li Vigni, Immaginazione: tra mimesis e poiesis

 

 

Fiorinda Li Vigni (a cura di)

Immaginazione: tra mimesis e poiesis

 

 

Roma, Fattore Umano Edizioni,
2015 (La pietra nell’anima), pp. 178
ISBN 9788890722868, € 16,00

 

 

 

 

 

  

Interrogando autori e percorrendo ambiti disciplinari diversissimi, gli otto saggi raccolti nel volume pubblicato dalla Fattore Umano Edizioni provano a tratteggiare il profilo umbratile e fuggevole dell’immaginazione. Sebbene dalla lettura del testo non si riesca a comporre una visione d’insieme su questa facoltà, data la molteplicità degli approcci, dei temi e dei materiali discussi, la produttività si può dire sia quella characteristica formalis che le viene, nondimeno, ampiamente riconosciuta. In questo senso, il «tra» che compare nel titolo esprime non tanto una via di mezzo, quanto l’avvenire di una trasformazione – la transizione che c’è stata, e che tutt’ora si ripresenta, nel concepire l’immaginazione: da imitatrice, ripetitiva, a produttrice, artefice dei propri contenuti. Ma la riconferma di un’autentica attività immaginativa non esaurisce, in ogni caso, l’interesse suscitato dal volume. Disseminata nelle pieghe del testo si trova tutta una serie di assunti che per la portata e per la quantità di problemi che solleva meriterebbe di essere sottoposta a studi approfonditi: la contaminazione essenziale della ragione con l’immaginazione, del logos con l’eikónes e i phantasmata, dello spirito con le finzioni ben congegnate della follia. Contaminazione che potrebbe non implicare necessariamente compromissione o deterioramento.

L’Encomio di Elena, per cominciare. Nel suo scritto, Fiorinda Li Vigni ha modo di definire l’opera di Gorgia una «fenomenologia del logos» (p. 27), «un’articolata descrizione razionale delle [sue] diverse forme di azione persuasiva» (p. 26), osservando come l’attestazione dello strapotere del linguaggio sull’anima (potere magico di plasmarla) non avvenga nel clima del racconto mitico, ma in quello della riflessione intellettuale che intende analizzarlo e spiegarne i meccanismi. Lontano, per giunta, da ogni forma di scetticismo, Gorgia attribuisce alla parola una dimensione materiale, ne riconosce la «natura psico-fisica» (p. 21), e illustra tale natura attraverso una meccanica della persuasione fatta di reazioni a impressioni. Segno di tutto ciò è l’immagine del sovrano che compie grandi imprese malgrado un corpo piccolo (così piccolo da essere invisibile): fisionomia allegorica della parola che pure permette di restituirne in pieno la reale fisicità.

Tuttavia, ripercorrendo le diverse forme di persuasione discorsiva elencate da Gorgia, Li Vigni ne ritrova il fine non nel semplice inganno ma nella fascinazione, quale fenomeno più complesso che chiama in causa la disposizione dell’anima al piacere, il suo assenso all’artificio benefico, e che richiede, quindi, una sua naturale «complicità» (pp. 22 e 24), a parziale correzione di quella concezione meccanicistica, pur presente nell’Encomio, che reputa l’ascolto passivo. L’anima è vinta dall’autoinganno più che da un’illusione ingannevole. E ciò vale per quando essa si trova al cospetto delle falsità nocive della retorica politica non meno che per quando si trova di fronte a quelle innocue dell’arte. Il saggio di Li Vigni sembra volersi spingere verso questa conclusione: le potenze del falso sono rimesse alla verità del principio di piacere.

È certo che per descrivere in tal modo la persuasione ci si deve consapevolmente discostare dal concetto di mimesi, o almeno da quello tradizionale, grossolano. Infatti, Li Vigni non vuole attenersi all’idea che il logos si imprima sull’anima stampando una copia di sé. L’efficacia del logos non sta nella propria riproduzione ma nella produzione di immagini (pp. 29-32), nella messa in scena che incanta un’anima: effetti ottici della parola.

È necessario allora discostarci dal concetto tradizionale di mimesi. Oppure, in alternativa, modificarlo qualitativamente, ripensarlo nel quadro di un paradigma poietico. Il saggio di Francesca Eustacchi esprime apertamente questa esigenza trattando della mimesi nella politica platonica. Che la legge dello Stato buono debba imitare la perfezione di un modello ideale non significa che ne debba essere il duplicato scadente. Significa, piuttosto, che di quel modello deve tradurre la «logica» (p. 37), riportandola a un livello più basso di realtà, quello materiale e sociale. È una mimesi che replica una procedura più che una sostanza. È l’imitazione di un fare più che di un essere. Ma soprattutto, sottolinea Eustacchi, tale imitazione è affatto razionale.

La ragione imita. La ragione immagina. Fino a che punto, e che cosa questo voglia dire nello specifico, non è forse ancora possibile spiegarlo. Eppure, una certa ragion pratica, o per meglio dire pragmatica, incentrata sull’agire comunicativo, reputa già indispensabile ai propri fini l’uso dell’immaginazione. Avendo ben recepito la concezione del linguaggio del secondo Wittgenstein, Simona Tiberi ne suggerisce un possibile implemento tramite il principio di carità di Davidson e il principio di cooperazione di Grice. Unendo all’imprescindibile contestualità di ogni enunciazione il potere che l’immaginazione ha di assimilare i contenuti proposizionali altrui e di attribuire intenzionalità all’interlocutore (cogliendo il non detto nel detto), ci si porta alle soglie di un concetto di «immaginazione pragmatica» che vede quest’ultima legata all’«azione» e alla «vita morale» degli uomini (p. 150), come mezzo privilegiato di comunicazione con l’alterità.

Che la ragione immagini, anche Serena Feloj non è molto lontana dal concluderlo, pur affrontando un altro genere di problema. Indaga infatti nel suo contributo quanto prossime siano malattia mentale e ragione nelle filosofie di Kant e Hegel, e rispetto a quella kantiana non manca di riconoscere nell’attività immaginativa il fondamento di questa possibile prossimità. Entrambi i filosofi trattano della malattia mentale nelle loro antropologie, ma in Kant se ne trovano considerazioni importanti anche in altre opere, come la terza Critica. Soffermandosi proprio sull’Analitica del sublime, Feloj ipotizza «un certo legame» (p. 53) tra la dementia (Wahnsinn) e il risvegliarsi nel soggetto, per mezzo del sentimento del sublime, dell’idea di moralità a lui intrinseca. Indizio di tale legame è, per l’appunto, l’immaginazione, che emerge come elemento comune: sfrenata nell’un caso, illimitata nell’altro. Tuttavia, l’eccessiva disinvoltura con cui Feloj afferma più volte che per Kant, in definitiva, il malato di mente sarebbe avulso da qualsiasi forma di razionalità finisce per invalidare l’ipotesi di partenza. Il testo dell’Antropologia dimostra, in effetti, il contrario. Kant era ben conscio della metodicità e sistematicità che caratterizzano alcuni disturbi psichici. La vesania (Aberwitz) è considerata addirittura una «positive Unvernunft», tutt’altro che una presunta anti-ragione (cfr. I. Kant, Antropologia pragmatica, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 104). Ad ogni modo, se non nel pensiero kantiano, in quello hegeliano Feloj riscontra la certezza che il folle sia, nonostante tutto, un essere razionale, non senza però una «frattura» (Immaginazione…, p. 57) che lo attraversa all’interno e che scinde, in lui, la particolarità dell’anima e l’universalità dello spirito oggettivo.

La rilevanza dell’immaginazione in determinati disturbi psichici è riportata del pari nello scritto di Elisa Magrì, che raffronta Sartre, Merleau-Ponty ed Erwin Straus sul tema specifico dell’ossessione. Mentre per Sartre, che ne parla ne L’imaginaire, è la ripetitività dell’atto immaginativo che definisce l’ossessivo – ripetitività con cui questi tenta di possedere l’oggetto desiderato, e che segna l’atrofia dell’immaginazione, la riduzione della spontaneità del soggetto a uno «spasmo» –, per Merleau-Ponty e per Straus il fenomeno dell’ossessione rimanda a un’interferenza nello «spazio vissuto» (p. 115), affettivo, quale «campo emozionale» (p. 111) che prende forma nel rapporto primigenio tra il corpo e il mondo.

Di nuovo Hegel è oggetto del saggio di Lucia Ziglioli, concentrato in particolare sulla Psicologia contenuta nell’Enciclopedia. Lì si espongono le trasformazioni funzionali dell’immaginazione nel processo conoscitivo. Dapprima meramente riproduttiva, imitatrice; poi intelligente, poietica, dedita all’elaborazione dell’universale; infine simbolizzante e significatrice, volta all’esibizione della conoscenza ottenuta: non più immaginazione ma fantasia. Come a dire che per Hegel – e Ziglioli lo mette in evidenza – l’immaginazione tende a superare se stessa spingendosi oltre l’immagine, raggiungendo l’irrappresentabile, divenendo essa stessa regno del pensiero.

L’irrappresentabile è anche il punto da cui muovono le riflessioni di Angiola Iapoce su Jung. Sono riflessioni di carattere metodologico, che evidenziano i presupposti critici della psicologia analitica, l’ineffabilità del nucleo vitale dell’esperienza, il «vuoto rappresentazionale» (p. 86) in cui il soggetto conoscitivo inevitabilmente incappa – incognita, zona d’ombra in cui valgono solo ipotesi ed espedienti, ma che, d’altra parte, può esser fatta trapelare proprio da un’immagine, quella immagine che rinuncia a mostrarla in sé e per sé e che invece la conserva nella propria irrappresentabilità; che tanto più si avvicina a esprimerla quanto meno tenta di violare la sua consustanziale inesprimibilità. L’immagine è quanto di più prossimo vi sia all’inimmaginabile. Affermazione che, seppur in tutt’altro contesto teorico, vale anche per Merleau-Ponty. Infatti, come mette in luce Alessandra Scotti nel suo contributo, ne L’œil et l’esprit la pittura di Cézanne diviene veicolo di quell’«esperienza incarnata» (p. 126), pre-riflessiva, che un corpo fa in quanto immerso nell’«essere grezzo» del mondo. Esperienza destinata a non essere vista se non da quella visione che si sa inclusa nel mondo che vede, e che tenta di esprimere questa sua aderenza originaria (e invisibile) a tutto ciò cui si rivolge.