Kelemen János, The Rationalism of Georg Lukács

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 János Kelemen

 The Rationalism of Georg Lukács

 

 

 Palgrave Mcmillian, New York 2014, ISBN 9781137372819, pp. 144.

£ 47 in Grand Bretagna. 

 

 

 

 

 

 

 

 

János Kelemen è uno dei più rappresentativi filosofi ungheresi e per questa semplice ragione europei, in quanto la collocazione culturale dell’Ungheria è nel centro dell’Europa e appartiene a quella comunità culturale che era la Mitteleuropa, scomparsa poco meno di un secolo fa. Inoltre Kelemen è un profondo conoscitore della cultura italiana, ha già pubblicato, in passato, in italiano vari saggi dedicati a Benedetto Croce e, negli ultimi anni, a Dante.

In questo libro Kelemen raccoglie alcuni dei suoi saggi dedicati al maggiore intellettuale ungherese della storia e rilevante rappresentante di quella cultura mitteleuropea che è stato György Lukács. Questa considerazione oggettiva non è riconosciuta più nella stessa Ungheria, dove, per legge del governo Orbán, il nome di Lukács non si può dare a nessun luogo pubblico, quindi il libro esce in inglese e sicuramente non uscirà in ungherese, a meno che non cambi la gestione del governo. Il governo di Orbán replica la condanna nei confronti di Lukács che era stata caratteristica sia del regime stalinista di Rakósi che del più moderato regime di Kádár. Il governo di Orbán dimentica l’opera di resistenza e di apertura culturale che Lukács garantì a tutta la cultura ungherese con il semplice fatto che non volle lasciare il paese durante lo stalinismo e il kadarismo, a differenza di Bloch in Germania Orientale. Lukács rimase come una sorta di dissidente in Ungheria, ma attorno a lui si formò la cosiddetta “Scuola di Budapest”, che ha dato luogo a una generazione di intellettuali ungheresi di levatura mondiale, ma che poi si mostrarono non meno ingenerosi nei confronti del maestro, quanto lo è oggi il governo di Orbán. Kelemen, che non fa parte della “Scuola di Budapest”, pubblica questo libro a riconoscimento del ruolo fondamentale di Lukács nella cultura ungherese ed europea del Novecento.

Il libro è diviso in due parti, la prima è dedicata al Lukács marxista, mentre la seconda al giovane Lukács. Il Lukács marxista aveva fatto del razionalismo un atteggiamento caratteristico della sua lotta di difesa della cultura europea durante gli anni del nazismo e dello stesso stalinismo. Va ricordato, infatti, che per Lukács se il nazismo era nemico più radicale del razionalismo, in quanto si radicava nella tradizione irrazionalista che, secondo Lukács, partiva dal secondo Schelling, lo stalinismo, essendo un fenomeno di iperrazionalismo, non era meno pericoloso. Kelemen ricorda come per il Lukács della Distruzione della ragione l’irrazionalismo fosse una evasione dalla realtà e, di conseguenza: «I filosofi irrazionalisti rifiutano di rispondere ai problemi reali, ma dalla reale esistenza di questi problemi inferiscono che non può esserci una risposta razionale ad essi» (p. 77). Kelemen continua: «Qui “evasione” non preclude ma presuppone la sensibilità di fronte al problema. Nel ritratto di Lukács i grandi pensatori irrazionalisti non evadono i problemi. Essi sentono bene le risposte ma evadono nell’accettarle a causa dei loro interessi, del ruolo sociale e per altre ragioni. Lukács riconosce la sensibilità di Nietzsche […]. D’altronde, è la sensibilità al problema, implicata nell’”evasione”, che rende qualche volta i pensatori irrazionalisti, incluso Nietzsche, così attraenti per Lukács. Sebbene lui spesso critichi aspramente Nietzsche, qualche volta non può non ammettere la sua ammirazione» (p. 79).

In questa sede mi limito a una rapida osservazione che meriterebbe di essere sviluppata con uno studio più approfondito. Questa ammirazione di Lukács per Nietzsche si può spiegare non solo con il riconoscimento da parte di Lukács di una indubbia e oggettiva sensibilità di Nietzsche di intuire i problemi della realtà, ma anche con il fatto che Nietzsche appartiene alla stessa formazione intellettuale di Lukács, al suo passato pre-marxista di filosofo che si stava indirizzando verso una critica radicale della società borghese ungherese dell’inizio del Novecento. Lo stesso si può dire per altri autori tanto criticati in La distruzione della ragione, come Kierkegaard, Rickert, Lask, Simmel, Max Weber. La conoscenza del marxismo diede a Lukács strumenti più complessi e razionali per una critica effettivamente radicale della società borghese, a quel punto non solo ungherese, e del sistema di produzione capitalistico. Infatti lacritica razionalista compare chiaramente nelle osservazioni di Lukács sulla filosofia borghese, contenute in Storia e coscienza di classe. Per questa ragione mi permetto di affermare che La distruzione della ragione è per alcuni aspetti la vera, autentica, autocritica di Lukács, perché essa esprime il suo giudizio sulla propria formazione intellettuale.

L’irrazionalismo è piuttosto un atteggiamento filosofico, che ha come caratteristica di trovare soluzioni facili –direi economiche- ai problemi reali, alla condizione, però, di imporre alla realtà soluzioni violente, con un altissimo costo umano, soluzioni a cui è impossibile dare un consenso universale. Per altro il filosofo irrazionalista non cerca affatto questo consenso, perché egli assume l’atteggiamento del saggio che sente la realtà, ma la sente senza alcun strumento razionale, semmai grazie all’intuizione, all’intus ire, all’andare dentro. Gli strumenti razionali più tradizionali sarebbero le categorie, ma gli irrazionalisti rifuggono dalla logica. Il filosofo irrazionalista non è un maestro che insegna, piuttosto la sua saggezza è molto soggettiva, non è trasmissibile neanche ai suoi stessi seguaci, a cui chiede un’adesione fedele, spesso mistica, alle sue idee, alle sue soluzioni violente. Il filosofo irrazionalista chiede fede a chi lo segue, non cerca il dialogo, ma si esprime con monologhi.

Se guardiamo allo stalinismo, vediamo un atteggiamento paradossalmente simmetrico: lo stalinismo non evitava le risposte di fronte alla realtà, ma occultava la realtà, dando di essa un’immagine accattivante verso le masse, a cui chiedeva un consenso cieco. Lo stalinismo costruiva sempre nemici, mentre l’irrazionalismo li aveva per natura -ad esempio gli ebrei per il nazismo-, e contro questi nemici adottavano soluzioni altrettanto violente quali quelle del nazismo, ma lo stalinismo cercava le sue vittime tra i propri seguaci, non all’esterno come il nazismo. È noto che la stragrande maggioranza delle vittime di Stalin erano comunisti, iscritti al partito, una di queste fu proprio lo stesso Lukács. Lo stalinismo chiedeva fiducia nella sua capacità di trovare soluzioni ai problemi, poteva mettere a disposizione il suo sapere dogmatico ai suoi seguaci, anzi aveva la tendenza a fare proseliti. Entrambi i due sistemi hanno un atteggiamento quasi religioso, l’uno mistico, l’altro proselitista, quindi assolutamente lontani dall’atteggiamento di Lukács, filosofo marxista aperto al dubbio, alla ricerca continua e critica dei fondamenti delle sue stesse idee, razionalista e, per questo ottimista, nonostante le sconfitte che ha subito nel corso della sua vita.

Il modo di pensare di Lukács, soprattutto a partire dall’esperienza di studio in Germania, diventa sempre più razionale e dialettico. Come sappiamo la dialettica è politica perché rispecchia la realtà, il divenire è l’immagine della realtà sempre mutante della storia. La dialettica è l’arma dei poveri e degli esclusi, degli oppressi, perché rode l’esistente, l’ordine e le istituzioni. La dialettica, soprattutto quella hegeliana di cui Lukács fu grande studioso ed estimatore, ha categorie logiche, è uno strumento logico. La logica è politica perché è atto, è prassi. La logica deve diventare politica quando riesce a fornire argomenti al senso comune, alla plausibilità degli argomenti sostenuti: questo è il primo livello della fattibilità pratica della politica. Se gli argomenti sostenuti sono plausibili, allora sono condivisibili, questo è il secondo livello della fattibilità pratica della politica. Il terzo livello è la realizzabilità di questi argomenti. Lukács ha sostenuto, prima del 1930, il primo livello cioè la plausibilità, quando sosteneva una teoria rivoluzionaria che sovvertisse il piano della reificazione (cfr. Storia e coscienza di classe). Poi dal 1930 in poi ha sostenuto un marxismo aperto, critico soprattutto verso i fondamenti dogmatici dello stalinismo e contro l’irrazionalismo, questo è il secondo livello, ma questo livello è stato relativamente condiviso. Il terzo livello lo ha raggiunto soltanto negli anni del lavoro all’Estetica e all’Ontologia e di questo terzo livello si interessa Kelemen nei suoi saggi su lavoro, linguaggio e scienza.

Kelemen mostra una notevole capacità di reinterpretare in forma nuova ed originale testi lukácsiani, come Storia e coscienza di classe o l’Estetica che hanno avuto centinaia di interpreti, oppure di porre all’attenzione del lettore, testi che sono ancora oggi pochissimo interpretati come l’Ontologia dell’essere sociale. Mi limito a citare due passi, contenuti nell’Introduzione e in un saggio del libro, ma che hanno una straordinaria continuità. Nel primo passo Kelemen lancia una proposta, riprendendola da accenni presenti in secondo piano nelle opere di Lukács: Se è vero che «le relazioni sociali date (…) sono presenti inerentemente nelle stesse forme linguistiche –per esempio, nella struttura semantica delle espressioni», allora «la teoria della reificazione ha spazio logico per una teoria generale del linguaggio che incorpori una discussione sistematica della reificazione linguistica e dell’alienazione linguistica» (p. 6). QuindiKelemen ne deduce che «le relazioni sociali e le ideologie sono manifestate nella forma di speciali sottocodici semantici al livello dell’organizzazione formale del linguaggio» (p. 21).

Per gli studiosi di Lukács segnalo una osservazione di Kelemen, che diventa importante soprattutto per coloro che non leggono l’ungherese. Il germe della coscienza potenziale (Zurechnung) che in Storia e coscienza di classe diventa coscienza attribuita o presunta o imputata compare nell’articolo del 1910 (“Osservazioni sulla teoria della storia letteraria”), quando Lukács pone il problema della storicità di un valore. «Secondo la sua teoria, un’opera d’arte diventa quello che è mediante l’atto della sua valutazione. Quindi il suo vero essere è costituito dal valore» (p. 14) Come se tale storicità possa essere anticipata dentro la coscienza dell’autore, che la pone fuori, la esteriorizza, e permette la crescita del fruitore della sua opera, perché questi la valuta, cioè ha la facoltà di cogliere l’intenzione dell’artista e di valutarla nel suo giudizio sull’opera. «Noi possiamo parlare di un “atto valutativo potenziale” che è guidato dal principio della forma, perché non c’è nessun fenomeno letterario in assenza di forma. Questa analisi è, io credo, il primo germe della più tarda teoria lukácsiana della coscienza di classe come una “coscienza potenziale”» (p. 89). Una posizione simile sostiene ancora in uno scritto del 1948 (“La revisione della storia letteraria ungherese”) (cfr. p. 14) e così Kelemen fissa una continuità nella produzione di Lukács tra due periodi tanto diversi della sua vita. Questa derivazione della coscienza potenziale dai saggi letterari del giovane era stata implicitamente già rilevata da LászlóRudas, uno dei più feroci critici di Storia e coscienza di classe, negli anni Venti.

La coscienza proletaria, come quella del fruitore dell’opera d’arte, ha la capacità di cogliere la totalità sociale -nell’arte questa totalità è contenuta nell’opera, perché ve l’ha posta l’autore. Allora tra autore e fruitore dell’opera d’arte, da un lato, e coscienza proletaria e totalità sociale, dall’altro «c’è un rischio che la loro relazione prenda la forma di praestabilitaharmonia, cioè che la coscienza di classe del proletariato come coscienza coordinata o imputata debba essere considerata come un riflesso corretto a priori della totalità sociale» (p. 54). Kelemen ha ragione nel pensare a questo rischio, perché in effetti sia il fruitore che l’autore, sia il proletariato e la società borghese hanno la stessa origine, sono il prodotto di uno stesso sistema di produzione della ricchezza che è il capitalismo.

Il libro di Kelemen è, quindi, non solo un prezioso strumento per gli studiosi di Lukács al fine di indagare i rapporti tra la sua critica dell’irrazionalismo, da un lato, e la razionalizzazione del suo pensiero politico ed etico, dall’altro, ma anche uno stimolo agli studiosi del linguaggio per aprire nuove ricerche sul rapporto tra singolo individuo e relazioni socio-linguistiche, soprattutto quando queste relazioni sono determinate entro il mondo del lavoro.