Orlando Franceschelli, Elogio della felicità possibile.

  • Stampa

 

 

 

Orlando Franceschelli

Elogio della felicità possibile.
Il principio natura e la saggezza della filosofia

 

Roma, Donzelli, 2014,
pp. VIII-200, ISBN 9788868430405, € 24,00

 

 

 

 

 

L’ultimo libro di Orlando Franceschelli è senza dubbio notevole, azzarderei a dire che è il migliore della produzione filosofica italiana degli ultimissimi anni, soprattutto perché è un libro scritto con uno stile che rivela l’intenzione non accademica dell’autore, quindi un libro di piacevole lettura, senza la ricerca di un linguaggio volutamente criptico. Il libro inizia come dovrebbero iniziare i libri di filosofia, con una domanda, perché la filosofia è scienza di domande (Hegel), perché chi vuole risposte, le trova belle e pronte nella religione. La domanda è: «In che senso la saggezza può favorire la nostra felicità?» (p. 3). Appena letta questa domanda, mi aspettavo un’altra domanda, che, infatti c’è puntualmente, subito dopo la precedente: «Ricercare la saggezza non significa diventare ancora più consapevoli delle innumerevoli sofferenze causate da tragedie naturali, malattie, ingiustizie, malvagità – e superficialità – umane?» (Ibid.). Orlando Franceschelli non poteva non essere consapevole che la felicità non è completa, se si gode in mezzo all’infelicità degli altri. Anzi egli avvisa che la saggezza, cioè il sapere dell’infelicità altrui, non permette la nostra felicità. La condizione umana, però, ci costringe a vivere dentro i limiti della nostra contingenza biologica, quindi evolutiva, la «felicità nostra e degli altri esseri senzienti» (p. 7). Non abbiamo, dunque, un’altra condizione umana, non siamo esseri transbiologici o talmente potenti – come sognava Nietzsche – da garantirci una felicità infinita nel tempo. Tornerò più avanti su questo tema, perché prima devo rispondere all’esigenza di chi recensisce un libro di esporre i temi più rilevanti in questione.

Franceschelli va alla ricerca di una felicità possibile che sorga dal naturalismo, cioè dalla «elaborazione del principio natura condotta alla luce del criterio epistemologico della plausibilità», che permette di andare «al di là di ogni prospettiva teologico-metafisica e ideologica» (p. 4). Il principio natura si fonda sul motto democriteo che «la natura basta a se stessa». Il problema è che l’uomo vuole molto di più, non accetta serenamente la propria contingenza biologica, non accetta di avere soltanto bisogni animali, cioè bisogni eguali a quelli degli animali – mangiare, bere, abitare, coprirsi, riprodursi –, che per di più non può soddisfare facilmente – e questa è la condizione di buona parte dell’umanità oggi. L’uomo supera la propria natura animale mediante la stessa natura animale: l’uomo ha iniziato a lavorare per garantirsi più mezzi per soddisfare i propri bisogni animali. Una volta soddisfatti questi bisogni è nella condizione di soddisfare i bisogni umani, cioè quelli che gli altri animali non hanno. Tra questi bisogni c’è la ricerca della felicità. Ma questa condizione, come ammette lo stesso Franceschelli, non è diffusa a tutti “gli esseri senzienti”? C’è una buona parte dell’umanità che non può ricercare la felicità, perché non può soddisfare i bisogni animali della propria vita biologica. E questo non è un fatto su cui riflettere, ma una situazione di fatto da riconoscere.

Franceschelli fissa alcune condizioni epistemologiche di plausibilità: «Ogni prospettiva filosofica deve soddisfare per risultare plausibile a due condizioni: essere compatibile con i dati scientifici disponibili e validamente argomentata in sede di discussione critico-filosofica» (p. 14). Se risponde a queste due condizioni, la prospettiva filosofica ambisce ad essere riconosciuta, quindi è possibile riconoscere che buona parte dell’umanità non è in condizione di porsi il problema della felicità, come d’altronde Franceschelli riconosce.

Franceschelli fissa anche una funzione alla filosofia, quando sostiene che alla ricerca scientifica non possiamo porre le domande ultime sull’uomo, evitando così di essere iscritto nei ranghi dei sostenitori dello scientismo radicale. Queste domande ultime sono «il compito della scepsi filosofica impegnata a onorare se stessa» (p. 14), cioè a restare entro i limiti della descrizione scientifica della realtà naturale e a dedicarsi alla ricerca della plausibilità delle proprie risposte. Le risposte della filosofia, però, sono, a loro volta, sottoposte alla ricerca scientifica, che può, nel corso del tempo, dimostrare l’inanità di esse e costringere la filosofia a riprendere la ricerca di nuove risposte, sempre entro i limiti della nuova descrizione scientifica della realtà. La ricerca filosofica è, a sua volta, infinita come la ricerca scientifica.

Un’idea regolativa, però, Franceschelli la propone: l’ateismo metodologico, cioè l’astenersi dal sostenere verità soprannaturali nella ricerca filosofica, perché queste non sono plausibili. La materia e la natura non sono governate da entità trascendenti, ma sono una realtà che esiste a sé («autarchia ontologica», p. 23) e non hanno bisogno di fondamenti soprannaturali per essere conosciute (cfr. p. 30). Da qui deriva una radicale alternativa tra naturalismo e idealismo, perché quest’ultimo, in tutte le sue forme storiche, è sempre stato concepito come governato da un principio ab alio.

Allora alla domanda leibiniziana: “perché esiste qualcosa e non il nulla?”, la risposta va cercata nella casualità e nell’enorme numero di tentativi ed errori che l’hanno ispirata. Franceschelli più precisamente afferma: «Da una simile contingenza risultano segnati tutti i processi evolutivi della fucina cosmica da cui sono emersi il nostro universo e la vita» (p. 24). Il dato di fatto incontrovertibile è che i dati scientifici non dimostrano la non esistenza di entità soprannaturali, ma tantomeno autorizzano a introdurre tali entità nel mondo. Questo dato di fatto è talmente forte che i sostenitori del teorema creazionistico di contro al principio natura non possono che riconoscere il fatto che la contingenza evolutiva fa parte del progetto divino. Quindi, non potendo negarla, stanno provando ad assumerla nel loro sistema di pensiero, deformandone la struttura logica, con la casualità sostituita dalla causalità e quindi dalla teleologia e dalla finalità verso una vita oltre la vita, verso un mondo migliore, ma non terreno. In tal modo è proprio la religione a confermare il detto marxiano che “la religione è oppio dei popoli”, dato il fatto che essa è ampiamente diffusa tra coloro che non possono godere della felicità, perché non possono soddisfare i loro bisogni animali durante la loro vita terrena e corporea e sono speranzosi di vederli soddisfatti almeno nella vita dopo la vita corporea.

Franceschelli, però, avvisa che il rischio di questa assunzione della contingenza evolutiva nel teorema della creazione è il nichilismo, cioè la denaturalizzazione della realtà, che comporta la reductio ad absurdum del naturalismo: il creato sarebbe nulla di fronte a Dio. Di contro a questa prospettiva nichilistica, il principio natura «sprona ad indagare i sentimenti religiosi come espressioni della stessa natura umana» (p. 43). Credo che questa affermazione faccia insorgere non pochi credenti, perché la loro fede è ridotta ad un fatto di origine naturale e, infatti, alcune branche della neuropsicologia stanno indagando nella mappa della mente umana dove siano localizzati i centri di produzione di tali sentimenti religiosi. Sinceramente, però, non è affar mio indignarmi per affermazioni del genere, perché è un problema dei credenti, tra i quali – verrebbe voglia di dire “grazie al cielo” – non mi annovero. Fa bene, però, Franceschelli ad aprire una polemica con il teorema della creazione, perché la polemica è una forma di difesa rispetto ai nuovi tentativi egemonici condotti dai neo-con cristiani. Come lui stesso ricorda: «La questione fondamentale della scepsi filosofica […] è l’indagine critica della totalità cosmica» (p. 47) e non è certo la polemica ideologica.

C’è però un’affermazione di Franceschelli che, per personali ragioni ideologiche, non mi convince, cioè che il principio natura permette di collocarsi “al di là di cristianesimo e marxismo”. Per il cristianesimo ho già detto che non è un mio problema, non volendo e non potendo difendere le cause degli altri, ma non capisco perché anche al di là del marxismo. So che Franceschelli, in gioventù, è stato un fervente marxista e fatto salvo che ciascuno è libero di avere le idee che desidera, so anche che «la sola qualità della materia, sulla quale poggia il materialismo filosofico, è la sua realtà oggettiva, esistente al di fuori della nostra coscienza»; questa è un’asserzione che Franceschelli può condividere al 100%. Ancor di più Franceschelli può accettare la seguente affermazione: «Gli elettroni, l’etere e tutto il resto esistono o no al di fuori della coscienza umana, come realtà oggettiva? È a questo problema che gli studiosi devono rispondere senza esitazione ed essi rispondono sempre affermativamente, allo stesso modo che ammettono l’esistenza della natura come anteriore alla nascita dell’uomo e della materia organica. La questione è così risolta in favore del materialismo, poiché […] la nozione della materia non significa assolutamente nient’altro dal punto di vista della teoria della conoscenza che la realtà oggettiva la cui esistenza è indipendente dalla coscienza umana e che è riflessa da questa». E riguardo al nichilismo: «La negazione dell’immutabilità della struttura e delle qualità fino ad allora conosciute della materia, li [i materialisti metafisici, quindi anche i religiosi] ha condotti alla negazione della materia stessa, altrimenti detto alla negazione della realtà oggettiva del mondo fisico». Mi pare che Franceschelli sostenga le stesse tesi di questo marxista, che non è Marx, né Engels, bensì Lenin in Materialismo ed empiriocriticismo. È lo stesso Lenin a sostenere che il marxismo non poteva dettare alcun dogma in campo di epistemologia, perché non aveva una verità assoluta nel campo della ricerca scientifica. Opposta, e per questo non marxista, fu la posizione di Stalin, e del suo lacchè Zdanov. Ma non credo che Franceschelli voglia aprire una polemica con chi, come nel caso di Stalin, è ormai filosoficamente morto e sepolto. D’altronde qualche radice marxista è ancora presente nel pensiero di Franceschelli, ad esempio quando sostiene, sulla scorta di Antonio Damasio, la primazia dell’essere sul pensiero, come, a sua volta, aveva sostenuto Marx.

L’unica natura umana fa degli esseri umani «culturali per natura e naturali per cultura» (p. 62), perché siamo esseri culturali per natura e ciò ci rende consapevoli ed eticamente all’altezza di tutte le capacità che possiamo creare per cultura a partire dalla nostra natura. Siamo esseri naturali perché apparteniamo alla natura, siamo un corpo; la nostra eco appartenenza – l’appartenere ad un ambiente – effettivamente ispirata al principio natura salvaguarda l’indipendenza ontologica del mondo esterno da entità soprannaturali e simbolico-culturali della nostra mente (cfr. p. 71) come ad esempio spirito, Io penso ecc. Il sentirsi appartenere alla natura ci mette nella condizione di sviluppare un’etica della ecoappartenenza, che ci rende capaci di far fiorire la felicità possibile senza smarrire la memoria di ogni sofferenza nostra e altrui, in quanto siamo esseri viventi limitati dalla materia e dagli altri esseri viventi. Questi limiti descrivono in sostanza il nostro Io, che è autonomo e autosufficiente, consapevole di trovare unicamente in se stesso le motivazioni del proprio agire (cfr. p. 83). «Questa autarchia e saggezza possiamo mettere al servizio di tutta la felicità che possiamo far fiorire qui e ora sulla terra» (p. 84). La nostra capacità, o possibilità, è quella di praticare una saggezza del presente plausibile ed equanime della nostra contingenza nel tempo.

A questo punto mi pare che Franceschelli ci voglia indicare una saggezza plausibile che è l’ars moriendi, che è l’atteggiamento di autarchica libertà che ogni individuo può raggiungere di fronte alla propria morte, l’abitudine alla propria contingenza esistenziale. Direi che Franceschelli ci vuole indicare anche l’abitudine ad un assoluto, l’unico assoluto che abbiamo, la nostra vita, che ha due limiti temporali, uno non voluto, cioè la nascita, l’altro che potremmo volere e per questa ragione è il limite più drastico, cioè la morte. La nostra vita si svolge entro la nascita e la morte, dentro questi limiti temporali possiamo cercare la felicità, anzi proprio la durata della nostra contingente esistenza ci rende criticamente consapevoli della nostra vita e della nostra morte. Questa ars moriendi è connessa ad una saggezza del presente che, però, non confonda la fine della vita con il fine della vita (cfr. p. 102), perché la nostra vita non ha un fine trascendente fuori di sé, ma soltanto in se stessa, cioè nel piacere di vivere bene. L’unico fine della vita, che Franceschelli ammette, è la diffusione della gioia.

Il progresso della tecnologia applicata alla vita umana, la biotecnologia, sta profilando un futuro post-umano, cioè un futuro in cui l’essere umano rischia di diventare l’appendice di macchine che, tenendolo in vita, diventano la sua vita. Questo futuro può anche vedere l’umanità dividersi in due subspecie, quella dei ricchi e quella dei poveri, come aveva presagito Wells in un suo famoso romanzo La macchina del tempo. Così le biotecnologie potrebbero realizzare il sogno nietzscheano della Volontà di potenza di dividere l’umanità tra oltreuomini e schiavi. L’unico uso plausibile della biotecnologia è il miglioramento della vita umana.

Ho citato Nietzsche ed è proprio con il critico più radicale della modernità – e mi si permetta di dire anche il più superficiale, nel senso che è stato il critico dell’apparenza della modernità, non dei suoi caratteri profondi e specifici, come il modo di produzione capitalistico o la violenza congenita alla nascita e allo sviluppo della modernità – che Franceschelli polemizza in più riprese; egli ricorda che Nietzsche, proprio per l’esaltazione della Volontà di potenza, non accettò la eudaimonia epicurea, cioè l’accontentarsi del poco, della virtù, “la saggezza del presente”, come la chiama Franceschelli, che invece la auspica (cfr. p. 134).

Franceschelli descrive la natura umana, in cui si trovano gli estremi dell’egoismo e dell’altruismo e tutta una graduazione di sfumature tra i due, dal massimo dell’altruismo che si manifesta nella sollecitudine verso i propri figli e i congiunti più stretti, fino al massimo dell’egoismo che si manifesta nel più scatenato egocentrismo. Franceschelli elabora anche una Regola Aurea della felicità possibile, che riecheggia la falsariga della morale kantiana: «Fai per la fioritura della felicità altrui tutto ciò che ritieni possibile e vorresti fosse fatto per la fioritura della tua felicità» (p. 154). Ad integrare questa Regola Aurea Franceschelli sostiene «anche un’operosa critica della sofferenza [che] è dunque parte costitutiva della saggezza della felicità possibile, che anche perciò si configura come effettivamente universalistica» (p. 156). Ma la Regola Aurea, secondo me, va interpretata alla lettera e forse al di là dell’intenzione dello stesso autore. La lettera è quel “fai” che io intendo come un’obbligazione all’azione pratica e, quindi, che pone la questione della fattibilità della Regola Aurea, ben al di là della sua plausibilità. Se si ritiene che la felicità sia possibile in questa vita, allora questa possibilità è facoltà, cioè “capacità di fare”, è poter fare, potere agire in modo tale che la propria azione abbia come prodotto la felicità propria e altrui.

Per concludere mi permetto ancora qualche osservazione al fine di articolare il mio totale consenso alla proposta di Franceschelli, estendendola, approfondendola e ipotizzando una sua universale distribuzione. Innanzitutto vedo l’universalismo della sua Regola Aurea come un universalismo composto dall’adesione di ciascun individuo a questa stessa Regola, quindi una somma più che un prodotto, ma proprio di un prodotto avremmo bisogno. L’eventuale passaggio dalla somma al prodotto collega la plausibilità della saggezza della felicità possibile e della sua Regola Aurea alla sua fattibilità e pone la questione: quanto è fattibile l’etica della ricerca della felicità possibile in chiave universale? Tutti gli esseri umani sono nelle condizioni di conciliare il fiorire della propria felicità con quella degli altri esseri umani, anzi di tutti gli esseri umani? La risposta è ancora oggi: no, non tutti gli esseri umani sono nelle condizioni di essere felici, perché hanno difficili condizioni di vita e la vita è il fondamento della felicità, senza vita non si può essere felici. Non sto proponendo la vita come valore, ma come fondamento di qualsiasi valore, per la semplice ragione appena espressa: senza vita non ci sono valori e non si possono avere valori universali che richiedano la vita, perché non sono universali, giacché la vittima, colui che ha dato la vita, non usufruisce di quel valore per cui appunto si è sacrificato.

Allora l’etica della felicità possibile può essere l’etica di chi si trova nelle condizioni di vita di poterla praticare e che la può usare, al più ma coerentemente, come un principio regolativo della propria vita, appunto una Regola Aurea. Intendo per principio regolativo quella massima del proprio comportamento pratico che, pur non essendo realizzabile in toto, si usa come l’obiettivo delle proprie azioni pratiche, in modo da dare una corretta direzione ad esse. Non sempre nella storia i principi regolativi sono stati fattibili nell’immediato, ma sono serviti come principi regolatori delle azioni pratiche degli esseri umani, fino al punto da diventare vere e proprie abitudini, come sosteneva Lenin, dell’agire pratico degli esseri umani. La tolleranza di cui parlava Voltaire non si realizzò immediatamente, neanche quando divenne uno dei principi regolatori della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino. Lo stesso Francheschelli chiude il suo libro citando l’art. 3 della nostra Costituzione, che impegna la Repubblica «a rimuovere tutti gli ostacoli […] che impediscono il pieno sviluppo della persona umana», e questo è un esempio di principio regolativo, che impegna ad agire praticamente in una certa direzione. Solidarizzare con la sofferenza altrui e, quindi, agire praticamente secondo questa solidarietà, dimostra l’individuale fattibilità della Regola Aurea, cioè la sua validità per chi la pratichi. Praticare questa etica della felicità possibile pone lentamente nel tempo le condizioni perché l’etica della felicità possibile diventi praticabile, fattibile, per l’intera umanità.

Per diventare però prodotto e non semplice somma, questa Regola Aurea deve diventare regola accettata da tutti gli esseri umani e ancor di più deve diventare abitudine di vita praticata da tutti gli esseri umani, fino a diventare regola giuridica condivisa da tutti i sistemi politici dell’intera umanità, cosa che non si è affatto realizzata, almeno finora. Ci deve essere un impegno proprio, ma anche collettivo, alla solidarietà con chi non è nelle stesse condizioni di chi sta bene. Queste sono le condizioni di un vero universalismo della Regola Aurea, perché se una regola è universale, allora vale per tutti indistintamente, che siano ricchi o poveri, bianchi o di altre razze, credenti o non credenti; è valida per tutti gli esseri senzienti.

Soltanto quando l’abitudine del vivere bene sarà la condizione quotidiana della vita degli esseri umani, allora la Regola Aurea di Franceschelli diventerà superflua e, per l’affinità spirituale di cui parlavo all’inizio, credo fermamente che lui stesso sia il primo a desiderare fermamente che tale Regola Aurea divenga superflua.