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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
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H. A. Cavallera, Introduzione alla storia della pedagogia

 

 

 

Hervé A. Cavallera

Introduzione alla storia della pedagogia

 

 

Editrice La Scuola, Brescia 2016, 
ISBN-13: 978-8835045946, 
€ 13.50

 

 

 

 

 

La moltiplicazione e l’amplificazione della comunicazione che i nuovi media hanno introdotto nelle civiltà mondiali, il processo di globalizzazione e relativizzazione dei valori, la progressiva tendenza alla cancellazione delle identità e delle peculiarità culturali, il primato dell’economia sull’etica, sono processi che, per essere gestiti, hanno determinato una nuova domanda di formazione ed educazione. Una domanda, però, che prevede una risposta sempre più complessa e difficile perché proprio questi processi sembrano causa e portato insieme di un atomizzazione individualistica refrattaria all’intervento educativo. In questo contesto storico appare in seconda edizione un libro che l’Autore aveva portato in stampa nel 1999, accresciuto non solo nei contenuti, quanto nella consapevolezza che le politiche sociali e accademiche restringono lo spazio per un sapere disinteressato e rivolto ai valori per allargare quello professionalizzante rivolto al profitto, che finiscono per occupare tutto lo spazio dell’educativo. Il discorso pedagogico sembra aver perso la funzione di impulso civilizzatore e aggregante perché non si riconosce più quel suo duplice guardare in avanti, nella costruzione del futuro, e contemporaneamente all’indietro mantenendo i piedi ben saldi a contatto di quella tradizione che consente di evitare lo spaesamento conseguente alla perdita di un centro di gravità. La «logica del business» guarda solo al futuro e prova ostilità e dispetto verso tutto ciò che è valore, disinteresse, tradizione, storia. Tuttavia, nota l’Autore, in un contesto come quello attuale - che ormai non si definisce neanche più postmoderno perché vuole rinunciare a ogni definizione che in fondo è un paradigma interpretativo della realtà in una società considerata invece come liquida - si produce un paradosso: «Da un lato vi è la pressione per la riduzione dello spazio dedicato alle discipline storiche, considerate generalmente improduttive in un sistema attento al mercato […]. Dall’altro, proprio questa realtà che diviene sempre meno sopportabile richiede la riappropriazione di una conoscenza corretta del processo storico, degli obiettivi di reale significato, della tradizione e dei valori che essa testimonia, valori che non si consumano nel tempo». Cavallera ci suggerisce che la tentata evasione dalla storia sognata dai teorici del relativismo e del nichilismo, dagli entusiasti dell’apocalisse, si consuma e si erode sbattendo sullo scoglio del senso e dell’irriducibile temporalità dell’ontologia umana; ricordandoci anche che solo la storia può svolgere la funzione di pontifex tra passato e futuro, tra tensione verso il progresso e il riconoscimento di un insieme di valori che costituiscono un irrinunciabile fondamento dell’azione.

L’Autore si concentra sull’apporto della storia della pedagogia all’interno del discorso pedagogico: del resto è uno dei pochi ordinari della disciplina in Italia. In particolare si sofferma sulla storia della pedagogia come garanzia della scientificità di un discorso pedagogico che per sua natura vuole avere un valore performativo, orientato sul dover-essere e sull’esemplarità di chi fornisce senso all’azione formativa. Non casualmente, fin dal momento delle prime riflessioni pedagogiche, l’attenzione si è sempre concentrata sulle doti del maestro-modello e progressivamente, mentre si cercava di uscire dall’empiria e dall’improvvisazione, si è inserito il discorso educativo in quello filosofico, tanto da rendere difficile una distinzione tra i due ambiti. L’Autore, che è uno dei più importanti studiosi del pensiero gentiliano, nota opportunamente che di contro alle errate teoriche delle scienze sociali, soprattutto nel momento della loro egemonia culturale, il connubio tra pedagogia e filosofia non ha significato - non necessariamente, almeno - «un abbraccio mortale» per l’autonomia del formativo, quanto piuttosto il suo dilatarsi al discorso filosofico tout court, in quanto quest’ultimo si pone come obiettivo la totalità della persona. Tuttavia, nel momento in cui una disciplina perde di vista un orizzonte di delimitazione della sua legittimità, per il principio spinoziano per cui omnis determinatio est negatio, rischia di disperdere il suo peculiare statuto epistemologico e quindi la sua scientificità. Se la scienza è superamento dell’opinione - e da Platone in poi non è lecito dubitarne – la pluralità dei paradigmi pedagogici sembra ricondurre il discorso formativo proprio nell’alveo delle opinioni. L’argomentazione dell’Autore procede in modo serrato attraverso le diverse posizioni storiche assunte dal modello formativo e si volge verso una conferma della legittimità della pedagogia come “scienza”, pur nella varietà del modello. Dal punto di vista dei diversi approcci alla realtà pedagogica, l’Autore individua, come si diceva, proprio nella storia della pedagogia la chiave di volta della scientificità della disciplina, perché la pedagogia generale è animata dalla proposta, dall’aprire prospettive nuove e originali che distinguono un pedagogista da un altro, ma proprio per questo finisce per essere contrappositiva e divisiva. La didattica, invece, pur nell’apparenza di un approccio scientifico, “misurabile” attraverso tassonomie e statistiche, «si basa sul contingente, sul’incontro con una realtà (quella degli alunni) sempre cangiante in una realtà sociale che si trasforma e che si rinnova in continuazione», così da non riuscire ad essere neanch’essa garanzia di scientificità. Solo la storia della pedagogia, terza figura fenomenologica del divenire formativo, assicura stabilità scientifica. Ci sembra evidente come Cavallera consideri ancora attuale la lezione attualistica che faceva della storia l’asse sul quale costruire l’unicità del sapere pur mantenendo la ricchezza della varietà delle posizioni. Concordia discors, diceva Gentile e con lui l’Autore ci ricorda che la storia sono i tanti aspetti che la caratterizzano come scienza del divenire nel tempo, ma «riconducibili all’unità all’interno della ricostruzione, dell’interpretazione, della narrazione. Si comprende allora che l’approccio storico ha sì oggetti diversi, ma ciò che prevale è l’unità». È la capacità unificante della storia a renderne indiscutibile l’approccio; non che manchino, ovviamente, discussioni tra storici, «ma sono discussioni tra parti, ossia tra momenti determinati» che aprono a nuove sintesi. In questo senso è dimostrata la possibilità di mantenere la presenza del momento umanistico all’interno di una disciplina scientifica; a patto, scrive Cavallera, di non considerare l’umanesimo esclusivo delle humanae litterae, per concepirlo piuttosto «come una interazione io-mondo, in cui l’individuo si fa persona, ossia tende a sparticolarizzarsi, a perdere il suo egoismo, a conoscersi portatore ed espressione di valori, e questo sapendosi realizzare non solo con i propri simili ma anche con la realtà a cui appartiene».

Per l’Autore il richiamo alla natura umanistica, valoriale e progettuale del formativo è essenziale al fine di sottolineare l’importanza della dimensione sapienziale e affettiva nella vita umana che sembra ormai un retaggio del passato in una società appiattita sul consumo e sulla logica dell’utile. Inutile, poi, lamentarsi della perdita dell’etica sociale e individuale, invocando al rispetto di norme e statuti estrinseci che lasciano interiormente indifferenti gli individui. Occorre - e qui l’Autore parla da educatore profondo e non solo da studioso - sollecitare l’acquisto di caratteristiche comportamentali e mentali che sono in realtà potenzialmente presenti in noi, in base a quella società trascendentale in interiore homine di cui parlava Gentile. Solo in questo modo la persona può essere in grado di selezionare gli stimoli esterni, vagliandoli alla luce di canoni valoriali autentici e realmente posseduti, senza soggiacere passivamente al «gioco economicistico che pervade la società industrializzata» per vivere autenticamente «in una dimensione più alta, più spirituale, ove trovi davvero compimento il processo formativo e ci si liberi dalle forme di egoismo, di arroganza, di calcolo, di superbia». Allargare il proprio animo per com-prendere la pluralità degli aspetti che caratterizzano una vita autenticamente umana che, se ridotta alla dimensione dell’utile e del successo economico si restringe, si impoverisce e si appiattisce nella ricerca di un benessere esclusivamente materiale. Alla società atomizzata e automatizzata occorre contrapporre persone capaci di stile, non certo nel senso decadente e narcisistico che il termine ha assunto, quanto in quello più proprio della capacità di personalizzare le conoscenze, vitalizzarle, interiorizzarle per non lasciarle «idee inerti» secondo la definizione di Whitehead. Alla società liquida e liquefatta dei nostri tempi occorre contrapporre la solidità dei valori e delle tradizioni che nell’etimo stesso posseggono un richiamo formativo, in quanto consegnano e trasmettono un patrimonio attraverso una storia, una lingua che costituiscono in sostanza un’identità.

Si tratta di temi che possono essere considerati come delle «considerazioni inattuali», ma tutte le crisi possono essere colte come momenti di passaggio, come sembrano testimoniare le manifestazioni, individuali e sociali, di malcontento. Si comincia a riflettere sulla connessione necessaria della democrazia con la sovranità e la territorialità; si comincia ad avvertire con sempre maggiore angoscia il vuoto interiore di vite svuotate di senso perché lasciate sole nelle società del consumo o che comunque al consumo anelano. Le nuove Volkswanderungen minacciano quell’identità - pur nella coesistenza di diversità, anzi proprio grazie a queste - sulla quale l’Europa ha costruito quella stessa società del benessere che le grandi masse di poveri del mondo aspirano a partecipare. Sono elementi che nell’azione educativa vanno tenuti presenti, perché se Ugo Spirito, di cui l’Autore è stato allievo e di cui è attento interprete, affermava che l’educatore deve essere ottimista se non vuole essere una contraddizione in termini, pure l’ottimismo del formativo «non significa essere disattenti nei confronti dei pericoli del tempo, ma conoscerli e cercare di evitarli e di superarli». L’ottimismo non consiste quindi nel fingere di continuare a credere che lo scorrere del tempo sia sempre e comunque un progresso, ma essere consapevoli che nel nuovo secolo è in atto una fase di transizione, nella quale, da un punto di vista educativo, «gli interventi sono prevalentemente rivolti ai meccanismi e alle dinamiche di apprendimento, di socializzazione, di acquisizione di capacità» e di competenze in grado di inserire l’azione formativa nel proprio tempo e nei nuovi contesti: «Più sfumato, se non proprio assente, il riferimento ad una puntuale dimensione valoriale, di là dai riferimenti ai grandi princìpi del rispetto umano, della tolleranza, della solidarietà, della tutela della vita». E la domanda che è sottesa all’analisi dell’Autore è se in assenza di una dimensione valoriale, l’azione pedagogica possa essere davvero capace di integrare la persona nel contesto sociale. Le abilità e le competenze professionalizzanti prive di solidi valori morali - che non sono i moralistici richiami e appelli dai quali siamo quotidianamente sommersi – non sono eticamente neutre, ma eticamente negative perché rivolte all’appagamento egoistico ed edonistico per il quale gli altri sono peggio che un peso, sono rivali da eliminare nella lotta per il successo materiale. Anche per questo, per Cavallera, è proprio oggi più che mai indispensabile la conoscenza storica, capace di svolgere una funzione chiarificatrice e fondatrice: «Chiarificatrice in quanto serve a indicare il “da dove veniamo” e fondatrice in quanto indica il “dove andiamo” e il “dove dobbiamo andare” senza perderci nella cedevolezza del canto delle sirene del contingente, dell’edonismo, dell’economico».

Assecondando questa necessità, il volume compie un’ampia e scientifica disamina della storia della pedagogia, particolarmente di quella italiana, rendendo ragione del titolo scelto dall’Autore. In particolare, di quella gentiliana che in qualche modo precorre la tesi di Cavallera, nell’affermazione che la realtà come pensiero in atto non si consuma nel divenire, ma si manifesta nella storia: «Se la filosofia è pertanto storia della filosofia, la pedagogia è storia della pedagogia». Solo che questa storia non si limita ad essere la rendicontazione di uno stato dell’arte, quanto una problematizzazione che coglie nel divenire storico la chiarificazione dei problemi pedagogici e la conferma di spunti e riflessioni su percorsi di studio che l’Autore più volte segnala al lettore. Lettore che non avrà modo di esprimere quella insoddisfazione che sfugge all’Autore e che lo porta ad affermare: «Siamo stufi di libri da cestinare, o che contengono luoghi comuni, che si sa dove andranno a finire prima ancora di essere letti. Libri che non contengono nel loro interno né vita né erudizione». Un lamento che senza nulla togliere alla scientificità del libro, lo arricchisce di quel pathos personale e vocazionale che lo rende, esso sì, ricco di erudizione e di vita.