Günther Anders, Dopo Holocaust, 1979

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Günther Anders

Dopo Holocaust, 1979

 

 

Torino, Bollati Boringhieri, 2014, pp. 97

ISBN 978-88-339-2588-2, € 13,00

 

 

 

 

 

Può un film provocare lacerazioni nella coscienza di un intero popolo e allo stesso tempo aprire un dibattito storiografico, culturale e civile? Quando Holocaust, una miniserie americana diretta da Marvin Chomsky con James Woods e Meryl Streep apparve nel 1979 sugli schermi televisivi in Europa e in Germania, pochi avrebbero scommesso sulle reazioni contrastanti e sulle infinite discussioni che ne seguirono. Holocaust raccontava in modo molto convenzionale ed hollywoodiano la genesi dello sterminio degli ebrei nel duro decennio 1935-1945 attraverso la storia di due famiglie tedesche, una ebrea, i Weiss, e l’altra ariana, i Dorf, il cui padre di famiglia, spinto dalla disoccupazione, si arruola nelle SS fino a diventare un criminale di guerra al fianco di Hitler. Il film, che non piacque a Claude Lanzmann, il regista di Shoah, era un’occasione per rappresentare l’atrocità e la follia dei crimini nazisti contro gli ebrei, trattando direttamente argomenti come la creazione dei ghetti e l’uso delle camere a gas. Dopo tribunali e processi, il popolo tedesco sembrava rimuovere l’interrogazione su ciò che era accaduto e già nel 1946 il grande filosofo tedesco Karl Jaspers, alla fine della guerra, invitava tutti a guardare nelle stratificazioni della colpa e della responsabilità della Germania, ma tale monito rimase confinato in ristrette discussioni filosofiche di natura accademica, se non risultò addirittura un ingombro fastidioso di cui liberarsi. Come è noto, Jaspers elencava quattro distinti gradi di colpa (criminale, politica, morale e metafisica) da cui muovere per un generale scuotimento delle coscienze. Ebbene, trentatré anni dopo, nel 1979, un altro filosofo ebreo-tedesco, Günther Anders, l’allievo irregolare di Cassirer e Heidegger, il primo marito di Hannah Arendt, rilancia il monito jaspersiano approfittando della proiezione sugli schermi televisivi tedeschi nel gennaio del 1979 di Holocaust, che è visto da venti milioni di tedeschi. L’impatto è forte sul piano mediatico, poco rilevante su quello storiografico, culturale e civile. In realtà ciò che Anders scrive dopo nei suoi appunti è uno straordinario compendio di estetica negativa, perché ciò che Holocaust trasmette «è l’orribile parvenza o meglio la parvenza dell’orrore, che la realtà che percepiamo non riesce a trasmettere come invece riesce a fare il mezzo artistico. E ciò che percepiamo non è la “parvenza”, bensì la realtà di allora che, per essere colta, doveva essere innanzi tutto trasformata in fiction»(p. 59). Proviamo a seguire le annotazioni diaristiche andersiane in Dopo Holocaust, 1979 (con una Prefazione di David Bidussa e la traduzione e la Postfazione di Sergio Fabian), che in parte rinviano al suo precedente diario di viaggio, Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966 (Torino, Bollati Boringhieri, 2008) e lo faremo montando alcune parole essenziali.

Colpa. Holocaust spalanca il vortice oscuro della vita collettiva tedesca. Perché senza Holocaust, verosimilmente, non sarebbe riaffiorato nulla. «Quando le potenze vincitrici coniarono l’espressione “colpa collettiva” non si trattò semplicemente di una formula psicologica astratta o irrazionale, ma della più che comprensibile reazione dei vincitori al totalitarismo» (p. 55). Anders ritiene che sia giusto parlare di colpa collettiva perché vi fu una mancata ribellione collettiva contro lo stato nazista che si era macchiato di crimini efferati. E nessuno poteva dire di non sapere. Dunque, il silenzio, l’omissione sono espressioni della colpa.

Ebrei. Hitler ha trasformato in un postulato la tesi darwinistica che per vivere dobbiamo sopravvivere agli altri. Lo sterminio degli ebrei non fu mezzo bensì un fine e fu il prodotto di un lavoro industriale, compiuto da milioni di uomini medi e insignificanti che il nazismo seppe però trasformare in nobiltà, in élite di massa di milioni di nobili e puri chiamati a realizzare la purificazione del paese dagli ebrei impuri. Anders ricostruisce con straordinaria lucidità l’identificazione di ebraismo e capitalismo stigmatizzata dal dittatore nazista che aveva già sorprendenti progeniture nella Questione ebraica di Marx fino a Grosz e a Weber. «La condizione dell’essere è l’assassinio. […] Modello e personificazione della vittima indispensabile per la sopravvivenza è dunque […] l’ebreo. Auschwitz […] è piuttosto l’incarnazione dell’ontologia nazionalsocialista»(p. 79). I tedeschi non vollero vedere prima né capire dopo ciò che era accaduto.

Etica. «Siamo all’anno zero della nuova etica» (p. 52). Le categorie etiche tradizionali, le filosofie morali dopo Auschwitz e Hiroshima sono diventate obsolete e superflue. Ma ha ancora senso fondare un’etica che sia all’altezza delle sfide di un mondo senza Dio e prossimo ad essere un mondo senza uomo? L’analisi andersiana è implacabile nella presa d’atto che «da un momento all’altro il nostro mondo può rovesciarsi dallo stadio finale in quello della fine del tempo» (p. 52). Allora occorre muovere dal postulato dell’elaborazione nato in ambito psicoanalitico che può fornire in sequenza (trauma – rimozione – presa di coscienza del rimosso – guarigione) gli strumenti necessari perché il popolo tedesco faccia i conti col proprio passato non lasciandosi, però, guarire, ma lasciandosi traumatizzare (pp. 41-42). Holocaust ha messo in moto questo processo e il turbamento che ha provocato in milioni di tedeschi è la condizione possibile per una «guarigione morale» (p. 42). Il filosofo morale non può più far finta di nulla, deve prendere atto che amore e odio, bene e male sono sentimenti antiquati e perciò posizionarsi dentro le questioni drammatiche che riguardano la sopravvivenza del genere umano.

Fiction. Scrive Anders che «solo attraverso la finzione, solo attraverso i casi singoli, l’accaduto e l’innumerabile possono essere resi perspicui e rammemorabili […]. In realtà, il 1978 è il 1945 dal momento che solo oggi è sopraggiunto quello schock che avrebbe dovuto prodursi allora» (p. 30). Essere stati ignoranti o inconsapevoli è la vera colpa dei tedeschi. La finzione richiama la possibilità che il cinema con le sue peculiari strutture narrative possa contribuire a focalizzare il discorso storico assai più dei documentari o degli stessi libri di storia. Prima Marc Ferro, poi Pierre Sorlin hanno spiegato a lungo interferenze e confluenze tra cinema e storia. ll film Holocaust è l’occasione che deve costringere i tedeschi a confrontarsi con il tragico della loro storia. «Ciò che dobbiamo fare, e ciò che il film ha fatto, è ritrasformare le cifre in esseri umani. E mostrare come i sei milioni di gassati siano stati sei milioni di individui» (p. 34). La finzione che fornisce i fatti diventa indispensabile proprio «perché la mostruosità e la dismisura di ciò che accadde, oggi non è più percepibile e conoscibile. […] Questa invisibilità deve essere revocata […] e per questo abbiamo bisogno di lenti, e precisamente non di lenti di ingrandimento, ma di lenti di rimpicciolimento» (pp. 63-64).

Male. Auschwitz e Hiroshima. Auschwitz o Hiroshima? È possibile quantificare e qualificare il male? Furono più malvagi gli auguzzini di Auschwitz o i piloti di Hiroshima? Anders si interroga, propone diagnosi, prospetta epiloghi, lui che aveva dialogato col pilota di Hiroshima Eatherly e si era spinto a scrivere una lunga lettera al figlio di Eichmann, Klaus. «Non esiste solo l’innocenza del male (Eatherly) e la banalità del male (Eichmann), ma anche – anzi non “anche” ma “soprattutto” la malvagità del vero male»(p. 66).Tempi molto diversi erano quelli in cui il male si manifestava nel maligno e in cui dunque si poteva sperare di «vincere il male combattendo contro il male», mentre oggi esso si presenta irriconoscibile e sfuggente perché il male non è più distinguibile dal fondale di un universo quotidiano moralmente indifferente, essendo divenuto esso stesso il mondo (p. 67). Sottolinea con grande acume Sergio Fabian nella magistrale postfazione: «Più il male è abnorme e lontano, più la coscienza fallisce e, proprio dal suo scacco, dice Günther Anders, deriva il senso d’integrità morale, l’attestato di buona condotta che sbianca le coscienze» (pp. 91-92).

Rimozione. Holocaust non solo è l’occasione per ripensare ciò che è accaduto, ma ha il merito di far affiorare il rimosso. È un film magnanimo e filosofico insieme. Dice il trauma o qualcosa di più, innesca procedimenti autoriflessi mai provocati prima nella coscienza di ogni tedesco. «Non solo non ci sono ricordi ma non ci sono nemmeno traumi. Furono indifferenti o si assuefecero all’indifferenza» (p. 37). Se non c’è ricordo non c’è nemmeno trauma.

Questo improvvisato e parziale vocabolario andersiano estrapolato dal testo riproduce rotazioni e derive del pensiero dell’Autore: il ritmo è incalzante, i concetti si solidificano, lo scacco dei sentimenti dilaga in superficie, il male, cambiando segno nella percezione di tanti altri olocausti che si compiono ogni giorno nel mondo dopo il tragico 1945, si fa sempre più attivo e produttivo, il tempo della storia sembra ingovernabile e sgretolarsi in un imminente tempo della fine. Che cosa resta? Quale responsabilità o compito abbiamo di fronte? Forse l’attitudine a camminare in un universo di segni come scuciti (per dirla con Claudio Magris), a condizione che si apra un nuovo capitolo dell’etica che Anders chiama: MAXIMA MORALIA (p. 83).