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Azioni Parallele

NUMERO  7 - 2020
Azioni Parallele
 
Rivista on line a periodicità annuale, ha ripreso con altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.
La direzione di Azioni Parallele dal 2014 al 2020 era composta da
Gabriella Baptist,
Giuseppe D'Acunto,
Aldo Meccariello
e Andrea Bonavoglia.
Sede della rivista Roma.

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AP on line e su carta

 

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LA GUERRA AL TEMPO DELLA PACE
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SCALE A SENSO UNICO
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AP 3 - 2016
MEDITERRANEI
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AP 2 - 2015
LUOGHI non troppo COMUNI
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 AP 1 - 2014
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 I NOSTRI 
AUTORI

Mounier
di A. Meccariello e G. D'Acunto
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Modern/Postmodern
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Solitudine/Moltitudine
ed. MANIFESTO LIBRI

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di A. Meccariello e A. Infranca
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L'eone della violenza
di M. Piermarini
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La guerra secondo Francisco Goya
di A. Bonavoglia
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Tony Judt, L’età dell’oblio.

 

 

 

Tony Judt

L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ’900

 

 

Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 485

ISBN 978-88-420-9632-0, € 20,00

 

 

 

Sulle rimozioni del ’900

Il libro di Tony Judt su L’età dell’oblio affronta le «rimozioni del ’900», attraverso una raccolta di saggi pubblicati su varie riviste internazionali tra il 1994 e il 2006 e divisi in quattro sezioni (Il cuore di tenebra, La politica del compromesso intellettuale, «Lost in transition»: luoghi e memorie, Il (mezzo) secolo americano).

L’Autore, che è professore di Studi europei e direttore del Centro Remarque presso la New York University, disegna un intrigante affresco composto di vari blocchi tematici che si integrano coerentemente alla luce di un filo conduttore: la sua vibrante denuncia della rimozione dell’eredità intellettuale, economica e istituzionale del Secolo breve. Nel dibattito pubblico e in certe tendenze storiografiche e politologiche è infatti diffusa l’errata convinzione che nell’ultimo decennio del secolo scorso si sia entrati in un mondo nuovo, in un’era progressiva e di gran lunga migliore che non ha bisogno di apprendere alcunché dal passato.

Lo storico americano afferma ironicamente che «il passato non ha nulla di interessante da insegnarci», una convinzione largamente influente, a partire dalla fine del comunismo nel 1989-91, vissuta come il «trionfo dell’Occidente» e la «fine della Storia». A dire dell’Autore, però, la fretta di lasciare un secolo alle nostre spalle lascia stupefatti: invece che ricordare, si tende a dimenticare e si dipinge il ’900 come «un palazzo della memoria morale: una Camera degli Orrori Storici di valore pedagogico le cui stazioni sono “Monaco”, “Pearl Harbor”, “Auschwitz”, “Gulag”, “Armenia”, Bosnia, “Ruanda”» (p. 6). Persino gli snodi cruciali del secondo dopoguerra (dalla Guerra dei sei giorni alla crisi cubana, dalla caduta dei paesi comunisti alla politica estera americana negli anni della guerra fredda), costituiscono invece uno strumento essenziale per una lettura politica della storia presente. Ma tra le più rilevanti esperienze che abbiamo dimenticato vi sono, secondo Judt, il significato della guerra, l’ascesa e il conseguente declino dello Stato come Stato-nazione e come Stato politico, lo sviluppo e la dissoluzione definitiva del marxismo, il ruolo pubblico degli intellettuali. «Il Novecento è stato il secolo degli intellettuali […] per definizione “impegnati”: di solito a perseguire un ideale, un dogma o un progetto» (pp. 14-15), come è stato sin dai tempi dell’affaire Dreyfus. E molti sono gli intellettuali presenti in questo libro: da Arthur Koestler a Manès Sperber, da Hannah Arendt ad Albert Camus, da Primo Levi a Louis Althusser. Judt non solo tratteggia biografie esemplari del secolo trascorso, ma ne coglie linee di continuità e di discontinuità rispetto al ritmo impetuoso ed incalzante degli avvenimenti. Particolarmente acuto è il ritratto che l’Autore fa di un suo collega più celebre in: Eric Hobsbawm e il fascino del comunismo (p. 116). In realtà si tratta della recensione dell’autobiografia di Hobsbawm pubblicata da Judt nel 2003 sulla «New York Review of Books». Judt non è affatto tenero con l’autorevole storico inglese che non si accorge della disastrosa esperienza del comunismo novecentesco, né si sforza di capire le tragedie del 1956 e del 1968, provocate dall’invasione dei carri armati sovietici. «Hobsbawm, in breve, è un mandarino – un mandarino comunista – con la sicurezza e i pregiudizi della sua casta» (p. 122). Di tutt’altro tenore è il ritratto che Judt fa di Edward Said, il cosmopolita senza radici, il celebre autore di Orientalismo scomparso nel 2003, che è riuscito con la sua opera, «praticamente da solo, a mantenere aperto in America un dibattito su Israele, la Palestina e i palestinesi» (p. 173).

Tuttavia il saggio di Judt non diagnostica soltanto macerie e fallimenti delle ideologie novecentesche, ma dilata i confini storico-geografici dell’Europa dopo il 1945 indicando cicli e crisi di assetti geopolitici che stanno rimodellando la politica mondiale. La parte terza del libro esplora luoghi e memorie (la catastrofe della Francia nel 1940, l’Inghilterra di Tony Blair, il Belgio nella storia del ’900, la Romania dopo la dittatura di Ceausescu, Israele e la guerra dei sei giorni del 1967) mentre la parte quarta si spinge ad analizzare gli snodi della storia americana durante la guerra fredda, anche nei suoi rapporti con il vecchio continente. L’Autore in più passaggi della sua esplorazione rammenta che «viviamo con il timore crescente di dimenticare il passato, pensando che in qualche modo si perderà tra le cianfrusaglie del presente. Commemoriamo un mondo che abbiamo perduto, a volte prima ancora di averlo perso» (pp. 192-193).

Non ci si può proiettare verso il futuro ignorando i fatti che vengono dal passato, rimuovendo con un colpo di spugna tutto ciò che il ’900 ha prodotto nel bene e nel male. L’ovvietà di questa affermazione è presa invece tremendamente sul serio da Judt, che stigmatizza un vero mutamento del senso storico e della sua relazione con la memoria e l’oblio. Il nuovo senso storico tende a sopraffare la memoria e ad isolare nuovi nuclei fondativi come nel caso degli Stati Uniti d’America, che guardano all’11 settembre 2001 come data simbolica e materiale di una rinascita della nazione. Si sta affermando la pericolosa tendenza di un recupero della memoria che è piegata sempre più a fini politici e comunque legati alle esigenze attuali, senza rispetto per la dimensione storica nel vero senso del termine. Questo libro robusto e ricco di stimoli può essere letto in molti modi come un’infinita argomentazione intorno alla perdita della memoria storica e collettiva che, per essere rianimata, deve attraversare deserti senza più stelle polari.