Sull’oceano dell’oblio, di Alexandru Dragomir

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Alexandru Dragomir

Sull’oceano dell’oblio*


(cfr. l'introduzione di Gabriella Baptist)

 

Non intendo avanzare una tesi particolare; la mia sola ambizione è quella di condividere con voi ciò che mi sembra essere l’oblio.1

Tutto ciò che ci accade è còlto. Per dire il modo in cui cogliamo tutto ciò che ci accade Husserl ha utilizzato il termine “ritenzione”. Tutto ciò che mi accade mi è dato in modo ritenzionale, il che significa, per esempio, che quando ricordo che qualcuno mi ha detto una certa cosa – diciamo: che avevo detto una stupidaggine – io ricordo sia quando, sia in quale occasione questo mi è stato detto. Certamente è possibile che io abbia trattenuto erroneamente nella memoria qualcosa che mi è successo: non era stata quella persona a dire che avevo detto una stupidaggine, ma un’altra; non lo aveva detto esattamente a quel modo, ma in un altro; anche il momento in cui lo ha detto può essere stato memorizzato in maniera erronea. In ogni caso la costituzione della nostra memoria ha comunque queste due caratteristiche: riteniamo nella memoria ciò che ci accade e ricordiamo sempre anche le circostanze dell’evento e una certa data a questo connessa. Questa “ritenzione”, come la chiama Husserl, costituisce man mano il nostro capitale di ricordi, indipendentemente dal fatto che questi ricordi possano alterarsi con il passare del tempo, sia riguardo al loro contenuto che rispetto alla loro datazione.

Di fatto, se rifletto su che cosa accade alle cose che tratteniamo nella memoria, posso distinguere tre situazioni: in primo luogo queste possono essere trattenute correttamente per un lungo periodo, cosicché me le ricordo dopo qualche giorno, dopo un anno o dopo diversi anni. Oppure, in secondo luogo, posso trattenerne il ricordo, ma, come stavo dicendo, con errori di contenuto o di datazione. Oppure, infine, posso semplicemente dimenticare sia che cosa è accaduto, sia in quali circostanze, sia quando esattamente.

Se le cose stanno così, allora dovremmo chiedere – anche se la questione può forse essere mal posta – quanta oggettività abbiano i nostri ricordi. Quante delle cose che ci sono successe sono ritenute nella memoria e quante di quelle trattenute lo sono correttamente sotto ogni aspetto? Coloro che hanno una buona memoria preservano i loro ricordi nel loro contenuto e secondo la loro datazione. Se, d’altro canto, alteriamo qualcosa di ciò che è avvenuto, questo significa che avviene una deformazione della facoltà della memoria. Questo non significa affatto che si ha a che fare con una malattia mentale. Un gran numero di motivi possono indurre una persona a deformare i suoi ricordi, sia poi che questo avvenga coscientemente o resti inconscio.

Ma che cosa significa dimenticare? La risposta è alla portata di ciascuno: dimenticare significa perdere qualcosa di ciò che so o di ciò che ho saputo una volta. È evidente che non posso dimenticare qualcosa che non ho mai saputo. Comunque a questo punto sento il bisogno di sollevare un problema che solitamente non siamo soliti porre e al quale non è facile dare una risposta: quanto si dimentica, e perché, e quanto si ritiene invece nella memoria, e perché, di ciò che si è saputo una volta? Una risposta indubbiamente corretta, ma solo provvisoriamente, potrebbe essere: noi tratteniamo nella memoria e ci ricordiamo quando e per tutto il tempo in cui siamo interessati all’oggetto ricordato. Oggetti che non hanno per noi più alcun interesse hanno la massima probabilità di essere dimenticati e perduti. E allo stesso modo, quando non dimentichiamo che cosa ci è successo e ciò che abbiamo saputo? Quando il ricordo resta vivo in noi per ragioni che riguardano la nostra vita interiore.

Comunque nel dare una risposta del genere restiamo, con Husserl, su un piano soggettivo. Ma mi interesserebbe sapere quanto si trattiene nella memoria e quanto si dimentica oggettivamente di tutto ciò che avviene e di tutto ciò che sappiamo. E qui la risposta, sebbene sia evidente e semplice, è in realtà sorprendente: si perde molto di più di quanto si tiene a mente. Un vero e proprio oceano di cose entra nel regno dell’oblio in confronto con la scarsità di ciò di cui ci ricordiamo e che sappiamo. E giacché esiste un vero e proprio baratro tra quanto avviene realmente e quanto si trattiene nella memoria, il lavoro della ritenzione di quanto è successo diventa subito significativo. E qui di nuovo è importante constatare che alcune cose accadono e il loro ricordo è coltivato, mentre altre sono abbandonate all’oblio, come si dice in romeno. Parte delle responsabilità dei ministeri della cultura dappertutto nel mondo consiste precisamente in questo mantenimento del ricordo di ciò che è unanimemente considerato degno di essere ricordato e che perciò non deve essere lasciato in preda all’oblio. Tutto rientra in questa rubrica, dalle pietre tombali, alle chiese, ai monumenti e persino i discorsi. Si tratta sempre di due piani distinti: l’evento in quanto tale e il lavoro necessario a mantenere il ricordo di questo evento. E se parliamo di oblio è precisamente perché ci preoccupiamo del lavoro necessario a mantenere il ricordo. Quando parlo de “il lavoro del mantenere il ricordo”, ho in mente una delle più importanti attività umane, un’attività che ha le sue tecniche, che comporta un’istituzionalizzazione e fa ricorso a specifici mezzi di azione nella sfera interiore e spirituale.

Nonostante esista tutta questa attività, nonostante tutti gli sforzi umani possano ottenere risultati importanti, resta il fatto oggettivo che la maggior parte della realtà finisce nel dominio dell’oblio. Come ho già detto, abbiamo un intero oceano dell’oblio in confronto col minuscolo lago del ricordo. Ma ciononostante lo sforzo immenso del preservare deve essere considerato separatamente. È impressionante il fatto che possiamo ancora leggere – dopo 2.800 anni! – l’Iliade e l’Odissea. In linea generale tutta la nostra cultura consiste in effetti di tutto ciò che si è potuto salvare dal naufragio dell’oblio.

Comunque, si profila un nuovo problema: nel salvare tutto ciò che riesce a salvare, lo spirito umano applica sempre una giusta misura? Ci affrettiamo a rispondere: se oggi sappiamo chi è Omero è solamente perché 2.800 anni fa egli ha creato dei veri e propri capolavori. Diciamo lo stesso di Shakespeare e di un gran numero di altri eiusdem farinae. Siamo poi inclini a credere, quando si tratta delle creazioni dei nostri tempi, che si preserverà ciò che è di maggior valore e solo per il fatto che ha un valore. Ma ho molti dubbi in proposito. Perché? Perché la misura che si applica a queste creazioni, in altre parole il nostro giudizio, appartiene ad un certo Zeitgeist. Consentitemi di proporre il primo esempio che mi viene in mente. Quando ero uno studente, ci chiedevamo chi fosse il più grande poeta del nostro tempo. Come gli altri, io credevo e insistevo fortemente sul fatto che, per quanto riguardava la poesia, Rilke, l’autore dei Sonetti e delle Elegie, fosse insuperabile. Che egli fosse né più e né meno che un nec plus ultra. Soprattutto dopo essermi sforzato di padroneggiare il tedesco dei Sonetti a Orfeo, tutto mi sembrava essere di una bellezza senza pari. Dopo la grande stagione di Goethe e Schiller, gli altri poeti sembravano dei pigmei in confronto con Rainer Maria Rilke. Egli saliva sul podio della poesia universale ottenendo la medaglia di bronzo, se non la medaglia d’argento. Così ho incominciato a pensare che Rilke rappresentasse il culmine insuperabile della poesia e che nulla potesse più venire dopo di lui. Oggi non credo affatto che la selezione operata abbia un significato assoluto. Mi chiederete allora chi metterei al suo posto e come sarebbe articolata una selezione giusta. Risponderei innanzitutto che si potrebbero citare anche altri nomi e risponderei soprattutto che, in generale, non ci si pone più il problema di scegliere chi sia il più grande tra i poeti, gli autori o le correnti. E in secondo luogo risponderei che nel frattempo ho imparato che anche le culture e le civiltà muoiono.

Che cosa merita di essere ritenuto nella memoria di tutto ciò che ho detto finora? In primo luogo che la norma è l’oblio e che, sebbene rappresenti un fenomeno negativo e che non sembra essere necessario, l’oblio è parte della nostra natura e ha effetti decisivi sulla natura della realtà. Ne risulta un secondo aspetto, e cioè che l’evento non può essere preservato senza uno sforzo di mantenimento, che il nostro passato è fatto di ciò che è stato preservato, che la nostra storia e ogni sua parte è tutto ciò che si è potuto salvare da un naufragio. Non credo ne siano consapevoli né l’uomo comune né l’uomo di cultura. Quest’ultimo lavora con materiali che tende a confondere con la realtà passata, piuttosto che vedervi quel poco che se ne è potuto conservare. In altri termini, non è affatto consapevole che si tratta di un resto salvato dal naufragio dell’oblio. Per finire, l’aspetto più vulnerabile di tutta questa storia è che la conservazione presuppone una selezione e non abbiamo argomenti e prove per dimostrare che questa selezione è stata effettuata in maniera obiettiva. Tutto il resto non selezionato – il cumulo di fatti, eventi e canali attraverso i quali circola l’informazione e anche i documenti – è condannato, attraverso l’oblio, a non essere. Da questo punto di vista, il lavoro culturale sembra derisorio in confronto a tutto ciò che rimane destinato all’oblio. Ciò che ho voluto comunicarvi è che siamo tutto il tempo installati dentro un oceano di oblio.

(Traduzione di Gabriella Baptist)

 

* La traduzione è stata inizialmente effettuata a partire dalla versione inglese (About the Ocean of Forgetting) pubblicata in «Studia Phaenomenologica», IV (2004), n. 3-4, pp. 183-186, è stata successivamente confrontata con la traduzione in francese, Sur l’océan de l’oubli, in A. Dragomir, Banalités métaphysiques, Paris, Vrin, 2008, pp. 240-244, così come con il testo originale in lingua romena, Despre oceanul uitării, in Id., Crase banalităţi metafizice, Bucuresti, Humanitas, 20102, pp. 120-125. La traduzione in italiano avviene grazie alla gentile autorizzazione della casa editrice Humanitas, detentrice dei diritti d’autore, e grazie alla generosa mediazione del prof. Cristian Ciocan, direttore dello “Alexandru Dragomir – Institute for Philosophy”, fondato nel 2009 sotto gli auspici della Società romena di Fenomenologia. Ringraziamo entrambi con viva cordialità. [Nota del traduttore].

1 Questo testo raccoglie una delle numerose “piccole conferenze” tenute da Alexandru Dragomir a partire dal 1995. Queste erano presentate nel corso dei nostri incontri come delle “comunicazioni brevi” di 15 o 20 minuti, di fatto si trattava in genere di meditazioni ispirate dalle realtà con le quali tutti ci confrontavamo dopo il dicembre del 1989. Il testo si basa sulla trascrizione di una registrazione approntata da Sorin Vieru [nota dell’editore].